Il sangue infetto e il dio impazzito: il mitema che assedia Putin

Nessuno, a quanto mi è dato sapere, ha messo in relazione con la pandemia da Covid-19 la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina all’alba di giovedì 24 febbraio 2022. Gli unici collegamenti tra i due eventi riguardano o la battuta che circola in questi giorni, per la quale durante la pandemia tutti erano virologi e ora che c’è la guerra tutti sono strateghi ed esperti di geopolitica; o la considerazione  che “il virus e la guerra indicano il bisogno di avere più militari in servizio”, (così il Capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, nell’intervista di Gianluca di Feo, La Repubblica online, 06 marzo 2022. L’intervistatore, nella domanda, osserva che “la pandemia ha mostrato quanto possano essere utili i militari al Paese”.)

Perché Putin ha deciso l’attacco – certamente pianificato da mesi, come concordano pressoché tutti gli analisti – proprio in questo momento? Da un punto di vista strategico non sono emerse motivazioni plausibili. Ha atteso che la curva del contagio iniziasse la parabola discendente? Perché? Perché un attacco a pandemia in corso sarebbe stato rischioso per le truppe russe? Non è da credere, nelle caserme si è continuato anche durante la pandemia ad esercitarsi alla guerra (e non solo in Russia) indossando le mascherine sanitarie quando non le maschere anti-gas. Putin avrebbe allora atteso la discesa della curva pandemica per non creare una catastrofe umanitaria e sanitaria in Ucraina, cosa che avrebbe reso ancora più drammatica l’evacuazione dei civili dalle città sotto assedio? È stato un galantuomo? Non è da credere, vista la catastrofe umanitaria che l’invasione ha prodotto. À la guerre comme à la guerre, nessuna remora umanitaria avrebbe impedito agli strateghi russi ed al loro comandante in capo di impiegare, machiavellicamente, l’arma biologica della diffusione e della recrudescenza del contagio.

Proviamo ad osservare la questione del kairos putiniano da una diversa angolatura. Dal  24 febbraio i media di tutto il mondo non aprono più con le notizie della pandemia. La guerra di Putin ha scalzato la pandemia dal suo stabile primato biennale. Al livello della media-sfera Putin ha fatto fuori la pandemia. Sembra che l’emergenza sanitaria non esista più. E se l’umanità, eccetto beninteso gli Ucraini, avesse tratto inconsciamente un sospiro di sollievo? La guerra è azione, è emozioni (paura, orrore, certo, ma anche adrenalina, avventura, coraggio, altruismo, generosità, stupro ma anche amore, onore, resistenza, amor di patria, ecc.), non passività, non isolamento, non lockdown (così grigio e depressivo, a differenza del coprifuoco sotto le bombe), non terapie intensive, non intubamento, non soffocamento. Ma soprattutto la guerra è spettacolo, l’ultimo spettacolo dell’umanità. 

Chi scrive non è così folle da non cogliere il grado di irricevibilità, quando non di empietà, di una ipotesi che sembrerebbe scongelare dal freezer della storia vecchie quanto demenziali teorie sulla bellezza della guerra. Nessuno (a parte i signori della guerra, i mercenari e i produttori/trafficanti di armi) è mai contento che scoppi una guerra, men che mai dopo una prolungata sofferenza planetaria. Mentre milioni di persone sono costrette ad abbandonare le loro case e le loro città, mentre un fiume di profughi sta cercando riparo dalla morte, dalla fame e dal freddo, scappando dalle bombe a grappolo, e mentre ragazzini di venti anni cercano di fermare i missili con i bastoni, e mentre il mondo si mobilità per inviare aiuti ed armi, tu ti trastulli con simili bizzarre cogitazioni?

E tuttavia, nonostante il monito morale che mi punta l’indice dentro la coscienza e declassa questo mio ragionamento a vacuo intellettualismo, l’idea che la guerra scatenata da Putin sia in qualche oscuro, misterioso, enigmatico modo collegata alla pandemia continua a ronzarmi in testa.

Si dice che Putin, lanciando le divisioni di carri armati contro l’Ucraina, abbia riportato indietro l’orologio della Storia, con un’invasione territoriale nel cuore d’Europa in stile, appunto, primo novecentesco. Verissimo. Basta con le cooperazioni militari, basta con le operazioni militari regionali e asimmetriche, basta con le guerre low-intensity, basta con gli interventi di peace making o peace enforcing, basta con le guerre fatte solo con droni e missili teleguidati. Torniamo sul terreno, che vi sia lo scontro fisico tra gli eserciti. I generali mettano di nuovo le bandierine sulle mappe cartacee, come ai bei tempi antichi. Sebbene non la chiami così, ma la chiami Operazione speciale militare, quella di Putin è una signora guerra. 

Ed ecco l’inquietante, oscena domanda: e se una tale scenografia arcaica, premoderna, fosse la sola in grado di scalzare la minaccia biopolitica e postmoderna della pandemia per come l’abbiamo vissuta? (la pandemia in sé non è ovviamente postmoderna, la peste è tanto arcaica quanto lo è la guerra, ma postmoderna è l’emergenza planetaria che la pandemia ha innescato). Putin ha servito al mondo questa narrazione archetipa ed arcaica (lo so, è indecoroso utilizzare tale locuzione super abusata, ma la cosa è intenzionale).

La contro-propaganda della resistenza ucraina non è da meno, quanto a regressione arcaica, sia chiaro: siamo alla fabbricazione fai-da-te delle molotov, con tanto di polistirolo che viene sbriciolato con le grattugie; e siamo allo scavo con il piccone delle trincee in mezzo alle arterie principali di Kiev.

Inconsciamente, anche l’Europa ha lanciato nell’agone mediatico segnali di regressione arcaica: il ritorno al carbone, per resistere alla dipendenza energetica da Putin (Germania); e la trasmissione ad onde corte della BBC, come nella seconda guerra mondiale, per consentire di ricevere notizie laddove internet è stato chiuso (Inghilterra).

Neppure la riflessione morale si è sottratta a questa regressione arcaica. Il teologo italiano Vito Mancuso ha ritirato fuori il concetto medievale di bellum justum, elaborato nel XIII secolo da Tommaso d’Acquino nella Summa Teologiae, per giustificare il sostegno militare, sub specie di invio di armi, alla resistenza ucraina contro l’aggressuine russa. Nel suo articolo pubblicato il 6 marzo scorso (https://www.vitomancuso.it/2022/03/07/guerra-e-pace/) Vito Mancuso, che pure non ignora il travaglio del pensiero novecentesco che sancisce la dissociazione tra la forza/violenza armata e il concetto di giustizia, fa appello anche lui a un vecchio arnese del lontano passato per fronteggiare l’evento mostruosamente arcaico che è in atto. Senza voler entrare qui nello specifico dell’argomentazione di Mancuso, annoveriamo anche questo gesto intellettuale quale sintomo della più generale regressione medievale innescata da Putin.

Il motto latino Dulce pro patria mori può essere interpretato in vari modi. Certo è che morire per pandemia nell’anonimato di una corsia d’ospedale, con la percezione di essere infetto, intoccabile, senza poter vedere i propri cari e con gli infermieri tutti bardati da astronauti non dulce est.

Al contrario, rischiare di morire, e morire, per una causa giusta, sacrificarsi per un valore eterno (= la difesa della patria panrussa, da un lato, la libertà del popolo ucraino, dall’altro, la tutela dei diritti umani da ogni lato) è una scelta drammatica, tragica, ma carica di emozioni supervitali e di adrenalina (il coraggio, il senso di appartenenza comunitaria, il sentirsi utile ad una causa, essere convinti che la propria morte non sia inutile, come inutile e soprannumeraria è quella da pandemia), ed in questo senso dulce est.

SIMMETRIE

I coprifuochi, i lockdown, le quarantene, il vaccino, il green pass rinforzato, il distanziamento sociale sono state le armi sanitarie e sociali schierate contro il diffondersi del virus. Sul piano materiale si è combattuto duramente e si sono fatti immensi sacrifici, è vero. Ma sul piano simbolico non si può dire che si sia agito con pari convinzione. Per uscire simbolicamente dalla pandemia era necessario che l’umanità intera facesse un sacrificio simbolico, celebrasse una liturgia espiatoria, un nuovo rito al tempo stesso di rendimento di grazie e di solenne promessa, sancisse una nuova alleanza a suggello dello scampato pericolo planetario e universale, era necessario che i popoli fondassero una nuova religione non ancora sorta, forse anche con tratti terribili ed inesorabili. Quale sacrificio? Quale nuovo rito? Ma è chiaro. La dismissione, anche a seguito di violente manifestazioni globali, di tutti gli arsenali atomici del pianeta, ovvero del virus tecnologico analogo a quello biologico per potenzialità annientatrice. Migliaia di pacifisti consacrati (sacrificati) a questa nuova religione dei popoli. Una grande kermesse mondiale da celebrarsi in un unico periodo, magari Agosto 2021 (come in un unico periodo si celebrano le Olimpiadi), con scioperi della fame, assedi pacifici ma ad oltranza alle basi militari di tutto il pianeta. Altro che Greta Tunberg. Solo questo avrebbe pareggiato i conti con la nascente, nuova, terribile Divinità (probabilmente la Madre Terra Matrigna, ma l’identificazione di essa non è qui rilevante). 

