In quell’epoca, come in ogni epoca, ma più ancora in quell’epoca le persone normali non volevano sentir parlare di poesia, e soprattutto non volevano sentire né, tantomeno, leggere poesie.
Se qualcuno, ad un pranzo, per esempio, e dopo la frutta proponeva di leggere una poesia, si levava unanime un coro di ironici «anche no», di annoiati «te prego», di sarcastici «rieccolo», «aridaje», di commiserevoli «’mo anche questo».
Il più culturalmente scafato, sornionamente scorretto, citava il noto detto di un ministro della cultura, adattandolo all’occasione: «Quando sento parlare di poesia, tiro fuori la rivoltella.»
La conversazione attorno alla tavola ancora apparecchiata riprendeva il suo placido corso, come una nave da crociera che avvista uno scoglio ma poi si capisce che è solo un ammasso di alghe e di plastica.
La poesia, in quell’epoca, come in ogni epoca, ma in ispecial modo in quell’epoca, era considerata una molestia. E non, si badi bene, perché le persone normali non fossero sensibili alla poesia, tutt’altro! È che le persone normali erano connesse, ciascuna per conto suo, come se portasse alle orecchie invisibili cuffie bluetooth, alla superpoesia, alla vera sorgente della poesia, cosicché ogni singola proposta di poesia non poteva apparire che un intralcio, un disturbo della frequenza superpoetica, ed ogni presuntuoso poeta (o lettore di poesie, che è, quest’ultimo, un subdolo poeta in incognito che procede larvato per poi, quando meno te lo aspetti, assestarti alla schiena una poesia sua, come una pugnalata) apparire un molestatore, uno che mentre ti godi il silenzio della superpoesia ti viene a rompere l’anima con una sua poesiola del cazzo che parla delle sue gioie e dei suoi fallimenti, e te li vuole vomitare addosso, e tutto questo perché non vuole spendere € 200,00 al mese per farsi dare una guardatina.
Sebbene le persone normali si intrattenessero in lunghe conversazioni sui gossip più succulenti dell’epoca, sulle tariffe e sulle offerte telefoniche più vantaggiose dell’epoca, sulle nuove stagioni delle serie tv e su alcuni video epocali, nonché su ricette vegane, quella era solo l’apparenza. Senza darlo a vedere ciascuna delle persone normali ascoltava ininterrottamente la voce eterna della superpoesia; senza quella universale armonia nessuno di loro sarebbe sopravvissuto fino al caffè e fino alla fine dei conversari; però quell’armonia era una risorsa segreta che ciascuno, in cuor suo, reputava di avere in esclusiva, e non ne aveva mai fatto cenno ad alcuno, perché ciò avrebbe automaticamente condotto alla petizione di principio, vale a dire a parlare di poesia, e con ciò, inesorabilmente, ad autoesiliarsi nella sventurata, sfigata schiera dei poeti molestatori.
Ognuno, a quell’epoca, come in ogni epoca, ma massimamente in quell’epoca stava solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di superpoesia, e non lo veniva certo a dire o a rivelare a nessuno, nemmeno quando scendeva la sera e i volti delle persone normali, sedute attorno alla tavola apparecchiata, si illuminavano del riverbero degli schermi dei cellulari non ancora dimmati, ai quali sorridevano nel buio (si vedevano i denti bianchi, i pollici intenti a scrollare ad elevatissime velocità). Sembravano le persone normali tutte rapite da qualcosa di alieno, mentre in realtà stavano connesse, tutte, seppur singolarmente, alla superpoesia, e questo segreto le rendeva forti, ognuna per conto suo, ognuna con la mente orbitante nella propria traiettoria superpoetica, e solo la voce che, quando già era caduta la notte, si levava e proponeva la lettura di una poesia faceva sì che le persone normali si coalizzassero all’istante, fulmineo ciascuna facendo ritorno dal proprio trasognato orbitale sulla terra, attorno alla tavola imbandita per la cena, per fare schiera compatta contro il fracassatore, contro il molestatore, contro l’importuno violatore di segreti.