Materiali di studio – 1. La scomparsa della tragedia

[1. Antigone.]

Antigone non solo parla «in nome e per conto» dei (diritti dei) morti, Antigone parla da morta. È questo che le conferisce l’assoluta libertà con la quale parla a Creonte.

Già dentro la morte, Antigone promulga le sue disposizioni testamentarie, che sono di pari forza (Hegel) o superiori (Kierkegaard) alle disposizioni regolamentari di Creonte.

Facciamo un passo avanti, o indietro.

Per capire da quale dimensione Antigone parla, basta considerare la natura del testamento come atto di disposizione del mondo futuro. Colui o colei che fa testamento, ed anche chi lo fa in limine mortis, parla ancora da vivo, ed in fondo non crede alla morte, che sta sempre un po’ più oltre il presente. Chi fa testamento ha ancora davanti a sé un po’ di futuro.[1] Antigone non fa testamento, perché non ha futuro davanti a sé. Antigone legifera sul passato, perché è già nel post-futuro (per distinguerlo dal futuro).

Le lettere dei condannati a morte della Resistenza antifascista, che per certi versi si trovano in una condizione analoga a quella di Antigone, pensano in realtà al futuro, all’adorata moglie, agli amatissimi figli, ai genitori, ai fratelli, e contengono la consapevolezza che il sacrificio non sarà (futuro) vano, perché sono scritte dalla parte della giustizia del futuro.

Antigone non sente di appartenere al futuro. La sua famiglia è tutta nell’Ade, eccetto Ismene.

Per misurare la distanza che separa Antigone dal nostro mondo moderno basta pensare al fatto che oggi non è più praticata neppure quella forma debole di verità ultima che è il testamento. Oggi, per lo più, si muore senza testamento. E non solo perché la legge si surroga a tutto, e perché vi sia la quota legittima per i famigliari superstiti. La nostra tragedia è l’assenza di tragedia. Il tragico presso di noi, scrive Friedrich Hölderlin in una lettera,[2] è che «… ce ne andiamo dal regno dei vivi del tutto silenziosamente, impacchettati in qualche contenitore, e che non espiamo, divorati dalle fiamme, la fiamma che non abbiamo saputo padroneggiare.»

Nel testamento giuridico la morte è sì un evento futuro (incerto nel quando, non nell’ an, direbbero i latini), ma pur sempre preso in carico dal disponente. La morte senza testamento è una non presa in carico della morte. La morte diventa così un arrestarsi della macchina biologica, nulla più.

Da questa odierna lontananza al quadrato dalla morte noi oggi ascoltiamo, ma senza davvero comprenderla più, la voce di Antigone.

Neppure il suicidio, che potrebbe sembrare un atto analogo alla scelta di Antigone, e che in effetti si avvicina molto ad Antigone, neppure il suicidio replica la posizione di Antigone, perché il suicida, quand’anche lasci un biglietto di spiegazioni, sceglie di non parlare più, di affidare al rimbombante silenzio la promulgazione della propria tragedia, mentre Antigone, da una posizione più arretrata e non più negoziabile (a differenza della tormentosa auto negoziazione che normalmente accompagna il suicidio), parla e legifera.

[2. ὕβϱις e νέμεσις ovvero la nascita della coscienza. ὕβϱις come effetto rebound del confronto. La nascita della divinità.]

Si è soliti affermare che il mortale che si è sentito, che ha osato rendersi per statura e potere simile agli dei si sia macchiato indelebilmente di ὕβϱις e che, pertanto, prima o poi, verrà raggiunto e castigato dalla νέμεσις. L’esempio classico è Capaneo, che sugli spalti di Tebe sfida il potere di Zeus, e viene incenerito dalla folgore.

La felicità umana (quello che possiamo intendere con tale locuzione) è intrinsecamente vincolata al confronto con la minore felicità o con la maggiore infelicità altrui. Nella gloria del successo, nel momento del trionfo e del massimo potere l’essere umano ha bisogno, per poter constatare e misurare il proprio successo, trionfo e potere, del confronto con chi non ha o con chi più non ha potere. Qualcosa di analogo al celebre rapporto servo-padrone di hegeliana memoria è qui all’opera.