Così però non è andata (la scomparsa dei riti essendo la cifra della nostra epoca secondo il filosofo Byung-chul Han), e all’orizzonte mentale del potere si è riaffacciato l’unico rito sacrificale che l’umanità conosce dalla notte dei tempi (quello che Roger Callois chiama l’ultima festa nera dell’umanità): la guerra-guerra, quella combattuta inizialmente in Europa (e dove sennò?), corpo a corpo, strada per strada, tetto per tetto, cecchino per cecchino, con trincee e barricate e sacchi di sabbia e cavalli di frisia come sul fronte occidentale di più di cento anni fa e come sul fronte orientale ottant’anni fa. 

E se in questo vuoto di potere rituale Putin avesse assunto un mandato paradossale ed assurdo e una legittimazione globale ad appiccare l’incendio che ha appiccato? 

Entriamo con discernimento nel delirio. La pandemia ha inoculato nell’inconscio individuale e globale il senso della possibilità dell’estinzione del genere umano. Razionalmente, e facendo riferimento ai precedenti storici epidemiologici, la ratio globale ha messo in carico una decimazione dell’umanità, non l’estinzione totale, ha fatto leva sulle contromosse sanitarie e sociali. Ma il virus è penetrato nell’inconscio, dove la parte e il tutto coincidono (Matte Blanco), e per la prima volta ha posto l’homo sapiens nella (in)coscienza della propria condizione globalmente estintiva dovuta all’interconnessione globale. Certo anche la guerra nucleare, con il suo inesorabile, e tragicamente comico acronimo MAD (Mutual Assured Destruction) pone il rischio potenziale dell’estinzione del genere umano (della vita umana sul pianeta terra). Ma lo ha finora posto ad un livello distopico, non attuale, materia buona per libri e film sul day after, La Strada di Cormac Mccarthy, ad esempio, buona per le grandi tenzoni morali dell’umanità a fine corsa. All’estinzione nucleare nessuno crede davvero più, forse ci si è creduto all’epoca della guerra fredda. La pandemia ci ha fatto invece provare in atto il sentimento dell’estinzione globale. Dunque, simmetria inconscia tra pandemia e guerra nucleare, ma maggiore virulenza inconscia della prima. Per uscire dalla pandemia, non avendo saputo compiere un rito religioso nuovo, l’umanità ha scelto, incaricando il più truce tra i potenti della terra, il sacrificio in vecchio stile, sacrificando – tanto per cominciare – un popolo, quello ucraino, i bambini (quelli di cui da sempre le Divinità sono più ghiotte), le mamme (la Grande Madre), i vecchi (il colloquio con la morte che viene), i malati (i combattenti per la vita), le ragazzine (il fiore), i giovanotti che vanno alla guerra (il tronco). Il problema però resta, perché quella innominata Divinità che avremmo dovuto placare, non si accontenta di sacrifici regionali e territorialmente circoscritti, è un po’ avida…

Una cosa interessante, soprattutto perché apparentemente sconcertante, l’ha detta un giovane sacerdote cattolico ucraino, parroco nel milanese, in un servizio tv in cui si dava conto  degli aiuti umanitari raccolti dalla parrocchia (medicinali, viveri, vestiti, ecc.) e destinati alla Caritas ucraina. Intervistato (da Rainews), il parroco di origine ucraina si è fermato un momento, ha fatto silenzio e poi: – Dico una cosa. Pausa. I suoi occhi, arrossati, si sono inumiditi. Con un inizio di singhiozzo subito soffocato ha proseguito così: – Mi dispiace che Dio abbia scelto il mio popolo per questo sacrificio, ma il cuore di tutti, di tutti i popoli, si è ultimamente troppo indurito, non ci inginocchiamo più, non preghiamo più. Il giovane parroco ucraino, dietro un richiamo apparentemente catechistico e cattolico-universale, ha detto qualcosa che esonda l’ambito religioso e va al cuore del problema globale attuale.

L’ELEMENTO PORTENTOSO, MIRACOLOSO, SPETTACOLARE DELL’INVASIONE MILITARE RUSSA. 

Nell’ora buia dei generali e degli analisti, solo una cosa è condivisa da tutti. L’invasione russa dell’Ucraina non se l’aspettava nessuno, non così. Un evento che rompe la catena analitico-previsionale, che sorprende, che rende attuale l’inimmaginabile, che altro è se non qualcosa di portentoso, numinoso, miracoloso (nel senso etimologico di “meraviglia, cosa meravigliosa, prodigio” che detiene il vocabolo latino miraculum, o il verbo miror (semipassivo o deponente) che significa essere sorpreso o essere stupito di qualcosa non necessariamente degno o onorevole, lasciando il senso in una neutralità valoriale al pari del termine latino fortuna) ergo spettacolare? L’evento epocale che irrompe inatteso, si trascina dietro, o è preceduto, da qualcosa di terribilmente religioso, religioso nel senso quantomeno gnostico, dove la religione è il campo di battaglia tra due demiurghi, Dio e Satana. La CIA lo sapeva e lo aveva predetto, ma l’opinione pubblica mondiale (il popolo dei fedeli) non credeva all’inimmaginabile. 

4-3-2022. La scorsa notte è infuriata la battaglia attorno alla più grande centrale nucleare europea, quella di Zaporihzhia. Sono state documentate esplosioni. È circolata la notizia di un innalzamento della radioattività nell’area circostante, notizia poi smentita. Ieri notte le autorità ucraine dichiaravano di mantenere il pieno controllo della centrale, stamane la notizia che la centrale è sotto il controllo russo (si fa per dire). Una centrale nucleare come campo di battaglia, come lottare sull’orlo di un vulcano… Mai successo, se non nei film, qualcosa del genere, prima. Il vuoto simbolico lasciato dai pacifisti di tutto il pianeta è stato occupato materialmente dai guerrieri, fuori dai cancelli della centrale atomica. 

È evidente che a questo si voleva arrivare e a questo si è arrivati. Uso qui deliberatamente (e anti-heideggerianamente) il “si” impersonale, giacché a questo punto la questione non è più solo un contenzioso tra due stati, ma una reazione a catena che coinvolge l’Europa tutta ed il mondo intero, e tutti gli attori, diretti e indiretti, del conflitto, sono meglio ricompresi nella particella “si”, equivalente dell’insieme umano.

L’umanità intera, come dicevamo, ha corso e forse ancora corre il rischio di decimazione se non di totale estinzione a causa della pandemia. Per il general intellect, nella sua parte più storico-dialettica, la pandemia è stata letta come il kairos per una palingenesi umana. Il filosofo marxista sloveno Zizek ha intravisto, nel diffondersi globale del contagio, una lucina in fondo al tunnel: un nuovo, ma stavolta non dispotico, comunismo. In Italia è divenuta virale la poesia di Mariangela Gualtieri Nove marzo 2020, assurgendo al rango di prece nazionale lirica e laica con funzione colpevolista / apotropaica. Lo schema della poesia è il seguente: 1. COLPA (“ci dovevamo fermare”, abbiamo spezzato l’equilibrio cosmico con Madre Terra, ecc.- 2. ESPIAZIONE (“una voce imponente ci dice di stare a casa”) – 3. PERDONO/RINASCITA (la ricetta per la exit strategy inizia col verso “guardare di più il cielo” e finisce con l’esortazione a “fare il pane”). La pandemia è, per la poeta Gualtieri, un accadimento che ha qualcosa di portentoso, miracoloso, (anti)-spettacolare e, in definitiva, religioso. La seguente strofa potrebbe benissimo adattarsi alla nuova evenemenzialità prodigiosa in atto in Ucraina, anzi, sembrerebbe scritta all’uopo, eccetto per le pepite d’oro, perché quelle le trovano solo i signori della guerra e i produttori e trafficanti di armi:

È portentoso quello che succede.

E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.

Forse ci sono doni.

Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

C’è un molto forte richiamo 

della specie ora e come specie adesso

deve pensarsi ognuno. Un comune destino

ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.

O tutti quanti o nessuno.

L’uscita dallo schema conduce a, ed è prefigurata da “una comprensione dilatata”. Nove marzo 2020 (due anni esatti fa) prefigura sì nuove ritualità, ma a sacrificio zero o minimo. Se rinunciamo a qualcosina, e ci fermiamo dieci minuti a guardare il tramonto, siamo già sulla buona strada. La proposta, se così possiamo chiamarla, di una delle voci sapienziali più ascoltate oggi in Italia (una poesia di Gualtieri, Bello mondo, è stata recitata a San Remo 2022 da Jovanotti) è un sacrificio compatibile. 

