Quello che sto per scrivere abbisognerebbe di un disclaimer, anzi di un disclaimer doppio, sia per la possibilità di fraintendimento sia per il mestiere di libraio svolto dal sottoscritto nella precedente esistenza, ma tutto sommato mi risparmio questo mettere avanti le mani e lo risparmio all’ipotetico lettore.
Senza preamboli, adunque, tutta la mia solidarietà, ovviamente, alla libreria romana La pecora elettrica.
Ma a cosa serve una solidarietà così espressa? Certo, molto più sensata è una raccolta di fondi, utile a risollevare il morale dei gestori e a risarcirli, almeno in parte, dei loro esborsi date le fiamme. Che ben vengano gesti di aiuto e di concreta solidarietà. Ma non è questo il punto.
Non volevo fare nessuna premessa, ma mi accorgo che alla fine l’ho fatta. Le mani avanti le ho messe.
Immagino una libreria che sia un covo di sovversivi, di gente losca ma molto colta, non la vittima innocente ed inerme di atti di intimidazione, di matrice vuoi mafiosa vuoi squadristica.
Immagino una libreria che incuta timore agli spacciatori, perché è essa stessa un fiorente centro si spaccio, e non solo di droghe.
Immagino una libreria che abbia decine di plotoni di giovani eruditi pronti ad entrare in azione, a sequestrare i vigliacchi, legarli alla sedia e torturarli con l’ascolto integrale de Il Libro copto dei morti, ma poi non lo fanno, e non perché ciò sia illegale, ma perché è una perdita di tempo. Hanno cose più urgenti ed essenziali da fare.
Immagino una libreria malfamata, come se fossimo a Tangeri negli anni ‘50 e tutti i beat vi stazionassero fuori, una libreria pullulante di balordi, drogati più strafatti di Philip K. Dick e William Borroughs, intellettuali debosciati e immensamente autorevoli, pessimi individui che conoscono Rimbaud a memoria, premi Nobel in pectore ed esponenti delle avanguardie di shit-art.
Immagino non una libreria che miagola perché le istituzioni sono assenti, ma una libreria che ruggisce perché è essa stessa un’istituzione ed è pronta a trasformare la sala del consiglio comunale in un bivacco di suoi dottissimi manipoli.
Sogno – ma qui slitto nel retorico – androidi che tuonano contro una libreria scomoda e ne invocano la chiusura (come è accaduto nei secoli gloriosi del pericolo, che ha costituito il nostro onore), non androidi che deprecano con la lacrimuccia e promettono, e poi, con cupidigia, rilasciano licenze a nuove, nuovissime, grandi, grandiose superfici di vendita, asfaltando e cementificando anche l’ultimo lembo di terreno vago rimasto ai confini della contea.
Immagino una libreria che, oltre a dotarsi di un ottimo impianto anti-intrusione e anti-incendio, installi anche un impianto di videosorveglianza a largo spettro di ultimissima generazione, che sia in grado di tracciare i veri teppisti, quelli che non frequentano le librerie o che le hanno disertate, le immense mandrie di pecore elettroniche che pascolano gli sconti nei supermercati reali o virtuali.
P. s. Le famose, famigerate e famigerrime istituzioni, come no? Una di queste, che riveste un ruolo apicale di garanzia della libertà del mercato e della concorrenza, ha recentemente statuito che la moria delle librerie, il monopolio nell’industria editoriale, le strategie aziendali volte a favorire surrettiziamente il commercio on-line a scapito di quello territoriale sarebbero questioni che «restano confinate all’interno di dinamiche contrattuali tra le parti». Non ha voluto dare un’occhiatina per strada, l’istituzione. Ma qui sembra che Cicero parli pro domo sua, se ancora ne avesse una, Cicero, di libreria sua.