È impossibile non notare, talmente è evidente, la abnorme quantità di «u» presente nei versi iniziali del poema De rerum natura di Lucrezio. Non solo. Nel primo, celeberrimo verso, l’accento quantitativo lungo (esemplificativamente segnato, nel testo sotto riportato, in grassetto e sottolinea) cade quattro volte su sei sulla «u» (divomque è una lezione equivalente a divumque); indugia sulla «u» di Venus nel secondo verso; sulla «u» di navigerum del terzo verso; sulla «u» di concipitur al quinto e ancora al quinto sulla «u» di lumina; cade sulla seconda «u» di fugiunt; prolunga a dismisura il sintagma adventumque tuum, ove la lunga cade consecutivamente su due «u», caso rarissimo, credo, forse un apax legomenon; e suggella con tre cadute il nono, meraviglioso verso, cadendo sulla «u» di placatumque, di diffuso e di lumine. L’ultima vocale di questo primo quadro dell’avvento di Venere si chiude con la «u» di caelum.
Aèneadùm genetrìx, | hominùm divòmque volùptas,
àlma Venùs, | caelì subtèr | labèntia sìgna
quaè mare nàvigerùm, | quae tèrras frugiferèntis
còncelebràs, | per tè quoniàm | genus òmne animàntum
còncipitùr | visìtque exòrtum | lùmina sòlis:
tè, dea, tè fugiùnt | ventì, te nùbila càeli
àdventùmque tuùm, | tibi suàvis daèdala tèllus
sùmmittìt florès, | tibi rìdent aèquora pònti
plàcatùmque nitèt | diffùso lùmine caèlum.
https://www.youtube.com/watch?v=WRQTb9-unRE (fino a 0:37)
Perché così tante «u», un così cupo suono accompagna la presentazione e l’avvento di questa dea, alma Venere? La nascita botticelliana è di là da venire, nei secoli venturi. Vi è una tenebrosa vicenda alle spalle di questa dea, e le «u» ne custodiscono la reminiscenza. Avanzo un’ipotesi: non è possibile comprendere la potenza eversiva dell’inno lucreziano alla voluptas, se non si ha presente il dominio plurisecolare del culto dei morti e degli eroi che ha intriso la cultura romana arcaica via Etruschi. Quello che Lucrezio si ripropone, preannunciandolo già dai primi versi del suo poema filosofico, è una rivoluzione spirituale e culturale, un ribaltamento di paradigma, come sarà quello della predicazione di Cristo, con il suo motto «lasciate che i morti seppelliscano i morti».
Lucrezio canta la legge generatrice cui tutto l’universo, nulla escluso, soggiace. Una potenza universale e cosmica. Ma, e qui sta il punto della nostra osservazione, perché in un inno che apre alla potenza generatrice e rasserenatrice della voluptas, luminosa e vitale, ci sono così tante «u», vocale buia, infera, mortifera? Un filologo meticoloso, e quale filologo non lo è?, partirebbe dalla struttura fonetica del termine latino voluptas, per evidenziare che in esso c’è la predominanza delle vocali scure, «o» e «u», sulla vocale chiara, «a»,[1] la predominanza delle vocali chiuse su quelle aperte.
Uno psicologo del profondo, qualunque cosa possa significare l’oggetto dello studio di questo professionista, direbbe che la voluptas che governa tutto l’universo trae la sua spinta da forze sotterranee, oscure, inconsce. La chiamerebbe libido (che in latino arcaico è lubido). Niente, quindi, di cui stupirsi, in fondo, se non che Lucrezio avrebbe capito questa cosa, questa potenza, con duemila anni d’anticipo su Freud.
Senza quella «o», ma soprattutto senza quell’abisso oscuro della «u» (per incidens, occorrerebbe studiare il valore simbolico del segno «u», raffigurazione grafica di una cavità, un pozzo o un abisso), avrebbe la potenza primaverile della voluptas, che è capace di disperdere le tormente e i nembi e di riportare il sereno e il sorriso dell’aurora sulle acque placate, la medesima spinta, la medesima profonda motivazione?
E allora, direbbe l’esperto in filosofie orientali: vi stupite? Molto prima di Lucrezio in Oriente si era capito chiaramente che l’uno è la risultante di due principi tra loro antagonisti, yin e yang. Bella scoperta, Lucrezio!