Ma un sacrificio compatibile è fintamente religioso. Se religiosa è la diagnosi (hybris versus divinità cosmica), la terapia è invece qui analgesica. La “dismisura prometeica” che anche la pandemia (al pari della tecnologia dell’annientamento totale reciproco, MAD) ha spalancato, non può che essere colmata con una dismisura uguale e contraria. Se la pandemia ha divorato fino ad oggi almeno 11 milioni di esseri umani (fonte La Repubblica online, 20 gennaio 2022, Quanti sono i morti del Covid? Molti più di quelli che sappiamo: ecco perché, di Noemi Penna), almeno altrettanti milioni di esseri umani dovevano immolarsi in gesta eroiche di atti di sabotaggio degli armamenti nucleari in tutto il pianeta, ponendo la propria vita sulla bilancia della Divinità Terribile.

La guerra in corso, che come ogni guerra, non lo dimentichiamo, ha sempre avuto una matrice sacra (sacralità che nel novecento si è nascosta dietro il velame dell’ideologia)  è quindi per questa ipotesi la vendetta che la pandemia (ossia gli almeno 11 milioni di esseri umani insepolti, presto liquidati) scatena contro l’umanità sopravvissuta. A dispetto degli auspici della poeta Gualtieri, un minuto dopo la discesa del contagio si è tornati alla solita vita frettolosa di prima, come se nulla fosse davvero successo: altro che fare il pane e contemplare lungamente il cielo!

Non si sta ovviamente sostenendo, come potrebbe apparire, che se non ci fosse stata la pandemia Putin non avrebbe scatenato la guerra. La guerra era preparata da tempo, oltre al fatto che incubava nel conflitto regionale che andava avanti da anni. Quello che si cerca qui di indagare è che la dismisura con la quale la Russia di Putin ha scatenato l’aggressione, e che ha sorpreso pressoché tutti gli analisti ed esperti militari e di geopolitica, è speculare alla dismisura globale con la quale la pandemia ha invaso la coscienza planetaria. Il comportamento di Putin sembra replicare il comportamento del virus, come fanno i neuroni specchio. La pandemia, lungi dall’indurre a istituire un tabù circa l’annientamento umano, ne ha rappresentato la fonte di legittimazione e replica. Altro che una “comprensione dilatata”. Qui siamo piuttosto al cospetto di un programma virale che auto-esegue se stesso. La sovranità planetaria, biopolitica e letale della pandemia ha innescato una reazione a catena di sovranità politica letale attraverso la guerra. 

E torniamo alla sorpresa, al miracolo. Sarà contro-propaganda, ma il tema dell’isolamento umano, della paranoia di essere assassinato e della malattia mentale di Putin sta circolando nei media. La scrittrice spagnola Clara Usòn dice che Putin “è il dio greco che impazzisce prima di distruggere tutto” (La Stampa, 2 marzo 2022, p. 21). L’approccio alla guerra di Putin è stato finora caratterizzato più dallo stile dello 007 (egli, come è noto, inizia la sua carriera come agente segreto al servizio del famigerato KGB) che non dalla strategia militare classica. Non perché egli sia una colomba, chiaro. La guerra si fa di nascosto, si agisce in segreto, spiando, comprando, corrompendo, avvelenando, torturando, eseguendo uccisioni mirate, diffondendo false notizie, dividendo lo scacchiere avversario, infiltrandosi nei ranghi nemici. Lo scontro frontale non è l’opzione decisiva, o non lo era stata fino ad ora. Nelle guerre cecene Putin ha sì dato il suo contributo efferato e spietato, ma vi è entrato a conflitto già aperto. Putin non aveva scatenato nessuna invasione in stile classico prima del 24 febbraio scorso. E tutto l’attivismo di Putin nella guerra siriana è anch’esso improntato a gioco segreto, prima che alla guerra asimmetrica. Perché allora questo cambio di registro? Si è davvero sentito minacciato dalla NATO? Gli esperti ritengono che non sia questo il punto. Anzi, è stato detto che l’inspiegabile decisione di Putin ha fatto rinascere la NATO, che forse poteva anche morire. Putin si sente però paranoicamente accerchiato, tornano alla mente le riflessioni di Luigi Zoja sulla paranoia dei tiranni novecenteschi (Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri). Bisognerebbe conoscere dettagli della vita privata di Putin, se la ha, al momento comunque non noti, per poter accertare qui una ricorrenza clinica. Ma è certo che la dismisura non si spiega se non come reazione ad una dismisurata minaccia che l’opinione pubblica mondiale non percepisce e Putin sì. Qual è questa smisurata minaccia? Putin ha avuto paura di morire di Covid-19 (in quel modo inglorioso in cui si muore di Covid-19) e ha voluto inconsciamente reagire mettendo in moto la macchina della morte gloriosa della battaglia, la morte degli altri ma forse anche quella propria in qualità di smisurato reattore? (sarebbe «leggendaria» la «germofobia di Putin acuita a dismisura dal Covid», Alessandro Giammi, Domani, Sabato 22 marzo 2022, p. 13, Putin si barrica dietro un totem di potere e fragilità maschile). Ancora, Putin invidia inconsciamente la sovranità letale planetaria del virus (suo simbolico concorrente: il virus agisce non-visto, come uno 007 con licenza di uccidere) e avrebbe ingaggiato contro di esso una competizione per l’egemonia della sovranità sterminatrice?

La medesima fretta con la quale si è fatto ritorno alla solita vita ha contrassegnato anche il ritorno alla guerra. La guerra continua = la vita continua. Cosa di più valevole, nel certificare il pieno ritorno alla normalità post-pandemia, di una guerra? Sembra, da questo punto di vista, che Putin abbia messo in moto l’imponente macchina da guerra russa principalmente contro (lo spettro del) virus, ponendogli in seguente ultimatum: o te ne vai o ti estinguerò. Il virus rispose: ma così tu ti auto-annienti. Effetti collaterali, sentenziò lo zar. Da questo punto di vista Putin incarna la ritorsione militare dell’umano contro l’attacco virale e letale del biologico, una proclamazione di superiorità annientatrice dell’umano sul biologico. Ancora una volta, se guardiamo bene, una questione di sovranità, anche se non più e non solo tra stati, ma tra livelli (umano, biologico). 

La guerra ripristina la (in)stabile signoria dell’umano sulla morte biologica. Non è la natura, ma l’uomo a maneggiare, con la guerra, il potere di vita e di morte. La guerra è l’invenzione umana per sconfiggere il dominio della morte biologica ed instaurare il regime dell’immortalità. In questo senso guerra e religione sono alleati, perché entrambi perseguono il trionfo della vita sulla morte nell’immortalità. Da questo punto di vista, e andando qui contro Günther Anders, secondo cui la bomba atomica introduce una frattura metafisica irreversibile nel progetto e nella vicenda dell’umano, persino l’estinzione atomica dell’umanità (MAD) si manterrebbe dentro il solco di questo programma, anzi ne sarebbe l’attuazione piena: non la materia biologica, ma l’uomo tecnologico determinerebbe la propria auto-estinzione, trionfando definitivamente sulla morte biologica ed accedendo alla piena immortalità.

Il dio greco che impazzisce prima di distruggere tutto è, come noto, Ercole. Talvolta gli scrittori hanno intuizioni strane. La mitologia è la riserva di caccia dove vanno a raccogliere (o a cacciare) le idee gli scrittori, mentre imperversano sui media gli esperti di ogni ordine e grado. Ercole, alla fine, è ucciso da un morto. 

P. S. «La guerra in Ucraina è la prosecuzione della pandemia con altri mezzi», così una ascoltatrice intervenuta oggi, 17 marzo, alla trasmissione radiofonica Tutta la città ne parla (Radio3), presenti, per commentare i contributi degli ascoltatori, Dacia Marini e Luigi Zoja. Detto in una frase, è quello che ho cercato di dire in tutto questo articolo.

P. P. S. Un’altra analogia tra pandemia e guerra. I bambini ucraini sono in DAD. Durante l’ultima settimana di marzo, chi scrive ha ospitato per alcuni giorni quattro profughi, due madri con i loro bambini, uno di dodici e una di otto anni. Il ragazzino di dodici la mattina si collegava e seguiva le lezioni. Lui dall’Italia, altri compagnetti da chissà dove, e da chissà da dove gli insegnanti.

