27 agosto

«Non fate troppi pettegolezzi», è l’ultima frase scritta da Cesare Pavese prima di togliersi la vita, o di riprendersela, a voler seguire l’espressione inglese «to take his own life». Sembra che anche un altro poeta, anch’egli suicida, abbia scritto la stessa cosa prima di spararsi al cuore. Era Vladimir Majakovskij. I pettegolezzi, nell’uno come nell’altro caso, si riferiscono ad «affaires de coeur». I pettegolezzi si riferiscono sempre ai cazzi altrui. In poeti così tanto implicati nella sorte pubblica della loro nazione, serpeggia una gigantesca questione privata. Non sfuggirà quel tocco lieve, anti-tragico, di quella parola così frivola usata però in limine Proserpinae. Più che a uno stoico romano, quell’estremo aggettivo di Pavese, tocco da grande scrittore postumo, fa pensare a un dandy. Fatene, ma non «troppi».

E già qui zampillano le domande. Può un intellettuale cui la rinata Italia antifascista affida un enorme ruolo culturale, può uno scrittore che è stato punito e spedito al confino in fondo alla Calabria dal Tribunale speciale, può l’influente collaboratore della più prestigiosa casa editrice italiana tutta orientata verso la via democratica al socialismo uscire di scena come un dandy?

La risposta venne da un amico dello scrittore, da uno che lo aveva frequentato: Davide Lajolo coniò il sintagma «vizio assurdo», traendolo dagli scritti dello stesso Pavese, e il sintagma ebbe una fortuna enorme, e mise una pietra definitiva sulla inquieta tomba dello scrittore impegnato e suicida. Era così ben organizzato, quel sintagma, che funzionò da incantesimo e sortì il sicuro effetto di far dimenticare a stuoli di giovani lettori appassionati un dato comune a molti scrittori, almeno del novecento: il suicidio è l’ombra lunga che si proietta su non poche delle loro pagine. Quanti scrittori, primo e secondo-novecenteschi, si sono ripresi la propria vita… L’elenco è impressionante, non solo per numero ma per celebrità degli inclusi in esso. Da Walter Benjamin a Primo Levi, passando per Klaus Mann, il quale ultimo si è ripreso his own life con un anno di anticipo su Pavese. La tendenza era in atto. Solo che per i tre menzionati c’era un’attenuante: Per Benjamin, il terrore, forse troppo paranoico, di finire nelle grinfie della polizia di frontiera, che lo avrebbe poi venduto alla Gestapo via Vichy; Per Klaus Mann l’omosessualità (come se, per inciso, nell’omosessualità vi sia inscritta una innata tendenza suicidaria…); per Primo Levi lo sappiamo tutti. Ma per Pavese, quale attenuante ci sarebbe? Nessuna. Era un fregnone, e la rinata Italia antifascista non poteva annoverare un fregnone tra le sue figure intellettuali di spicco.

Quando a Giulio Einaudi gli portarono sulla scrivania le pagine del diario «segreto» o «postumo» di Pavese, nel quale, nello sfacelo del 1943, serpeggiavano giudizi non ostili al Duce e alla Repubblica Sociale Italiana (erano davvero meglio di lui gli italiani che prima lo avevano venerato e poi lo avevano ripudiato?), e, cosa ancor più insopportabile, valutazioni non così draconiane, come ex post ci si sarebbe atteso da un intellettuale antifascista, sulla condotta militare dei tedeschi in Italia (minimizzando le atrocità delle SS?), Giulio Einaudi sbiancò. La sua faccia, pur così dolce e con quei bellissimi occhi azzurri, diventò più bianca del celebre «bianco Einaudi».

Del «diario postumo» e del suo sconcertante contenuto (ma che diario postumo sarebbe se non fosse sconcertante?) se ne è riparlato ora in occasione della ricorrenza, il settantesimo anniversario della sua morte autoinflitta.

In qualche giudizio più ponderato si fa sì strada il riconoscimento della «complessità tragica» dello scrittore, che ne accrescerebbe, anziché diminuirlo, il valore e l’attualità. Ma tale riconoscimento suona più come un atto di soccorrevole conciliazione dell’inconciliabile, che di convinta apertura alle ragioni tormentate, ma non imbarazzanti, di Pavese. Funziona forse ancora il medesimo meccanismo protettivo (ma protettivo di chi?) che aveva lavorato nel conio di Davide Lajolo. «Complessità tragica» o, meglio, «tragica complessità». 

Uno dei titoli più prestigiosi della celebre «collana viola», ideata e diretta da Cesare Pavese per la casa editrice Einaudi.

