Superjet Aeroflot

L’immagine, la sequenza di immagini drammatiche del rogo del super jet dell’Aeroflot ha qualcosa di agghiacciante. Mentre la parte posteriore è in fiamme e dentro stanno bruciando vivi più di quaranta esseri umani, tra cui due bambini, si vedono alcuni passeggeri superstiti che si allontanano a piedi dal velivolo.

5 maggio 2019. Mosca, aeroporto di Sheremetyevo

I media internazionale hanno messo in risalto come il comportamento di alcuni passeggeri, che al momento dell’evacuazione si sarebbero attardati a ritirare dalle cappelliere il loro bagaglio a mano, avrebbe ostacolato l’esodo e determinato la morte di alcuni altri passeggeri che avrebbero diversamente potuto scampare al rogo.

Nell’immagine i bagagli a mano dei passeggeri superstiti che si allontanano dall’aereo in fiamme sono cerchiati in rosso.

Ciò che però, di questa immagine, risulta agghiacciante, è un’altra cosa. I passeggeri superstiti, benché ormai abbondantemente fuori dall’area di rischio, non si fermano, non si voltano indietro. Non si riuniscono in capannello. Non si abbracciano. Se non ci fosse, alle loro spalle, il rogo dell’aeromobile, si direbbe che quei passeggeri si stiano dirigendo, con i loro trolley, a prendere il prossimo volo.

Non intendo giudicare, perché io sto qui a scrivere sulla tastiera e quelle persone hanno certamente vissuto momenti di panico. Sicuramente sono sotto shock. Ma, appunto, se uno è scioccato, non gliene importa niente del trolley, cerca un aiuto, urla, si dispera, piange di quel pianto speciale che è il pianto dei salvati ancora increduli. Non intendo quindi giudicare.

Questa immagine è tragicamente indicativa.  A me è sembrata e sembra una metafora della nostra condizione umana globale. Mentre la maggioranza dei passeggeri resta intrappolata tra il fumo e le fiamme, la minoranza si mette in salvo, e nemmeno si prende la briga non dico di aiutare, che non lo potrebbe, ma di guardare.

Il super jet dell’Aeroflot è come il nostro mondo, il nostro pianeta terra, tranciato in due tronconi: il primo in fiamme, il secondo illeso. A incendio domato sembrano due entità distinte e incomunicanti, non le due parti di un medesimo oggetto.

Siamo ad un’apocalissi, ad un disvelamento. Se ci facciamo caso, i passeggeri superstiti non si girano neppure per fare un video con il proprio telefonino. Si è molto detto su come la società dello spettacolo abbia esteso a dismisura, all’epoca dei social, lo spettacolo del dolore. Qui sembrerebbe che siamo in presenza di una clamorosa smentita. E invece no. Questi passeggeri non si riuniscono, non si abbracciano, non piangono, ma da video che si possono guardare in rete si vede che poi, singolarmente, mentre il rogo continua alto a levarsi, hanno il telefonino all’orecchio, fanno chiamate, probabilmente a casa, e forse scattano anche qualche foto. Fortunatamente c’è un altro video, di fonte russa, Первые минуты после эвакуации с аварийного SSJ-100
(https://www.youtube.com/watch?v=Q3w4_9CoOIA ), che mostra una hostess con il suo intatto abito rosso sulla pista che soccorre un’anziana donna intossicata. Colonna sonora parte, questa è un’immagine di epica contemporanea.

Nel suo nuovo libro Lo stradone (Ponte alle Grazie, 2019), Francesco Pecoraro parla dell’incidente di moto che ha avuto il narratore. Scrive: «Chi non ha mai avuto un incidente di moto, non solo non ha testato la durezza ruvida dell’asfalto quando ti viene dato su una spalla o in testa o sulla gamba, quando ti colpisce la caviglia e te la spezza, ma non sa della bontà premurosa del civis che subito accorre, come non conosce davvero la sanguinaria ferocia del traffico urbano, che in quegli attimi si svela in tutto il suo essere forza bruta in movimento dotata di accelerazione, di velocità e soprattutto di massa: un peso in movimento che non guarda in faccia nessuno pur di procedere verso gli scopi individuali, quasi sempre futili, che lo compongono.»

La bontà premurosa del civis è quella del pedone, ipotizzo, di uno che stava fermo al semaforo e ha visto l’incidente. Il pedone condivide una condizione di vulnerabilità stradale, e pertanto solidarizza con l’incidentato, sospendendo il suo moto verso gli scopi individuali del sugo o dei figli o della palestra, e prestando soccorso e conforto.

Il traffico è, invece, un dio infero che ci trascende. Nell’immagine da cui siamo partiti sembra che i superstiti facciano parte di quel traffico, di quella massa dotata di una accelerazione einsteniana. Non possono fermarsi, non possono abbracciarsi, non guardano in faccia nessuno, gli scopi individuali li trascinano via.

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