Pianto rituale tra Nibbiano e Satriano, stanotte

Quarant’anni dopo, doppiando Dumas… «I Girifalchi, in quel tempo, non esistevano più, dormivano, per così dire, sulla collina. Vivi erano vivi, morto era lo spirito, sebbene immortale.» I luoghi non ci sono più («In questi ultimi quarant’anni sono spariti tutti i bar e gli spacci di montagna, i sali & tabacchi, le cabine telefoniche, le osterie, le trattorie») ed anche il tempo presente sembra essersi ritirato in disparte. La stessa voce narrante presto tradisce il suo statuto: non è, come ci si attenderebbe, quella del superstite post catastrofe, finzione letteraria per eccellenza; e non è neppure quella oracolare del flusso di coscienza modernista. No, all’apologetica girifalca provvede un’entità aliena e immune dall’umano genere, sebbene di esso al corrente: è il luogo appartato (il fiume, il bosco, la valle, la montagna, la cavità di una quercia che sia). Per esso, con esso e in esso le epoche del mondo, il futuro remoto come il passato mitico dell’origine si danno appuntamento alla medesima ora. Nella simultaneità luminoso-tenebrosa baluginano il re della foresta, il parricida arcaico, il generale africano, il martire proto cristiano, il santo medievale, i monaci pacifisti e il trafficante di armi di distruzione di massa; per esso, con esso e in esso i Girifalchi dispersi vengono richiamati con la forza ai loro doveri funebri. Per radunarli si mobilitano pattuglie di poeti novecenteschi in mimetica: si tratta di celebrare la più numinosa liturgia funebre che la storia (della letteratura) ricordi: numinosa perché non si sa bene a chi appartenga, stanotte, la mummia portata a spalla nella foresta dai dodici poeti necrofori e psicopompi. Tutto converge verso una dolosa, scabrosa, parodistica Notte di Valpurga tra Nibbiano e Satriano: una seduta di laurea, che si svolge in contumacia del laureando, e nella quale si discute dell’opera inedita I Girifalchi e se ne vagliano le presunte e presuntuose ascendenze letterarie (da Goethe risalendo a Ovidio), si trasforma in uno sguaiato, debordante, onirico rito delle esequie. Se il volume primo de I Girifalchi era la parte storiografica e degli dei superi, ed aveva una data e un anno certi; questo secondo volume rovescia la prospettiva ed è la parte metastorica o catastorica, quella delle divinità infere, e la data è stanotte, ora, sempre, e quindi mai, non ancora. Pianto rituale tra Nibbiano e Satriano, stanotte ospita la più devota, santa, sacrilega, dissacratoria e riconsacratoria liturgia del trapasso e del congedo.

https://www.mondadoristore.it/Pianto-rituale-Nibbiano-Stepor-Marqu/eai979122034237/

https://www.ibs.it/pianto-rituale-tra-nibbiano-satriano-ebook-stepor-marqu/e/9791220342377

https://www.youcanprint.it/pianto-rituale-tra-nibbiano-e-satriano-stanotte/b/9457c725-4bdf-5088-af7c-c023475678fd

Materiali di studio 5. Il letargo di Dante

Un punto solo m’è maggior letargo

Che venticinque secoli a la ‘mpresa

Che fe’ Nettuno ammirar l’ombra d’Argo

                                          (Par., 33, 94-96)

Può la Divina Commedia, il poema pilastro, reggere davvero il carico di sette secoli? Non di sette secoli di commenti, che dovrebbero sorreggere l’edificio, ma sette secoli di eventi? Ha idea Dante di quale futuro ha dovuto farsi carico il suo poema? Siamo davvero onesti con Dante se continuiamo a relegarlo nel comodo cantuccio medievale (brutale quanto si vuole, ma sostanzialmente cantuccio e rassicurante) e a nascondergli, per esempio, la vera brutalità, l’invenzione della scrittura a caratteri mobili, la scoperta o la conquista delle Americhe, lo scisma religioso europeo e la lenta agonia di Dio, la rivoluzione industriale, l’elettricità, il motore a scoppio, la guerra civile europea dei trent’anni, l’energia atomica[i], la conquista dello spazio, il personal computer e internet, il surriscaldamento globale?

Abbiamo fatto di Dante un’icona pop facendo finta che Andy Wharol fosse Giotto. Lo abbiamo introdotto nel futuro nascondendogli la modernità, come la giovane moglie nasconde l’amante quando torna a casa il vecchio marito. Il futuro che Dante ha alle spalle è certamente più impegnativo, nei mutamenti avveratisi, di quanto non lo siano i venticinque secoli che ha davanti agli occhi e che lo separano dall’impresa mitica degli Argonauti. Come ha attraversato questi sette secoli il poema di Dante? Ha resistito ad essi imperturbabile come una statua di marmo resiste al passaggio della notte e del giorno e alle piogge battenti? Quanto sa Dante di noi? È restato per sette secoli il nostro nocchiero nella tempesta? O la nostra nutrice della parola decisiva, quella poetica? Più che celebrare lui, sembra che stiamo difendendo noi. Da cosa? Ma è evidente: dalla minaccia principe che incombe sull’umanesimo morente: l’era social-visual. La parola delle origini è minacciata, sta sotto attacco e scacco. Quando morirà Dante? Sembra quasi che la sua apoteosi settecentenaria coincida con la sua sparizione. Nessuna catastrofe, certo, nessuna cesura netta. Un’agonia, che forse è già cominciata.

Un grande poema, si potrebbe dire tagliando l’oziosa domanda, è come una grande opera architettonica, costruita con la scienza del passato per resistere al carico del futuro. Stop. 

Ma stanno davvero così le cose? Un pensiero molesto sussurra che stiamo portando in giro Dante. Lo replichiamo a canali unificati, come nei negozi di elettrodomestici, reparto televisori, laddove un volto di un opinion leader si replica simultaneamente su decine e decine di schermi. Dante non ha neppure conosciuto la stampa a caratteri mobili, ci vorranno più di cent’anni (centotrentaquattro) prima di Gutenberg. La prima edizione a stampa della Commedia è del 1472[ii]. Altri venti anni e scopriamo, o conquistiamo, le Americhe. Eppure Dante è replicato sugli schermi al plasma come fosse un navigato opinion leader che ci spiega tutto di noi oggi. La poesia come segreto, la poesia come incontro intimo, la poesia come «una musica che ci arriva da altre stanze» sembra qui sottostare ad una pressione insostenibile. Nelle celebrazioni si perpetua il sacrificio. Uccidiamo Dante per paura che muoia se viene a sapere come sono andate le cose. Come se lui non sapesse già tutto. Prendiamo Dante come un nostro contemporaneo a parole, ma nella sostanza lo imbalsamiamo.

Eppure come non riconoscere in Dante un long distance poet? Un poeta cioè, per dirla con Mandel’štam, il cui occhio da rapace «è predisposto in modo così naturale solo alla scoperta della struttura stessa del tempo futuro[iii]»? Dante non è Ovidio, che scatta l’istantanea del mito senza tempo. Non è Virgilio, dove si ode scrosciare l’epica del tempo passato (e il tempo futuro è evocato solo ideologicamente, ma senza crederci davvero). Si ha l’impressione che Dante sia sollecito del tempo futuro proprio perché egli si pone al bivio dove confluiscono mito ed epica.

Tali sono le bizzarre e oziose divagazioni che l’immagine contenuta ai versi 94-96 dell’ultimo canto del Paradiso possono suscitare.

Siamo alla «visione» di Dio.

IL LETARGO

La parola letargo ha, nel poema dantesco, una sola occorrenza: questa. Quale che sia il significato che, nel contesto, si voglia ad essa assegnare (per la maggioranza degli interpreti equivale a sonno profondo e prolungato, e, per traslato, oblio; per la minoranza invece starebbe ad alludere a una qualche forma di esperienza visionaria o di rapimento estatico[iv]), una cosa è certa: quella parola lì è spiazzante, e, prima facie, anche poco riguardosa nei confronti dell’Essere supremo. Se il termine non fosse correlato ad un’immagine desunta dal mito, e non fosse incatenato in rima all’evocativo nome proprio di una mitologica nave, l’impiego di esso, nell’inevitabile associazione a una tartaruga o ad altro animale che rallenta la propria funzione organica per una durata assai maggiore del comune sonno fisiologico, risulterebbe non poco imbarazzante considerato che ci troviamo a due passi da Dio.

Di un’altra sola cosa possiamo essere certi: arrivato, come è arrivato, al termine del suo viaggio, allo show down, nell’ultimo canto del suo poema Dante, più che mai, misura le parole col contagocce. Quel punto solo vale tutto il suo poema. Sotto questo riguardo, la Commedia non è che un lungo attraversamento per arrivare a quella meta. Il lavoro di Dante potrebbe essere considerato come un accumulo di credito da spendere, al cospetto di Dio e del lettore, tutto in questo ultimo canto. Dante si fa garante, con l’immensa fiducia che si è guadagnato via via, della validità della sua esperienza-limite. 

Dante misura le parole col contagocce e sceglie una parola brutale: letargo, appunto. Sebbene quello che sto per dire sembri demenziale, talvolta si ha l’impressione che Dante non sappia scrivere, che fatichi a trovare le parole giuste, che incespichi nel procedere. Dante è lontano dall’«eloquenza francese di Virgilio»[v], ma anche, in prosa, da Cicerone. La medesima impressione si ha con Francesco d’Assisi. Forse ciò si spiega perché Francesco si trovò a inaugurare un nuovo corso spirituale quando non c’erano le parole belle e pronte per esprimerlo. Le ha dovute quasi dissotterrare da sotto i sassi. Così sarà per Dante, che dovrà forgiare una lingua esistente solo allo stato magmatico per inaugurare un nuovo ciclo della poesia. Questa carenza di parole vale, a pensarci bene, anche per Leonardo da Vinci, un altro inauguratore. Il suo italiano che si cimenta con la nuova tecnologia, la nuova meccanica, è rudimentale, basico, non ancora polito. Una lingua all’osso, quasi priva di polpa. In Dante vi è qualcosa di rude e di ruvido. Questa lingua germinale unitamente alle circonlocuzioni, le allusioni velate, i traslati fanno pensare al discorso di un pazzo. Ma fanno pensare a un pazzo più ancora le singole parole, che vanno dirette al punto scavalcando molte premesse. Il discorso del pazzo è decentrato rispetto all’oggetto, o per difetto o per eccesso. Anche nel volgare di Francesco d’Assisi si avverte questa specie di decentramento, per difetto più che per eccesso. Nella sua invettiva, San Pietro chiama «cimiterio mio» la sede apostolica e papale eretta sulla propria tomba. Cimitero è, rispetto a tomba, un’esagerazione, una sineddoche invertita, dove si nomina il tutto per significare la parte. Questo dilatarsi del senso circoscritto mediante la traslazione aumentata è la forza della lingua folle di Dante. Il restringersi del senso cosmico mediante la traslazione diminuita è la forza della lingua folle di Francesco.