Cesare Pavese fu certo autore per incandescenti, parlava all’inquietudine dei verdi anni giovanili. Ogni letteratura nazionale ne ha uno. Noi italiani abbiamo avuto Pavese, ed è stata una benedizione per la patria, con il senno di poi. E non solo perché, essendo il suo suicidio così poco eroico, non ebbe praticamente imitatori.  Certo, in Pavese la pendolarità tra due richiami, e questa cosa è l’incandescenza, è molto forte, lo è tra campagna e città, tra origini ancestrali e vita moderna di tram e fabbriche, tra mito e lutto del mito (ma qui il dubbio era meno lacerante), lo è tra amori campestri e semplici da un lato e amori complicati con attricette volubili dall’altro, lo è tra restare un poeta zappatore o diventare un autore per il cinema, con tanta fica urbana al seguito. Questo è Pavese. È questa l’oscillazione. E allora perché sarebbe insensato e incomprensibile che tale oscillazione, il moto inquieto e insonne, non arrivasse a propagarsi anche alla sfera politica? Ah no, è vero, lì o si sta di qua o si sta di là. Almeno nello stesso momento. Perché Pavese ne vide tanti che prima stavano di qua e poi andarono di là. Furono chiamati padri della patria, molti di loro sedettero all’assemblea costituente. Erano stati fascistissimi e poi erano diventati arcicomunistissimi. Volete i nomi? Ingrao, Dario Fo. E una miriade di altri intellettuali che poi radicaleggiarono assai. Al cospetto il malmostoso Giuseppe Berto, o il volubile Curzio Malaparte sono campioni di coerenza. 

Pavese, come ogni poeta che sente la (tragedia della) patria, è arpionato, come Achab, dal fantasma della guerra civile. Questo mostro, su tutti, il più terrificante. La ragione non sta mai da una parte soltanto.

Noto, en passant, che è quello che dirà poi, venti anni dopo rispetto all’epilogo torinese, come in un secondo tempo dumasiano, Pier Paolo Pasolini. Io penso che Pavese odiasse la guerra e soprattutto la forma più incivile di guerra che è la guerra civile («[…] Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.» La casa in collina, XXIII) e la stupida polarizzazione che essa diffonde come una pandemia, perché l’unica guerra che lo interessasse davvero e lo impegnasse davvero era quella interiore. Ed è questo, ne sono persuaso, che ha fatto di Pavese l’autore più amato dai giovani italiani del secondo novecento. Pavese ha inseguito, più di Capitini, una visione pacifista della condizione umana novecentesca. 

L’uomo tormentato che non prende le armi è additato come un vile, ma al contrario carica su di sé un fardello enorme, è come Tiresia – né uomo né donna – che carica sulla propria coscienza le ragioni e i torti degli uni e degli altri, è la coscienza che cammina tra i morti, «quelli che più stanno in basso», è la magna mater che non sceglie nessuno dei suoi figli rivali, essendo progenitrice di tutti.

Dico, en passant, che un altro grande pacifista italiano, in tempi meno remoti, si appese ad un albero. 

Pavese conosceva la letteratura nordamericana meglio di chiunque altro. Meglio di Vittorini. E uno che ha tradotto Moby Dick come fosse una moderna Odissea, o che ha trafficato con il Joyce di Stephen Dedalus, per tacere di Whitman, di Lee Masters, ecc., non può certo essere un fascista. Ma non può essere neppure comunista. Troppa libertà di pensiero soffia da quelle pagine. 

Arthur Köstler abbandonò il comunismo nel ’39 dopo aver toccato con mano propria nella Spagna della guerra civile lo spietato e disumano cinismo dei comunisti, e ne divenne un fiero avversario. Certo, lo fece da spalti britannici, democratici. Se Köstler si fosse sventuratamente trovato nel 1943 in Italia lo avrebbero tacciato di filo fascismo. Pavese anche toccò con mano l’opportunismo e il cinismo della resistenza italiana, fu tradito dalla ragazza di cui si era invaghito e pagò con il confino di Brancaleone Calabro una militanza del cuore, non dell’antifascismo duro e puro. Pavese subodorò che non tutti coloro che si opponevano al fascismo avessero tutte le carte in regola. A differenza di Köstler, però, Pavese non passò risolutamente allo schieramento degli alleati, perché se l’Italia era stata largamente fascista un cambio così repentino era sospetto e pericoloso, e nel fascismo vi erano state anche delle ragioni, che non potevano essere scaricate da mane a sera nella latrina della storia. Questa altitudine intellettuale, che è al servizio dell’unità spirituale della patria, è ancora più apprezzabile in uno scrittore traduttore che più di ogni altro aveva lavorato per la diffusione in Italia della grande letteratura inglese e soprattutto nordamericana, e proprio quando essa era invisa al regime dell’autarchia culturale e della lotta contro le plutocrazie. Sarebbe stato fin troppo facile per lui saltare sul carro degli Alleati. È evidente che il suo trascorso fascista non trascorreva così soavemente come per molti altri intellettuali di pronta conversione. Pavese in fondo non fu mai veramente fascista e mai veramente comunista. Quanto al suo antifascismo, esso era inscritto nei suoi geni e scritto nei suoi libri, non aveva bisogno di essere proclamato.

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