Ancora passeggiate nei sobborghi letterari

Giunti, come siamo giunti, a questo grado di sofisticazione nella lettura, non ci accontentiamo più degli scrittori e dei libri main stream, ricerchiamo le chicche letterarie, siamo diventati, in letteratura, come è a letto la donna, un po’ più in alto con la distopia, un po’ più dentro con il monologo interiore, un po’ più in basso con le contaminazioni dei generi, un po’ più a sinistra con il romanzo di denuncia, oh sì, oh sì, ancora così, così, no, ora a destra, un po’ di meta-romanzo, oh sì, oh sì, oh sì!!!
Come donne esigenti in fatto di vestiti o di gioielli, noi disdegniamo la letteratura facile, di genere, buonista, sentimentale. Sepulveda (R.i.p.), Coelho (riposi e basta) ci smontano le nostre corde estetiche ed estatiche. Siamo diventati esigenti, quasi sempre insoddisfatti, non c’è un libro in cui non troviamo un limite, una caduta di stile, un cedimento strutturale.
Non lo diciamo a nessuno, perché non lo possiamo dire, negli ambienti che non frequentiamo ma che prendiamo a riferimento ci lincerebbero, ci ostracizzerebbero, ci toglierebbero quella remota possibilità che abbiamo di pubblicare su LE PAROLE E LE COSE². Non lo diciamo quindi a nessuno, ma come ci piacerebbe entrare in un bar di periferia e ordinare al bancone:
«Mi dia un Sepulveda doppio!»
«Mi dia un Coelho ghiacciato!»,
e tracannarlo senza tante titubanze, e stare in armonia con la scorsa grezza del mondo.

Fino a un cero punto della faccenda, agli scrittori, ma soprattutto ai poeti si è chiesto, come un po’ ai santi, agli eremiti, agli asceti, ai saggi, di erogare un aiuto all’animo in difficoltà. Nel 90% dei casi per pene d’amore. Nel restante 10% per male di vivere, accidia (=depressione), angoscia, tormenti, incubi.
Mi limiterò a questo secondo, e residuale, 10%.
Al poeta si chiede di darci le parole giuste per ammansire la belva che si è installata dentro di noi. Oppure, che ci dia le parole capaci di incantare il custode della prigione invisibile in cui siamo incarcerati, per evadere.
Al saggio si chiede invece la via. Il saggio è come un’esperta guida alpina, che conosce i pericoli del percorso, e sa esattamente dove ci sono rischi di frana, dove sono crollati i ponti e i passaggi.
Ma tanto il poeta che il saggio non sono tali se non offrono garanzia circa il loro potere: e la garanzia è data dal fatto di aver loro, per primi, patito il male che pretendono curare. La garanzia è data dal fatto che essi, poeti e saggi, hanno lottato con la belva, sono stati prigionieri nel carcere scuro dell’anima, si sono trovati ad attraversare percorsi montani irti di rischi, con crolli, frane, baratri, o percorsi desertici senza acqua, con i serpenti e il sole cocente.
Non conta l’arte, non conta la sapienza. O, meglio, l’entità, la qualità e la quantità di arte e sapienza sono una variabile subordinata all’entità, qualità e quantità della sofferenza patita e oltrepassata. Questo è stato vero, almeno nella poesia, fino a Rimbaud o forse, ancor prima, fino a Baudelaire. Con Baudelaire questa funzione della poesia, e della sua validazione ex experto, viene meno.
Che cosa la sostituisce? Il successo commerciale e la fama. Ottenuti, fama e successo, non perché si abbia attraversato i deserti, ma perché si è bravi a descriverli.
Conosco l’obiezione: e allora l’apollineo Goethe?
Quando si è molto giovani si ha fretta di saltare ai versi più malinconici e ultimativi di una poesia, come il sottoscritto con Montale, quando, leggendolo, non vedeva l’ora di arrivare a quel verso: «… ma è tardi, sempre più tardi.»
Quando si è molto giovani si prediligono i momenti crepuscolari e irreversibili. Si gioca con la fine, con la morte, come i gattini con il gomitolo di lana.
Quando non si è più molto giovani, e poi quando non si è più giovani affatto, si ha un riposizionamento del gusto, un suo arretramento a stadi intermedi. Si scopre e si assapora la bellezza di versi interlocutori, temporeggiatori, si scopre la sottile raffinatezza di certe soste, di certi viottoli che riescono agli erbosi fossi, quelle stesse soste e quelle pozzanghere che, quando eravamo molto giovani, saltavamo a pie’ pari senza neppure leggerle. Quando siamo vecchi prendiamo piacere a leggere versi minimi, dettati da un’attenzione minima, come quello che parla dello stucco che si usava una volta per sigillare il vetro sugli infissi, dell’odore che aveva quello stucco; quando siamo vecchi non indugiamo con così tanto gusto sulla fine, sugli annunci e le premonizioni di morte, e questo perché l’ombra si sta allungando e noi restiamo, come i vecchi di un ospizio, o di un hospice, a guardare gli ultimi raggi del sole morente, nel padiglione degli incurabili, come Fadin, allontanando con la mente il più che sia possibile il momento in cui l’infermiera verrà a prenderci, e spingerà la carrozzella dentro il refettorio, dove ci attende la cena.
Vi sono scrittori che inseriscono cenni a persone realmente incontrate o conosciute, e lo fanno come un sacerdote che ricordi, nelle sue orazioni, certi defunti speciali. «Mi ricordi nelle sue preghiere», implora il curato il moribondo; «ricordami nei tuoi racconti», sembra chiedere il personaggio secondario o la semplice comparsa allo scrittore.