Il credito di Dante è smisurato perché eccede la ragione. Quali lettori-debitori di Dante, dobbiamo quindi escludere che letargo sia una parola a rima di servizio per il nome proprio Argo. Piazzata dove è piazzata da Dante, la parola disturbante fa tornare alla mente quello che Borges dice in un racconto (La muraglia e i libri): l’attuazione di un piano che include, segretamente, inesplicabilmente, il proprio autoannullamento è all’origine, forse, del fatto estetico (Borges sta congetturando e scartando di volta in volta tutte le ipotesi interpretative volte a conciliare il gesto auto-oppositivo del primo imperatore cinese, che da un lato sembra intenzionato a conservare, e fa erigere a protezione dell’impero la muraglia, e dall’altro sembra invece intenzionato a distruggere, e fa bruciare i libri di tutto l’impero. Perché?). Letargo e visione di Dio sembrano due termini che si autoelidono. Sulla impossibilità dell’interpretazione univoca delle immagini dantesche una cosa molto netta la dice Osip Mandel’štam[vi]: «[…] Voler precisare le immagini dantesche è altrettanto impensabile che tentar di elencare i cognomi degli individui che presero parte alle invasioni barbariche.»

Se «ancora oggi si resta incerti sull’esatto significato della famosa terzina»[vii], e se gli interpreti continuano la disputa, l’unica concordia si registra sulla potenza evocativa dell’immagine, sul «fatto estetico», per dirla con Borges. C’è chi opportunamente rileva che quando Dante sente il bisogno di solennità e di magnificenza attinge al repertorio «classico»[viii].

Proviamo per un po’ a mandare in letargo la parola letargo, e concentriamo la nostra attenzione sul secondo e terzo verso della terzina.

IL DIO NETTUNO

Perché Dante sente l’esigenza di evocare una divinità mitologica ed un evento mitico (l’impresa degli Argonauti) mentre sta cercando di spiegare al lettore l’inesplicabile?

La risposta che dà Momigliano (nota VIII) è una non risposta. Quando Dante vuole fare bella figura davanti al Superiore, dice l’illustre commentatore, si mette in abiti eleganti e tira fuori un mito classico dal guardaroba.

L’immagine del dio Nettuno contiene anch’essa una «visione», anzi, è imperniata sulla visione dell’ombra della nave Argo. Lo stupore (ammirar) del dio degli oscuri abissi è il punto di appoggio per Dante e di coincidenza con il suo stupore. Di cosa stupisce Nettuno? Sprofondato da millenni negli oscuri fondali volge il capo e si avvede verso l’alto di un oggetto non identificato che trasvola la volta celeste del suo dominio. Si tratta di un evento primario, numinosamente inaugurale. Vengono alla memoria le prime note del poema sinfonico di Richard Strauss Also sprach Zarathustra associate alla prima immagine archetipa del film di Kubrick 2001: Odissea nello spazio.  Ha ragione Momigliano, qui c’è un grandioso senso pittorico. Lo stupore di Dante nella sua visione non è inferiore a quello di Nettuno, anzi è maggiore.

Ma non basta. Nell’immagine di Nettuno si incorpora un senso di spodestamento: il dio degli abissi marini, signore delle origini, leva il suo sguardo e per la prima volta si accorge che c’è qualcosa sopra di lui, che il suo non è l’unico regno. Il dio degli abissi marini è spodestato da qualcosa che lo sovrasta, e la cui visione induce in lui stupore (incredulità mista a inoppugnabilità dell’evidenza mirabile). Chi o cos’è questo qualcosa? È l’Uomo, sono gli Argonauti, i primi naviganti (ma anche i primi conquistatori), gli inventori della solida nave, coloro che passeranno indenni e che non saranno inghiottiti dalle fauci del dio: essi generano, per dirla con Lucrezio, il mare navigerum, portano fin sui flutti del mare la nuova era, quella umana.  «[…] La metafora della navigazione come ricerca e conoscenza percorre tutta la Commedia. Se, dagli Argonauti in poi, gli uomini hanno osato oltrepassare i confini posti dalla natura, attraversando quel mare che sembrava invalicabile, navigare significherà elevarsi mediante la ragione al di sopra della pura naturalità e cercare, e trovare, ciò che prima era inaccessibile.»[ix] Quanto ciò sia vero, trova un riscontro testuale in apertura di Purgatorio 1, ove Dante parla della «navicella dello mio ingegno» che alza le vele per correre migliori acque di quelle stigie: oltre alla conferma della metafora navigazione = conoscenza, possiamo anche vedere una specularità navale tra l’inizio del Purgatorio e la fine del Paradiso. In via provvisoria possiamo quindi concludere che Dante cerca un punto di rimbalzo molto arretrato nel tempo, come quei saltatori che arretrano il più possibile per prendere meglio la rincorsa, e lo trova, tra gli innumerevoli che avrebbe potuto scegliere (dalla Sacre scritture, dal repertorio della poesia classica, dalle fonti storiche), nel punto di congiunzione tra il mito e l’epica protostorica degli Argonauti, perché in quel mito è implicata una «visione», che va a coincidere con l’avventura della conoscenza umana.  Se possiamo dirlo con un’immagine, Dante tende il più possibile l’arco della vicenda umana in modo che la freccia che da esso scocca possa percorrere una parabola lunghissima sì, ma inferiore alla vicenda che si condensa in un punto solo

La scelta di Nettuno obbedisce forse anche ad un’ulteriore esigenza. Dante, quasi a termine di paragone, evoca una divinità minore, impicciata nelle buie dimore degli abissi. Avrebbe potuto evocare Urano, o Kronos, ma divinità cosmologiche più importanti e solenni avrebbero conteso il primato al Dio cristiano e trinitario, e quindi opta per questo dio abissale, per questo bestione dei fondali marini, che leva il suo ottuso guato verso l’alto, e stupisce di qualcosa che forse neppure comprende. 

L’ABOLIZIONE DELLO SPAZIO-TEMPO

L’immagine non si esaurisce nella sua funzione visuale. In essa si innesta, in maniera solo concettualmente, ma non poeticamente districabile, un’altra funzione, legata alla temporalità. Poche terzine prima Dante ha, per così dire, fatto fuori lo spazio: nella contemplazione di Dio lo spazio sparisce:

Nel suo profondo vidi che s’interna

legato con amore in un volume

ciò che per l’universo si squaderna.

                    (Par., 33, 85-87)

Esterno ed interno spariscono, perché vanno a coincidere. Per la sparizione dello spazio Dante ricorre all’immagine del volume legato con amore. (Che titolo ha questo volume? Con Galileo dovremmo dire che si tratta del libro dell’universo, ma è più probabile che Dante abbia pensato, nella sua mente concreta, a un libro vero e proprio: la Bibbia? Il suo stesso poema? Questa ultima ipotesi apre una fuga di specchi sul senso sacro della poesia e della scrittura, un’ipotesi che sarebbe gradita a Borges; a suffragarla vi è una simmetria: in Inferno 1, quando Dante riconosce in colui che viene in suo soccorso Virgilio, l’autore di quel volume che è stato oggetto di lungo studio e grande amore, impiega le medesime parole, volume e amore dei versi riportati supra, nell’ultimo canto del poema. La simmetria è troppo vistosa perché sia lecito trascurarla. Dante si riferisce quindi, ancora qui, all’Eneide? Secondo logica ciò non è possibile, dato che nel Paradiso cristiano il poema pagano non può trovare ricetto. E allora, qual è il poema che, discendendo sì dall’Eneide per filiazione e recependo però la verità cristiana, ha il titolo di legittimazione come opera-mondo?)

La terzina di Nettuno è preposta alla sparizione del tempo. Dante dice che «un punto solo» ha una durata maggiore di venticinque secoli. L’istante singolo eccede la durata immensa, quasi inattingibile alla mente umana. L’infinito in un istante[x]. Dante non è nuovo a questo genere di contrazioni temporali, non è nuovo al «sublime matematico». Quando vuole significare la vanità dell’umana gloria e la brevità della vita dice che mille anni, che pure sembrano una durata tale da rendere al suo cospetto irrilevante che si muoia vecchi o neonati, sono, rispetto all’eternità, più brevi di quanto non lo sia la infima durata di un batter di ciglia rispetto al tempo che impiega l’ultimo dei cieli, il settimo, a compiere una rotazione completa (Pur., 11, 106-108). Nell’un caso come nell’altro, la misura del tempo umano, dinanzi all’eternità e a Dio, si polverizza.