Gli dei c’entrano poco. O molto, come vedremo. Quando il trionfatore trionfa non si accorge, ovviamente, di macchiarsi di ὕβϱις. Se qualche indovino, qualche Tiresia, glielo sussurra all’orecchio, o il coro della tragedia glielo insinua con parole ambigue, il trionfatore o non ascolta (Giulio Cesare, Shakespeare), o fa mettere a morte l’indovino o chiude i teatri, o tutte e tre le cose insieme. Poi avviene che il trionfatore cada in rovina. E allora quel confronto che era stato necessario istituire per misurare l’estensione del dominio del proprio potere, ritorna, non invitato, ospite sgradito, a fare altre misurazioni. È a questo punto, non prima, che entra sul proscenio della coscienza sconfitta ὕβϱις, che al momento della gloria era rimasta acquattata in silenzio in un angolino. Ora prende la parola. E comincia a spuntare le unghie all’ex (ormai) trionfatore. Quel gusto dolce del successo proprio e dell’altrui sventura si cambia in un che di amaro. Un fuocherello si accende nell’anima e l’anima inizia a bruciare di vergogna, quella stessa che devono aver provato i soccombenti al momento, ormai un pallido ricordo, del successo dell’ex trionfatore. Più grande fu allora la gioia, più sconfinata diviene ora la disperazione. Il confronto si è rovesciato nel suo opposto, è tornato a casa con effetto rebound. Lo sconfitto maledice ora il mondo, la vita e la coscienza stessa che nasce per la prima volta come rimorso.

Che c’entrano gli dei in questa dialettica del potere solo e soltanto umana?

Se non ci fossero queste entità para divine che si impossessano del mortale traviandolo e dominandolo (ὕβϱις) e poi punendolo (νέμεσις), il mortale sarebbe gettato in una notte ancora più buia, più sconfinata. I Greci, che lo hanno forse per primi capito, hanno partorito dalle loro profondità arcaiche dei rimedi, che sono appunto degli dei.

Avendo essi compreso che ὕβϱις e νέμεσις sono connaturati alla felicità/infelicità umana, in altre parole al destino umano, e non solo al singolo eroe malvagio e tracotante, hanno, con un rimedio simbolico ma decisivo, contenuto entro limiti accettabili, benché tragici, lo smarrimento dell’io nella deriva senza fine del confronto con l’altro.

[3. La legge della tragedia. La scomparsa della tragedia.]

Nelle Note all’«Edipo»[3] Friedrich Hölderlin espone la «legge calcolabile» che governerebbe la tragedia greca.

Questa legge garantisce l’equilibrio strutturale della tragedia, come una legge della scienza delle costruzioni.

La legge è «ciò che in metrica si chiama cesura, la parola pura, l’interruzione antiritmica […].»

La cesura viene a dividere la tragedia, il succedersi delle rappresentazioni che la costituiscono, in due metà. La cosa interessante, che rende straordinaria l’intuizione di Hölderlin, è che tale cesura non cade al centro per così dire geometrico della tragedia, ma cade o più verso l’inizio o più verso la fine. La cesura serve a riequilibrare uno squilibrio, serve a «difendere» una parte della tragedia dall’altra, cioè a difendere la tragedia da se stessa. È come quando una barca si inclina pericolosamente da un lato, e rischia di ribaltarsi e il timoniere ordina ai naviganti di spostarsi dall’altro lato. La cesura sarebbe questo «contrappeso», una misura di salvaguardia per evitare alla tragedia di inabissarsi. Nell’Edipo la cesura, secondo Hölderlin, si troverebbe quasi all’inizio, e sarebbe costituita dai discorsi di Tiresia. Il «ritmo delle rappresentazioni è fatto in modo tale che, in eccentrica rapidità, le prime sono più trascinate dalle seguenti, allora la cesura o l’interruzione antiritmica deve ritrovarsi all’inizio, cosicché la prima metà è, per così dire, difesa contro la seconda e l’equilibrio, dal momento che la seconda metà è originariamente più rapida e pare pesare maggiormente, grazie all’azione contrastante operata dalla cesura, s’inclinerà di più dalla fine verso l’inizio.»