Leggo ora che Antéros, un’associazione GLBTI di lesbiche, gay, bisex, transgender e intersex (la quale, più appropriatamente, vorrebbe che la propria sigla fosse LGBTQIA+) ha introdotto nel suo statuto il neologismo sociu, per chi non è né un socio (maschio) né una socia (femmina), perché « l’uso della “u” rientra tra i vari dispositivi utilizzati per neutralizzare il genere […]».[2]
Proviamo ora a trarre qualche conclusione. Le interpretazioni canoniche dell’incipit lucreziano puntano tutte dritte verso il riconoscimento che Alma Venere spazza la tempesta e riporta il sereno, come l’alba porta via la notte e il sole scaccia le tenebre. Il principio ordinatore del mondo fa chiarezza su una precedente confusione, su un caos originario. È qui all’opera una tipica reinvenzione della tradizione in chiave rinascimentale e botticelliana.[3] Se le cose stessero così, però, la fonetica dell’incipit lucreziano sarebbe tutta orientata alla luminosità, come avviene nelle quattro stagioni di Vivaldi, dove i toni gravi della morte raccontano l’inverno e quelli acuti e gioiosi, i trilli, la primavera, la rinascita.
Ma, come si è visto, così non è. L’avvento di Venere (adventuumque tuum) è impastato di questa misteriosa vocale che è la «u». Che cosa porta questa vocale dentro e nel cuore stesso dell’attrazione universale dei sessi? Un principio neutrale, forse? Un buio originario? Un qualcosa che resta attaccato all’estrinsecarsi felice della potenza generativa come una macchia cristiana o stoica o come un’ombra junghiana? Ricaschiamo nell’invenzione della tradizione, così.
E se, fuoriuscendo dalla tradizione culturale, vuoi filosofica, vuoi spirituale, vuoi religiosa, vuoi psicanalitica, si trattasse dell’eco fonetico dell’antimateria? Della materia oscura? In questo senso il genere (il maschile e il femminile, yin e yang) è neutralizzato all’origine. Hanno ragione u LGBTQIA+. E l’origine dura anche dopo. Basta vegliare le notti serene, e quella U si sente, si sentono eccome le radiazioni cosmiche di fondo.
Quindi un viaggio lisergico dentro la materia profonda e dentro l’antimateria, è quello che forse inaugura Lucrezio con le sue insistite U, non meno veggente in questo di Rimbaud, per spazzare via l’origine, l’archè, dalle divinità sessuate, Venere inclusa, dal culto dei morti e degli eroi, e retrodatarla a una dimensione pre-umana, cosmica, atomica, Venere è partorita dall’energia, e l’Energia è = U, non = E, come vorrebbero Rimbaud e Einstein.
[1] Nel celebre sonetto di Arthur Rimbaud, Vocales (Vocali), ove il poeta stabilisce delle corrispondenze tra le vocali e i colori, alla A è associato il colore nero, mentre alla U il verde. Occorre notare che nella fonetica francese il suono della U è ben diverso da quello della U italiana, e si sostanzia in una I pronunciata con le labbra impostate per la U, la «u turbata». La U francese, infatti, non è collocata, come invece nella fonetica italiana, all’ultimo posto nella gradazione vocalica: la sequenza fonetica francese è A E I U O. Il termine oppositivo della A, nel francese, è la O, che infatti anche per Rimbaud assume il colore più scuro dello spettro, che è il blu, se si eccettua il nero. Il problema sarebbe l’associazione della A al nero. La A è il primo suono che emettono le corde vocali del neonato, e il venire alla luce è ancora un essere impastati di buio, d’accordo. Rimbaud vuole evidentemente legiferare una sua diversa, e originaria, associazione cromatica, fondare una nuova legge percettiva. La A è una vocale che, per essere la prima della scala labiale (il dolore come il piacere hanno in essa il veicolo fonetico più immediato), include tutte le possibilità di filiazione, come il nero include tutti i colori dello spettro. Il nero della A rimbaudiana assomiglia alla saturazione della luce e dei colori, come quando d’estate al mare si chiudono gli occhi sotto il sole e tutto appare prima rosso, poi quasi nero.
[2] Figure della differenza, settembre 2019, n. 3.
[3] A T.S. Eliot si deve il concetto di tradizione letteraria come eredità a due sensi di marcia, che dal passato arriva ai nostri giorni, ipotecandoli, e che dai nostri giorni risale, come un’anguilla, al passato, rifecondandolo.