Si potrebbe guardare all’arte, nei regimi dove essa è sottoposta a censura, come ad un compromesso che viene stipulato nell’animo del cittadino: l’arte allude (metafora) senza divenire denuncia esplicita, lascia spazio nell’animo del cittadino ad entrambe le istanze, quella spontanea del popolo e quella ufficiale del potere, senza impegnarlo ad una scelta di campo immediata. Il sovrano storce il naso ma non può reprimere troppo perché si scoprirebbe, cadrebbe la sua maschera benevola; il cittadino può godere del contenuto radicale dell’arte senza mettere in pericolo la sua esistenza. Laddove si proibisce l’arte allusiva, come nel nazismo, il potere getta la maschera, mostra i denti e sopprime il cittadino come tale; laddove si chiede all’arte di divenire denuncia esplicita, si ha il movimento politico, la fine del cittadino e l’avvento del militante dell’arte. Questa riflessione è scaturita dai versi della canzone di Vladimir Vysockij, Cavalli bradi, nella versione cantata da Milva, quando dice: «[…] Non si arriva mai in ritardo / se è Dio che riceve / Ma perché gli angeli in coro / hanno le voci così cattive?» Il potere supremo (ma quale?) è benevolo, sono i funzionari, i burocrati, i delatori, gli agenti dei servizi segreti, i cori degli angeli, ecc. ad essere cattivi. In Russia tutti capivano, Vysockij era venerato come un santo, è da immaginare che abbia subito anche qualche persecuzione da parte di angeli cattivi, ma ha continuato a cantare e ad essere ascoltato da milioni di russi.
La scelta del tema
Contrariamente a quanto si pensa, la scelta del tema letterario non ricade nella sfera di discrezionalità o di arbitrarietà dell’autore.
Si è soliti pensare che l’autore scelga il tema (una storia di adulterio e di gelosia, i migranti, il day after, o una storia in cui, nel day after, un gruppo di migranti si trovi alle prese con una storia di adulterio e gelosia), ma che poi ciò che conta è come lo svolga.
I critici sono tanto esigenti nel giudicare la forma, per quanto sono corrivi nel non intromettersi nella scelta del tema.
Si riconosce all’autore questo ghiribizzo, e lo si lascia, come un inspiegabile capriccio di un bambino, in una dimensione di totale insindacabilità. Alla base di questa omissione vi è una precisa concezione della letteratura, secondo la quale uno scrittore è grande in quanto scrive bene e può applicare questa sua arte sopraffina su qualunque oggetto, come uno scultore bravo sa lavorare tanto il marmo che il legno o il ferro.
Sia detto chiaramente: non è che qui si intenda riesumare la concezione del realismo sovietico, che condannava, e non raramente internava nei gulag, gli scrittori che scegliessero temi e contenuti non conformi alla finalità politica cui l’arte e la letteratura dovevano inchinarsi.
Qui si cerca di mostrare quanto la scelta del tema sia, chiamiamolo così, un passaggio decisivo nella creazione artistica: nella letteratura rapinosa lo scrittore non sceglie il tema, ma è da questi scelto. Solo quando si verifica questa inversione si avverte chiaramente, e inoppugnabilmente, quella urgenza, quella meravigliosa necessità che è il marchio di garanzia che la macchina che abbiamo acquistato è una vera macchina che ci rapirà e ci porterà lontano.
L’autore celebrato e pluripremiato aveva un cruccio. Aveva ricevuto e continuava a ricevere apprezzamenti, elogi e recensioni per tutti i suoi libri eccetto uno. Non che avesse ricevuto una stroncatura, ma, a parte qualche tiepida recensione di servizio, quel libro era come caduto in prescrizione, non ne parlava nessuno. Era il lavoro a cui teneva di più, quello sul quale si era macerato di più, era come il figlio spastico e tetraplegico in mezzo agli altri figli atletici, splendidi come statue greche. Era il figlio che amava di più. Ogni volta che riceveva, per tutti gli altri libri, un elogio, un apprezzamento o una citazione, una trafittura gli passava sul torace, ringraziava con più gentilezza per nascondere la fitta.
Vi sono scrittori che sottopongono i loro inediti con mani tremebonde ai critici letterari; vi sono scrittori spavaldi che se ne fottono tout-court dei critici, pensando unicamente al pubblico, loro unico e inappellabile tribunale, persuasi di averlo ai piedi; vi sono infine scrittori che aspettano critici e lettori al varco, senza battere ciglio, con una sovrana aria di imperturbabilità, e una precisa idea in mente, sepolta però sotto la fronte serena: «mo’ vi inculo io!»
CAPIRE UNA POESIA
Capire una poesia è portarsi con la mente e con il cuore a prima che essa fosse composta, scriverla noi insieme al non ancora poeta acclamato, accompagnarlo e anche sostenerlo nei momenti in cui vacilla e rischia di inciampare, cioè di rovinare quel fragile, precario e meraviglioso equilibrio, trepidare con lui, stargli vicino, aiutarlo ad arrivare indenne, indenni, all’ultimo verso.
Capire una poesia è capirla dal suo interno, indovinarne l’occasione in una circostanza dove a nessun altro sarebbe venuto in mente (e al cuore) di scrivere una poesia e quella poesia; pensare all’incipit quando era ancora una cosa fragile, immaginare le varianti scartate, pregare, anche, che il poeta non ancora laureato creda in quella sua prima intuizione e che non la richiuda nel cassetto o strappi il foglio gettandolo nel camino acceso.
Foto di copertina: Luigi Ontani, Dante/Pinocchio, 1974