La tentazione di diagnosticare in Dante un paranoico che, sulla base di una smisurata mania di persecuzione, alimenta un ego ipertrofico che prima fa strage dei suoi nemici nell’Inferno e poi si autoinvita al ricevimento in Paradiso, resta in agguato[xi]. Non tanto perché egli metta in scena la propria sedicente esperienza visionaria di Dio, giacché una cosa del genere non era così rara o patologica al tempo. Quello che ci fa insospettire è che Dante pretenda di aver raggiunto quella tale visione non per via mistica ma per via razionale. Dante vuole accreditarsi presso le persone serie, non presso i fanatici, presso gli Scolastici e san Tommaso non presso gli eretici. Nell’ermeneutica dantesca c’è una frattura di faglia: da un lato gli interpreti che escludono un ricorso di Dante a strumentazioni misticheggianti; dall’altro gli interpreti – minoritari e generalmente screditati – che insistono su un livello esoterico o iniziatico della Divina Commedia. Dante come Rosacroce, ecc. Alla fine viene l’Amore a mettere d’accordo un po’ tutti, nel senso che la visione di Dio, come ci dicono le celebri terzine finali, avviene solo con il tramite dell’Amore universale. 

Non risulta però che sia stato ancora svolto un semplice ragionamento, che riguarda l’abolizione del tempo, inteso come endiadi di passato e futuro. Lasciando perdere l’opposizione razionale/irrazionale, possiamo fare la seguente semplice illazione. Se quel punto solo è più denso di senso che i venticinque secoli indietro, non possiamo non dedurre specularmente che anche venticinque secoli avanti siano in quel punto solo da Dante ricompresi. 

Dante contrae in un punto solo tanto il passato, che ha davanti ai suoi occhi, quanto il futuro, che ha alle sue spalle. Noi lettori del XXI secolo contraiamo sì il passato che va dall’origine mitica a Dante, ma dilatiamo a dismisura il futuro che va da Dante a noi, e che per noi è passato. In questo senso non prendiamo Dante sul serio. Sono trascorsi sette secoli dal compimento del viaggio dantesco. Ci separa da quell’epoca meno di un terzo del tempo – presunto – che separa Dante dal viaggio della nave Argo, all’origine dell’avventura umana. Eppure ci appare tutto cambiato. Se siamo onesti con noi stessi (e con Dante) gli ultimi cinquant’anni della storia umana valgono i venticinque + i sette secoli.

Siamo onesti: sono ormai quattro secoli, almeno da quel 1492, che non prendiamo sul serio Dante. 

La topografia a imbuto e a gironi dell’Inferno è bozzettistica grottesca[xii] e la struttura angelica del Paradiso ci appare più che altro come un fumetto. Non crediamo più davvero a quell’impalcatura teologica e dottrinaria. È venuta giù, restano, scheletrici, i tubi Innocenti. In questo senso noi uomini europei postmoderni siamo più vicini alla sensibilità religiosa indiana delle Upanishad, come ci dice per esempio Schopenhahuer, che non a quella di Dante. E tuttavia ci fa comodo questo aldilà da operetta, e ci fa comodo questo medioevo stazionario e rassicurante. E ciò è ancora più vero per i non credenti, per i laici, i quali alla fine sono i più affezionati a questa rappresentazione così poco impegnativa che li rinsalda nel loro scetticismo scientista e al tempo stesso li esonera da ricerche spirituali più radicali e destabilizzanti.[xiii] 

Possiamo dire che questi sette secoli hanno smontato pezzo per pezzo la concezione dantesca del mondo, a cominciare dalla concezione tolemaica del sistema solare. Non crediamo più a niente di quello che Dante assevera essere vero. Non crediamo che il primo uomo sulla terra, Adamo, sia vissuto 6498 anni prima del 1300, come sembra credere Dante (Par., 26). Cristoforo Colombo, smentendo Ulisse, varca con tre caravelle le colonne d’Ercole e scopre il nuovo mondo, che supererà per potenza il vecchio mondo europeo. La scienza smonta la concezione tolemaica della terra al centro del cosmo[xiv], a cominciare da colui, Galileo, che vide

Sotto l’etereo padiglion rotarsi

Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,

Onde all’Anglo che tanta ala vi stese

Sgombrò primo le vie del firmamento

La stessa teologia cattolica ha messo in forse l’esistenza del Purgatorio, e tentenna fortemente circa l’esistenza stessa dell’Inferno, e comunque respinge come mera fantasticheria l’ipotesi dantesca. Gli esperimenti di Oppenheimer, lo sbarco sulla luna, sono tutte cose che ci parlano di un mondo assai diverso da quello concepito da Dante. (Sebbene, a parziale difesa del Poeta, vada ricordata l’immagine della terra vista dallo spazio, l’aiuola che ci fa tanto feroci, altra contrazione dello spazio, peraltro).

Quello che Dante vede internarsi in Dio, ovvero tutto lo scibile umano, messo tutto dentro una sola terzina

sustanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

che ciò ch’i’ dico è un semplice lume

                      (Par., 33, 88-90) 

non è più lo scibile nostro, dopo sette secoli. Qui abbiamo due strade: 1. Ritenere che la teologia e la scienza aristotelica della Scolastica sia per Dante il raggiungimento di un culmine gnoseologico dell’umanità e il piano di appoggio per staccare il volo verso la contemplazione razionale di Dio, una sorta di plenitudo temporis (operazione chirurgica, questa, che non deve però interessare – o coinvolgere – la sommità storica della poesia di Dante, il suo porsi all’origine di una nuova lingua, il volgare, generando e al tempo stesso avvalendosi di fortunate condizioni linguistiche che non si daranno più nella storia delle lettere italiche). Oppure 2: Ritenere che Dante consideri quel momento della storia umana, quello in cui egli ha la ventura di vivere, poco più che nulla, come consideri poco più che nulla tutto il possibile futuro dell’avventura umana, qualunque essa potrà essere. Questa sembra un’opposizione più interessante di quella tra razionalisti ed esoterici. 

Formulando la questione in altri termini, se non vogliamo prendere sommamente in giro il Sommo Poeta, a noi lettori di Dante del XXI secolo è affidato un non facile incarico: 1. Stabilire se quello di Dante è un gesto imperialista, lui al vertice della piramide teologico-storica dell’avventura umana, e alla base da un lato Nettuno, venticinque secoli prima quel punto solo, e noi dall’altro lato, sette secoli dopo quel punto solo. (Questa prima alternativa, che potremmo definire stazionaria, è raffigurabile visualmente come sopra). Oppure 2: Convincerci che il gesto di Dante non è piramidale, ma trasversale, e trapassa dall’interno, per così dire, il passato ed il futuro e giunge simultaneamente a tutte le età del mondo, la nostra inclusa. Questa alternativa implica che noi lettori di Dante oggi dobbiamo collaborare con lui e capire se quello che dopo di lui è successo nella vicenda umana può confermare, e come, la validità dell’esperienza-limite che Dante consegna ai posteri (ma si direbbe anche agli antenati). Questa seconda alternativa, che potremmo definire sincronica, non può non misurarsi con l’immagine-concetto dell’angelo della storia di Walter Benjamin (Tesi di filosofia della storia, 9).

Qualche elemento utile a sciogliere il nodo possiamo rinvenirlo nel dettato dantesco. Dante pensa non solo alle ere passate ma simultaneamente pensa a quelle (per lui) future. In questo senso può essere letto innanzitutto il riferimento all’«infima lacuna de l’universo» (Par., 33, 21-22), dalla quale Dante proviene nel suo lungo itinerarium mentis in Deum. Il riferimento diretto è al suo viaggio nell’oltremondo, a partire dall’Inferno; ma non è arbitrario associare un’allusione indiretta all’epoca storica della vita del poeta. Avremmo qui un punto d’appoggio relativistico, che ci farebbe propendere per l’ipotesi che abbiamo chiamato sincronica. Dante fa poi cenno alla «futura gente» (Par., ibidem, 73). Poco più sopra c’è un terzo elemento che ci fa propendere per l’idea di un Dante che relativizza la propria epoca storica e, per così dire, si divincola dal suo mortale abbraccio per abbracciare in un punto solo il non tempo, la contrazione di passato e futuro. Si tratta del richiamo alla Sibilla, in una delle più belle terzine del poema (Par., ibidem, 64-66). Anche qui l’idea di Momigliano è fiacca. Dante chiama in causa la Sibilla in questo decisivo e ultimativo canto perché la Sibilla confonde nel suo oracolo passato e futuro. Si direbbe che la forza del pronunciamento della Sibilla sia proprio questa ambivalenza. Dante non solo è Nettuno per lo stupore primario, ma è la Sibilla per la condizione metatemporale nella quale si pronuncia e va a perdersi «la sentenza». Il punto solo è l’imbuto dove precipita non solo il passato remoto, ma anche il futuro remoto dell’umanità.