Nell’Antigone si avrebbe invece una inversione della posizione della cesura, collocata più verso la fine, e segnata parimenti dai discorsi di Tiresia

*   *   *

Questa «legge calcolabile» della tragedia (al di là di ciò che se ne possa pensare nel merito, è interessante che Hölderlin la esponga con una sicurezza che, dovendo escludersi la boria del gradasso o del dilettante, è spia di quella certezza ragionata tipica della incontrovertibilità che accompagna uno scienziato quando rinviene una legge di natura) mi stimola ad un saccheggio metodologico per esporre in breve (e con una sicurezza infinitamente minore a quella di Hölderlin ) una legge che riguarda il romanzo.

Nel romanzo la tragedia è un’eco lontana, una sorta di rumore di fondo o di «frequenza cosmica». Il romanzo ha seppellito la tragedia, ma senza ucciderla del tutto. Il romanzo ha fatto con la tragedia quello che i nazisti fecero sovente con i loro prigionieri. Li fucilavano con un colpo alla nuca sull’orlo di una fossa comune (fatta ovviamente scavare dai medesimi morituri), dove cadevano dopo il colpo. Poi, a lavoro ultimato, i nazisti facevano ricoprire di terra la fossa da altri prigionieri, prossimi morituri. Non di rado accadeva che si vedesse il terreno «sobbollire», perché qualche prigioniero cadeva nella fossa ferito ma non ancora morto, il colpo non essendo andato a segno completamente.[4]

Ecco, poniamo che il rapporto tra il romanzo e la tragedia stia in questi termini.

E il coro della tragedia? Che fine avrebbe fatto? Dove è scomparso, dove si è nascosto? Dove sobbolle?

Sulle tracce del metodo di Hölderlin avanzo questa legge: il coro si nasconde dietro gli incisi e le parentesi. La voce della polis, la voce degli dei, la voce del mito e dei morti, la contro-voce del romanziere si acquatta negli incisi, nelle apposizioni talvolta, nelle antifrasi, nelle digressioni.

Il romanzo ha due voci e due pensieri: quello dell’autore e quello del contro-autore (ciò che resta del coro).

L’univocità del romanzo attuale è, da questo punto di vista, la fine del romanzo.


[1] Non sarà un caso se il tono dominante del testamento è giuridico e lirico-conciliativo («vi ho voluto bene», «scusatemi se talvolta…», «cercate di volervi bene e di andare d’accordo…»), scevro di recriminazioni, accuse, maledizioni, ecc. (chi scrive cose del genere nel testamento è messo in un angolino di comprensione dai familiari superstiti, bisogna capirlo, lui era così, però in fondo era buono o non era cattivo, [de mortuis nihil nisi bonum]… Nei casi più estremi si mormorerà di follia, quindi di cose scritte ma non degne di seria considerazione). Il testamento è sotto un auto-censura.

[2] Lettera di Hölderlin a Böhlendorff, citata in F. H. Hölderlin, Sul tragico, Feltrinelli, 1980, Saggio introduttivo di Remo Bodei, p. 39.

[3] Friderich Hölderlin, Edipo il tiranno, Feltrinelli, UEF, introduzione Franco Rella, traduzione e cura Tomaso Cavallo, pp. 193-201.

[4] Se non ricordo male, vi sono testimonianze per le quali i nazisti lo facessero di proposito, di lasciar cadere nella fossa prigionieri ancora vivi. Qui ci sono due interpretazioni, anzi tre: secondo la prima si trattava di mero sadismo; la seconda propende per un fatto di risparmio di munizioni; secondo la terza si trattava invece di una precisa tecnica terroristica per far capire ai «giustiziandi» che c’era poco da ribellarsi, e che c’era un grado ancora peggiore della pallottola alla nuca, ed era quello di chi finiva vivo nella fossa. La pallottola alla nuca era una fortuna, qualcosa cui anelare in quegli istanti fatali, una benedizione.

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