Elogio del male

Il male non è meno consustanziale del bene alla condizione umana[1]. Considerare il male un accidente che prima o poi sarà spazzato via, come si spazzano i rifiuti, è un atto non solo, come è noto, dannoso per il così detto progresso umano, giacché l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato come l’inferno umano sia lastricato dalle migliori intenzioni orientate al bene; non solo per questa considerazione generale, ma per una ragione specifica, che riguarda la persona degradata a vittima, è necessario che al male sia riconosciuto, come in guerra, lo statuto di belligerante legittimo.

Le vittime della guerra, le vittime dello sfruttamento, le vittime dei sistemi dispotici, le vittime dei tumori, le vittime della strada, le vittime della violenza sessuale non sono onorate come persone, ma sono ipostatizzate come incidenti di percorso sulla linea di progresso che condurrà l’umanità a debellare il male, ponendo fine alle guerre, alle ingiustizie sociali, alle malattie, alle violenze private.

Qui sì, come in guerra, le vittime del male sono «caduti» in nome di un valore astratto, che non è più la salvezza della patria ma la sconfitta del male planetario. Apparentemente sembra che la formula «affinché il loro sacrificio non sia vano», o «affinché ciò non accada più», indefettibilmente pronunciata dagli officianti, religiosi o laici, alle esequie, sia una modalità, anzi, la modalità di onorare la vittima al massimo grado.

I famigliari della vittima sembrano credervi e quasi sempre danno il consenso all’espianto degli organi. Ma a meglio guardare ci si avvede che ai congiunti stretti, alle persone distrutte da quel male, non frega niente che la loro amata persona sia messa sull’altare delle Vittime Sacrificali del Progresso Umano. Alle persone devastate nell’anima non è di alcun conforto sapere che il loro caro, il nome del loro caro, sia glorificato in quella maniera finalizzatrice.

Si badi bene, qui. Esistono, certo, molte forme di sollievo del dolore, e una di queste è l’elargizione che i rappresentanti delle Istituzioni sacre, la Stato e la Chiesa, fanno nei riguardi dei famigliari superstiti: il risarcimento pecuniario da parte dello Stato; l’intitolazione di una via o di una piazza; il ricevimento dei famigliari in udienza privata dal Papa. Le istituzioni sacre sanno come sedare e manipolare il dolore. Ciò è vistoso, nel suo grado parossistico, nel terrorismo suicidario di matrice islamica. Omettiamo di ricordarci che il Califfato elargisce ai familiari dell’eroe suicida una bella sommetta.

Ma il «consolo» ufficiale, statuale o pastorale, non funziona tanto, né tanto a lungo.

E non solo perché presto i riflettori sulla tragedia si spengono; e non solo, si faccia cortesemente attenzione qui, perché la storia passata dimostra, e quella futura presto confermerà, che il sacrificio della vittima non è servito e non servirà a niente. Le guerre riprendono fiato, se mai lo hanno perduto; le ingiustizie sociali, le mafie, le malattie, le violenze tornano a fare la voce grossa.

Allora, tutti quei sacrifici essendo vani, quelle vittime perdono potere ontologico. La loro funzione si mostra imperfetta, inefficace, diventano vittime di serie B. Hanno la stessa valenza che hanno i rimedi omeopatici davanti alla meningite.

Le Istituzioni sacre però non si arrendono, proclamano che la lotta al male non finisce, la guerra continua, e altre vittime sono attese sulla via che conduce al trionfo del bene.

Siamo tutti in un tritacarne funzionale e finzionale. Ci dimentichiamo che la tragedia esiste, che esiste il male. Facciamo finta che il male sia uno stronzo che prima o poi scaricheremo nel water della storia.

Non rispettando il male, non rispettiamo le vittime. Rispettare il male significa considerarlo una potenza, come Empedocle considera neikos, l’odio, la discordia, un elemento fondante dell’universo, non meno possente di philìa.

Le vittime colpite dal male non sono fungibili. Sono individui toccati da una potenza incoercibile. Vanno ammirate, non funzionalizzate.

E allora, niente più tragedia ai giorni d’oggi, così magnificamente lanciati sull’autostrada del bene? Nessuna sepoltura davvero solenne? Se le Istituzioni sacre prendono per il culo, chi si sostituisce loro?

*

Il posto vacante è, talvolta, occupato da figure eroiche e dal coro tragico.

Una di queste è Rosaria Costa, la giovane moglie di Vito Schifani, l’agente di scorta di Giovanni Falcone, saltato per aria grazie al tritolo della mafia insieme al magistrato, alla di lui moglie Francesca Morvillo e agli altri uomini della scorta, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, il 23 maggio 1992 sull’autostrada A29.