IL LETARGO (SEGUE)

Il notevole contributo, citato alla nota IV, è così ben argomentato e così dovizioso di riferimenti filologici da sgombrare il terreno da un equivoco plurisecolare: con il termine letargo Dante allude ad un’esperienza di tipo visionario, a un rapimento estatico. I kamikaze del razionalismo devono arrendersi (o suicidarsi in nome dell’impero della Ragione). Il punto solo è l’abolizione del tempo e dello spazio. Per comprendere appieno questa cosa, si rimanda alla lettura del saggio citato perché chi scrive qui non saprebbe fare di meglio. Vale solo la pena di aggiungere che l’abolizione del tempo e dello spazio si produce, per così dire, all’interno di un’eterotopia (il luogo alternativo della Commedia), ed è pertanto un’abolizione al quadrato, un’abolizione di un’abolizione, come un sogno dentro un sogno che lo contiene e ne è contenuto. La visione di Dante si discosta dalla visione dei mistici coevi in quanto i documenti nei quali quelle esperienze estatiche sono riportate hanno (o asseriscono avere) natura documentaria e non letteraria. La visione di Dante è dentro la letteratura.

Chi scrive ex professo su Dante, come l’ottimo Andrea Fassò, non può spingersi oltre una certa soglia critica. Deve attenersi scientificamente ai dati (il testo, il paratesto, il contesto). Chi invece scrive su Dante occasionalmente e non ex professo può avanzare ipotesi che potranno anche sembrare stralunate o fasulle. Nel fare ciò egli, oltre a non nuocere a nessuno, non danneggia neppure la sua propria carriera accademica, che non c’è. 

A partire, penso, da Immanuel Kant, e con il contributo decisivo di Schopenhauer, la filosofia ha dovuto ammettere che lo spazio e il tempo non sono qualità autonome rispetto al soggetto della conoscenza: spazio e tempo non esistono nella realtà oggettiva, o non esistono come invece esistono i volumi o le navi. Spazio e tempo sono condizioni a priori della conoscenza, cioè un miracolo che rende possibile la percezione del volume e della nave Argo, e della sua ombra, come cose esistenti. Se Kant prima, e Schopenhauer dopo, non fossero venuti dopo il secolo dei Lumi, e non ne avessero in un certo senso raccolto la migliore eredità, essi, Kant e Schopenhauer, sarebbero stati considerati, e a ragione, matti. Si chiede scusa qui per la rozza sintesi.  

Una certa filosofia critica europea si pone in modo collaborativo e in sintonia con la visione di Dante. Si tratta di quella linea di pensiero, non necessariamente retta, che ci conduce da Kant e Schopenhauer a Nietzsche, Bergson, Simone Weil, Bataille e Blanchot, tanto per intenderci. In vari modi tutti essi approfondiscono il tema della sospensione dello spazio-tempo. Nietzsche con la dottrina dell’eterno ritorno, Bergson con il concetto di durata, di simultaneità e di molteplicità interna, Simone Weil con quello di attenzione, Bataille con l’esperienza interiore e Blanchot con l’esperienza-limite.  

Ricapitolando e cercando di rendere meno astruso il concetto: nel far collassare passato e futuro in un punto solo Dante assume (per neutralizzarli) tutto il passato e tutto il futuro. Noi siamo dentro quel punto solo, dall’ottica di Dante. Dante ci contempla. Ma noi contempliamo lui nel nostro presente? Quando leggiamo oggi la terzina dantesca e ci imbattiamo in quel punto solo, il passato che si riassume in noi è quello di Dante (i venticinque secoli) + quello che separa Dante dalla nostra epoca (i sette secoli). Quello che nel poema è il futuro, per noi è passato, e ricade sotto quel gran letargo di cui Dante parla. Ma solo noi lettori di oggi possiamo operare quella che ho chiamato validazione: perché noi lettori di oggi, che siamo consapevoli di qualcosa che Dante, pur includendolo nel suo programma di abolizione, non conosce, noi invece lo conosciamo, talché leggere Dante oggi senza travisarlo implica cooperare ad incrementare l’estensione del passato dantesco, il che equivale a dire traslare Dante nel presente, in modo che l’abolizione si ripeta identica.  Non dobbiamo nascondere a Dante né Gutenberg, né Colombo, né Lutero, né Marx né Freud né Einstein. Siamo nei paraggi della questione che cosa è vivo e che cosa è morto di Dante, ma si comincia ad intravedere il tentativo di invertirne il senso di marcia.

Prima però di procedere su questa direttrice a senso invertito, si rende necessario non rinviare l’esame della questione che fonda l’attualità o la modernità di Dante: la visione politica.

DANTE POLITICO

Possiamo tutti essere d’accordo su ciò: la vigenza di Dante fino ad oggi è data, oltreché dalla sua poesia immortale (come è immortale la poesia di Omero, di Virgilio, ecc.), dalla sua indignazione politica. Ogni epoca l’ha esaltata, financo quella fascista. In Dante si riconosce (e segretamente ammira) il partigiano (il ghibellino?), ma anche colui che sa orientare il proprio pensiero politico verso una sintesi universale. Si loda l’uomo profondamente cristiano che sa però distinguere lo scettro dal pastorale. Ma è la ferita politica di Dante ciò che sanguina fino ai nostri giorni. L’esilio fuori dalla sua città natale fonda l’archetipo della persecuzione politica. Il rispecchiamento è enorme. Chiunque, prima o poi nella vita, consigliere comunale o priore, uscere o magistrato, si indigna per un’offesa politica subita. Dante mette d’accordo tutti, perché tutti – prima o poi – hanno motivo di indignazione politica. Questa plurisecolare sintonia con Dante sembra però, più che una collaborazione dei posteri con il poeta, un uso politico di lui.

Con ciò non si vuole dire che la politica sia estrinseca alla visione di Dio. In quel punto solo, lo abbiamo detto, tutto è ricapitolato e neutralizzato, politica inclusa. Dante, è notorio, fa molta politica nella Commedia, e ne fa anche nel Paradiso, basti pensare all’invettiva di San Pietro, il fondatore, contro la cloaca cui è stata ridotta la sua Chiesa (Par., 27). Quella alla quale alludiamo, e che appare come un sotto prodotto della politica dantesca, è l’erigere il Sommo Poeta a garante del patto sociale italico.  Dante padre della patria ottocentesca, finalmente unita. Ahi serva Italia…  Il TEMA SU DANTE è stato e, forse, ma residualmente, lo è ancora, il rito di iniziazione alla sensibilità adulta o matura (esame di maturità) al quale hanno dovuto sottoporsi intere generazioni di studenti superiori. A partire dalla scuola unitaria, dopo il 1861, intere generazioni studentesche sono state obbligate a estrarre da loro stesse il succo dantesco che iniziava a scorrere nel loro sistema linfatico di soldatini della nazione italica. Alle succedentesi generazioni è stato chiesto costantemente di illustrare la perenne attualità di Dante e al tempo stesso di mostrare quanto i suoi ammonimenti siano tuttavia ancora inattuati: in altri termini è stato loro chiesto di giurare su Dante. Il tema su Dante è stato l’istanza burocratica volta all’ottenimento, con la maturità, della piena appartenenza alla nazione.

Ma se così fosse, se Dante si risolvesse tutto in questioni di famiglia, non si capirebbe il successo planetario di cui ha goduto nei sette secoli e continua a godere.

La vigenza di Dante nei sette secoli è dovuta alla forza politica con cui il poeta evoca e tiene sotto controllo l’iniquità e la nequizia e con cui abbassa la cresta ai potenti, papi e imperatori inclusi. In questo senso la Commedia di Dante è un imperituro serbatoio di speranza umana.

Tuttavia la vigenza politica di Dante, grande conforto degli animi oppressi, se estende la sua operatività presso le future genti, non esce dal circuito del saccheggio e non produce quella cooperazione tra noi e Dante, quella connessione profonda che sola è in grado di ristabilire l’equilibrio in grazia del quale possiamo onestamente dire che la poesia di Dante non è monca.

Proviamo allora ad imboccare un’altra strada convocando quei concetti che, come accennato, girano attorno all’abolizione dello spazio e del tempo come condizione per acquisizioni spirituali o conoscitive.

