Serpente trovato in una tasca

Nel racconto di Cortazar che si svolge nella metropolitana di Parigi (Manoscritto trovato in una tasca) è all’opera uno stupore primario, lo stupore del letterato che ha trascorso anni sulle pagine dei libri, che ha usato la vista interiore molto più della vista esteriore e che nella fuggitiva bellezza che si presenta alla vista esteriore in un vagone della metropolitana avverte una fitta di dolore immensa, fitta di dolore che non può ricevere chi invece non abbia sospeso per lunghi anni la vista esteriore. La bellezza di una donna per un pittore o per un regista è una divina conferma, per il poeta, questo allupato visuale, una tragedia. Negli occhi di quella beltà germe l’uragane.

Rivolgere la parola a una giovane sconosciuta nel vagone della metropolitana significa infrangere un codice del silenzio, un codice non scritto in nessuna avvertenza, un imperativo invisibile la cui sanzione non è pecuniaria e non è elencata da nessuna parte. Nella metropolitana, come nelle cripte paleocristiane, sembra che il mistero della persona sia intangibile e inattingibile.

Manoscritto trovato in una tasca è uno dei racconti struggenti di Cortazar, una metafora della fragilità e della precarietà dell’incontro e del discorso amoroso. Il racconto presuppone una donna ancora giovane ma con una interiorità già sfibrata, una giovane donna sfinita dal lavoro e dalla vita che corre verso casa per riposarsi sul divano. Le donne di questo racconto escono dai film di Rohmer, più che di Antonioni. Non sono truccate, non sono scaltre e non sono scafate, sono trepidanti nell’amplesso, sono sole, non vengono o se vengono vengono per sfinimento. Sono romantiche, in un’epoca già poco romantica. Monna Lisa cyber punk è di là da venire. In questo racconto di Cortazar può trovare ricetto il maschio predatore metropolitano convertito a più miti consigli dopo una ferita (i ragni) che la vita gli ha inferto, dopo una delusione amorosa, una morte, un abbandono, una tragedia collettiva cui sia miracolosamente scampato. Nella metropolitana di Parigi si incrociano i destini (Cortazar e Calvino erano amici) e rischiano di non trovarsi. Questo è il nucleo del racconto, del manoscritto trovato in una tasca.

Oggi la metropolitana di Parigi non è quella degli anni Settanta. Non è una geometria di destini ma una foresta africana. L’anonimato c’è ancora, anzi, la sua invulnerabilità è ancora più assoluta. Le ragazze di Cortazar guardavano fuori dal finestrino (ma cosa, nella subway?) o incollavano gli occhi alla loro borsetta rossa; le ragazze di oggi hanno l’auricolare e tengono gli occhi incollati allo schermo dello smartphone. Sono tristi. Sono stanche e distrutte come le ragazze di Cortazar. Raramente sorridono allo smartphone.

Sto seduto su un sedile ribaltabile di un vagone della M7. Sono con mia figlia di otto anni, con mia sorella, suo marito e la loro figlia di due anni. Siamo saliti a Raspail, direzione nord, La Courneuve, dobbiamo scendere a Aubervilliers – Pantin – Quatre Chemin. Io sto leggendo qualche riga del libro Sull’Iliade di Rachel Bespaloff, e c’è l’immagine potente del dio Apollo. La trovo meravigliosa. Sotto terra il sole rifulge in maniera più plotiniana. Alla fermata di Gare de l’Est salgono due ragazzone nere. E mi si piazzano davanti, a pochi centimetri dal libro che ho in mano. Sono corpulente, la coscia di una, insaccata nei blue jeans, prossimi al cedimento strutturale, è qualcosa di portentoso. Penso al volo che, anche con tutta la buona volontà, non riuscirei a scoparmerla. E penso che io sono abbondantemente fuori dall’agone della caccia sessuale. Immagino per un istante un energumeno negro che la possiede, come un domatore di circo. Alzo gli occhi da Apollo: non ci siamo proprio. Sono massicce, pienotte, non agili pantere nere. Indossano entrambe una giacca bianca. Prostitute? Non sembrerebbe. Una è riccia, a guardarla meglio non è neppure brutta. L’altra è più feroce. Sono lontane le ragazze diafane di Cortazar. Quando il vagone si libera un po’, alla fermata di Stalingrad, vanno a sedersi su un sedile alle mie spalle. Torno sulla Bespaloff. Dopo poco sento mio cognato che dice qualcosa a mia sorella. Mi sembra allarmato. Torno su Bespaloff. Sento che anche mia figlia, che siede vicino a loro, fa una domanda allarmata. Allora chiedo che succede. Sento la parola serpenti. Cosa? Sì, quelle due ragazze nere hanno un serpente al polso. Ma sarà finto, dico. No, replica mio cognato, ho visto la lingua muoversi. Ma come, dico io, mi sono state a due centimetri dal naso! Ruoto di centottanta gradi. In effetti quella riccia ha un serpente al polso sinistro. È un colubride. Sento mio cognato che dice velenoso. La lingua comunque si muove, questo è innegabile. Penso a Cleopatra. Alle aspidi. A Plutarco. Il mio sguardo è irrimediabilmente fuori dal mito greco. Incredulo scruto questo serpente che fa capolino sul polso della riccia. Noto che un viaggiatore che siede di fronte alla nera cattiva sta facendo un video con il suo cellulare, con il placido avallo della riccia. Sono fiere di essere riprese. Quindi non sono cattive, non vogliono compiere un atto ostile di terrorismo con mezzi atti a seminare il panico. Mio cognato in effetti sta parlando di panico. Io resto incantato dal serpente. Si sente un annuncio dall’altoparlante. Il treno si ferma. Strano. Ci fanno scendere. Aspettiamo sulla banchina l’arrivo di un altro convoglio. Le due nere vestite di bianco si dileguano. Poco prima erano saliti i controllori: chissà cosa avrebbero fatto i controllori vestiti di verde quando le nere di bianco vestite gli avessero porto il biglietto, sempre che lo avessero fatto. Fuori dalla metro mio cognato mi dice che anche l’altra aveva il serpente al polso.

La voce narrante di Cortazar dice di essere roso dai ragni. Le ragazze hanno i serpenti. Qui finisce l’analogia zoologica metropolitana. Le ragazze di Cortazar sono prede isolate. Queste girano in coppia e non sono prede. Hanno i serpenti al polso, un monile pregiato, un talismano, un simbolo per la loro religione, chissà. Non si sa dove vadano, non le seguo. Noi risaliamo sul convoglio sostitutivo che nel frattempo è arrivato e abbiamo solo un’ultima fermata. Fortuna che erano brutte, penso. Se fossero state belle, nonostante la figlia al seguito, nonostante una relazione a casa, i ragni mi avrebbero lasciato in pace o avrebbero cominciato a mordere dentro? E quanto sarebbe stato difficile non mettermi a seguire quelle giacche bianche, quei polsi inanellati? Quanto difficile sarebbe stato tornare al dio Apollo?

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...