Le parole che pronuncia Rosaria al funerale di Stato potrebbe averle scritte Sofocle.

La giovane donna, fresca di vedovanza, ha le idee chiare. Per comprendere quello che sto cercando di dire è importante ricordare che Rosaria è siciliana. Più siciliana della mafia stessa. La cultura siciliana è, ancora negli strati più profondi, una cultura della vergogna e dell’onore (shame and honor culture), non della colpa. È una cultura, cioè, dove il concetto di vittima sacrificale non è ancora dirottato verso un’idea espiatoria e migliorativa del mondo.  La vittima sacrificale è un tributo di sangue che si versa, se necessario, per difendere l’onore della propria famiglia, della propria comunità originaria, degli antenati.

Rosaria usa un paralogismo molto sottile, molto filosofico: «Io – ella dice con tono implorante e straziante – vi perdonerei (= io non so cosa sia il perdono, la mia cultura non lo contempla, ma quelli che mi stanno accanto, preti e politici, mi esortano a perdonare); ma prima – ella prosegue il finto sillogismo – dovete venire qua, sotto la bara di mio marito, e inginocchiarvi. Perché lo so che siete anche qua dentro. Se avete il coraggio di cambiare.» E poi, con una torsione, con uno scarto retorico che fa accapponare la pelle, ed è per questo che ho evocato prima Sofocle, smette di rivolgersi ai mafiosi, agli assassini, e fa un commento estraniato ad alta voce, come desse voce al coro tragico che parla dentro di lei: «Ma tanto loro non cambiano.»[2]

Se qualcuno dei presenti, per assurdo, si fosse mosso, e fosse arrivato ai piedi della bara e si fosse inginocchiato, avremmo avuto l’Innominato, il pentimento e la conversione, Manzoni, la colpa e il cristianesimo giansenista come motore attivo contro il male.

Nessuno si mosse in quella chiesa.

Il male tenace tace, si nasconde, è questa la sua potenza fondante dell’universo. Agisce con il buio e di giorno sembra che non ci sia, che la sua sia una condizione transeunte e peritura. Così, da secoli, il cristianesimo prima e l’illuminismo poi avallano l’illusione. Invece grande è il dominio del male. Il suo esplicarsi nel mondo non è un incidente di percorso, ma l’esercizio di una stabile signoria: coloro che cadono sotto i suoi colpi sono i prescelti, gli eletti, i migliori; e sarebbero degni non della commiserazione che si riserva alla vittima, ma degli onori che si tributano all’eroe.


[1] Avvertenza I. La filosofia morale poggia sulla distinzione fondamentale tra bene e male, come la filosofia teoretica poggia sulla distinzione fondamentale tra vero e falso. I tentativi di scardinare queste due opposizioni fondamentali annaspano sotto la dannazione del relativismo etico, da un lato, e dello scetticismo gnoseologico dall’altro.

Avvertenza II. Questo testo è stato pensato e scritto nei mesi scorsi, e comunque prima dell’insorgere della pandemia del virus Sars2. Era rimasto nel cassetto, in attesa di confluire in un progetto più ampio. Ho deciso di pubblicarlo ora perché rileggere riflessioni svolte ante l’instaurarsi di questa nuova “situazione” mi dà la sgradevole impressione che siano oscenamente esposte ad un principio di falsificabilità ora spietato. Quello che sembrava – o almeno a me sembrava – vero ante pandemia, oggi è, stranamente, ancora più vero e ancora più falso.

[2] Il discorso pronunciato dalla giovane vedova è spaccato in due da quello che potremmo chiamare uno scontro di civiltà, quello tra la civiltà della colpa da un lato e la civiltà della vergogna dall’altro; che è anche uno scontro tra religioni, quella del cristianesimo e dell’amore e del perdono, e quello precristiano dell’onore e della vendetta («Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente» ripete alla fine per tre volte Rosaria Costa, come una litania, la sconsolata verità del mondo); è ancora scontro tra culture, cultura scritta (il testo previamente concordato con il sacerdote), e cultura orale (i commenti a braccio ad alta voce della giovane donna, che crede e non crede a quello che sta leggendo); e, infine, anche scontro tra maschile (il sacerdote che tiene il microfono, che sorregge sì la vedova nei momenti di cedimento, ma che vorrebbe anche orientarla e reindirizzarne il delirio oracolare nei momenti in cui parla la voce interiore della donna) e femminile (l’accensione isterica e la voce delle Erinni, quella stessa che parla in Cassandra, in Antigone, in Ifigenia, ecc.). Ecco il testo: «Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani — Vito mio — battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato — lo Stato… — chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano … se avete il coraggio… di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare loro…di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete.

Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non lo sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo che avete reso questa città sangue, città di sangue…

Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue — troppo sangue — di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente. »

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