L’ESPERIENZA-LIMITE o SEGMENTO ZERO

Nessuno può sembrare più lontano da Dante di Nietzsche. Pensare solo di accostarli è folle, d’accordo, sebbene non sia lecito tralasciare che il trasumanar dantesco e il concetto di Übermensch di Nietzsche, oltre a condividere il medesimo carattere di neologismo, presentano una convergenza di significato piuttosto imbarazzante. L’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, sorta di rivelazione di cui è depositario l’Übermensch, è una dottrina mai presa sul serio e screditata dai principali suoi commentatori. Più che di un concetto si tratta di una meditazione sul pensiero che non può pensare se stesso (come un letargo?) o sul vertiginoso pensiero del nulla che azzera il tempo come durata.[xv]  Il déjà-vu è una di quelle esperienze strane che fanno baluginare o intravedere una possibile sovrapposizione del passato col presente (e viceversa) e fanno sorgere un dubbio, nonché un piacevole stupore (come quello di Nettuno-Dante?), se ciò che stiamo vivendo sia presente o passato. Senza complicare tropo il ragionamento, una cosa si può dire: il déjà-vu (in quanto esperienza comune a moltissime persone non dotate di particolari poteri psichici) fa pensare che il tempo con il suo sviluppo cronologico sia un dato dipendente dal funzionamento psichico.  L’eterno ritorno potremmo provare a definirlo come un infinito déjà-vu, dove tutto il passato collassa nel presente ed esiste solo un eterno presente nel quale ciò che accade ed accadrà è già accaduto. Nel presente si apre una dismisura, un segmento zero che nel suo tendere a se stesso ingloba tutto il tempo. Certo, resta la differenza che il punto solo di Dante è nei paraggi dell’Essere supremo, mentre l’eterno ritorno di Nietzsche è nei pressi del nulla. Tuttavia la sola possibilità astratta che il pensiero del poeta medievale e del filosofo nihilista possano sfiorarsi è bastevole a creare una connessione metatemporale con Dante avvalendoci degli strumenti filosofici vigenti.

A tal riguardo può venirci in aiuto anche il concetto di durata interiore di Bergson. In pagine meravigliose per chiarezza ed eleganza espositiva (Bergson sta alla filosofia come Valéry sta alla poesia) ci si rende facilmente conto che la nostra percezione reale del tempo non è quella reale. Vi è una percezione ordinaria del tempo o esteriore (dove, bref, come spesso dice il filosofo, lo spazio si intromette surrettiziamente nel tempo, generando in esso l’estensione) e una realtà del tempo inestesa, simultanea, molteplice: in una parola, interiore. L’arretramento-azzeramento di venticinque secoli evocato da Dante potremmo anche assumerlo come uno di quei fenomeni per cui, con Bergson, il quantitativo si trasforma in qualitativo, e la durata da esteriore diventa interiore, cioè entra in una dimensione dove non è contraddittorio che venticinque secoli e un secondo si equivalgano.

Non estraneo al tema è poi il concetto di attenzione in Simone Weil, così profondo e così difficilmente riassumibile che ci limitiamo a riportare testualmente il seguente passo. «[…] L’attenzione consiste nel sospendere il pensiero lasciandolo disponibile, vuoto e penetrabile da parte dell’oggetto, nel mantenere in se stessi, nei pressi del pensiero ma ad un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti ad utilizzare… soprattutto il pensiero deve essere vuoto, deve aspettare, non deve cercare nulla…».[xvi]

Con Simone Weil scopriamo anche una seconda, sorprendente, coincidenza dantesca, che riguarda l’immagine dell’acqua che evapora al sole. Dante dice che il ricordo della sua visione si perde così come la neve al sol si dissigilla, cioè si scioglie. La medesima cosa dice Simone Weil a proposito dell’insostenibile irraggiamento dell’amore di Dio: «È dio che per amore si ritira da noi affinché noi possiamo amarlo, giacché se noi fossimo esposti alla radiazione diretta del suo amore, senza la protezione dello spazio, del tempo e della materia, noi saremmo evaporati come l’acqua al sole. Non ci sarebbe abbastanza io in noi per abbandonare l’io per amore».[xvii] 

L’esperienza interiore di Bataille e l’esperienza-limite di Blanchot sono intime a questo nostro ragionamento, sebbene si orientino verso il nulla.

La teoria dell’inconscio come insiemi infiniti, esposta da Matte-Blanco, va anch’essa nella stessa direzione. Esiste tutta un’immensa area della coscienza umana non riconducibile alla logica aristotelica e che si sottrae tanto alla legge di non contraddizione quanto alle ordinarie regole dello spazio-tempo. Il sogno fa saltare l’usuale relazione degli oggetti nello spazio o dei ricordi nel tempo. La bi-logica, come Matte-Blanco chiama la logica alternativa dell’inconscio, non è quella che, oltre a Beatrice, assiste Dante in quel punto solo, sebbene ciò farebbe rizzare i capelli al poeta aristotelico?

Per concludere la carrellata, viene in nostro aiuto anche il concetto di tempo morto come inteso da Lévinas. Si tratta, anche qui, di un concetto-limite: il tempo morto (letargo?) è «un tempo tra due tempi», la discontinuità della vita interiore che interrompe il tempo storico, il «segreto che interrompe la continuità del tempo storico», «una terza nozione tra l’essere e il niente». «La rottura della durata storica […] che è segnata dal tempo morto è la stessa che è operata dalla creazione nell’essere».[xviii]Anche per Lévinas i venticinque secoli + i sette possono essere misurati con un metro diverso da quello storico.

(Successivamente alla stesura della presente riflessione, all’autore di queste righe è occorso di imbattersi nella Sura 18 del Corano, denominata anche Sura del Venerdì o Sura dei Sufi. Ne ha parlato a Radio3 Riccardo Bernardini, studioso e storico delle opere di Karl Gustav Jung, all’interno della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, nel ciclo curato da Bruno Madera e intitolato Ricordati di rinascere II puntata – I simboli della rinascita. «La Sura mostra un sonno che prende dei viandanti, i quali si risvegliano da questo sonno dopo secoli completamente trasformati e avendo acquisito una immortalità nella grazia divina.» Senza essere specialisti di Dante, e senza aver letto Henri Pirenne, è noto che la cultura araba abbia avuto una non irrilevante influenza su quella medievale europea a partire dall’anno mille. Si pensi solo ad Avicenna e ad Averroè, entrambi musulmani, che Dante “incontra” nel Limbo. Possiamo escludere che Dante avesse letto o conoscesse il Corano? Non è, quantomeno, suggestiva, questa coincidenza di un sonno che dura secoli e che conduce, attraverso la trasformazione nella grazia divina, all’immortalità?)

Nietzsche, Bergson, Simone Weil, Bataille, Blanchot, Matte-Blanco, Lévinas (come si vede, non c’è nessun poeta nella schiera, perché altrimenti la lista, anche solo a voler restare ai grandi poeti del novecento, sarebbe non breve): orsù, andiamo a dire la verità a Dante!

LA VALIDAZIONE

Torniamo a Nettuno. Si chiede qui attenzione sull’impiego dei tempi verbali. Si stupirà Nettuno quando le tre caravelle hanno solcato i suoi flutti oltre le colonne d’Ercole? Lo dobbiamo stabilire noi per Dante. E si stupirà quando è affondato il Titanic? Idem. E quando i siluri tedeschi affondavano i cargo inglesi? Idem. E quando le ombre delle fortezze volanti passavano sulla Manica e le migliaia di scafi cercavano di solcare i flutti? Si stupirà quando sono stati eseguiti gli esperimenti nucleari sugli atolli del Pacifico? Idem.

Mi rendo conto che ciò possa suonare demenziale, ma se poniamo come valida l’ipotesi che Dante abolisce passato e futuro possiamo sottrarci a questa suggestione? No, perché altrimenti vi sarebbe un’inconseguenza: la visione di Dante sarebbe cioè valida solo nella direzione passato verso presente, dimezzando Dio, l’eterno valore, facendone un dio da operetta, che riceve Dante come fosse un Gran Sultano medievale e poi si disinteressa degli evi futuri.

Mandel’štam non ha riserve: «È impensabile leggere i canti di Dante senza rivolgerli al presente. È per questo che essi sono stati creati. Sono armati per percepire il futuro. Ed esigono un commento in Futurum.» E ancora: «Per Dante il tempo è il contenuto della storia, concepita come un unico atto sincrono.» «Dante è antimodernista. La sua contemporaneità è inesauribile, incalcolabile e inestinguibile.» «[…] il discorso di Ulisse, convesso come una lente ustoria, può essere rivolto sia alla guerra dei greci contro i persiani, sia alla scoperta dell’America da parte di Colombo, sia agli audaci esperimenti di Paracelso (la bomba atomica? ndr), sia all’impero universale di Carlo V.»

Si può dire allora che Dante è stato testimone delle trincee, del gulag e del lager? È stato presente nelle trincee della Prima Ecatombe europea (detta stupidamente Prima Guerra Mondiale). Non poche testimonianze ci dicono di giovani soldati mandati in prima linea, non necessariamente super istruiti, che nello zaino, accanto alla baionetta e la granata, tenevano Dante. Sebbene qui non ci sovvengano documenti particolari, possiamo immaginare anche qui che Dante abbia capito. È stato presente nel gulag: Osip Mandel’štam legge e commenta Dante nei giorni della deportazione alla Kolyma. È stato presente nel lager. Primo Levi ha detto a Dante quello che stava accadendo là dentro e Dante glielo ha spiegato. Le pagine di Se questo è un uomo in cui Primo Levi evoca, a memoria, i versi di Dante, sono la prova che Dante trapassa, fendendoli dall’interno, i tempi e l’orrore.

Spetta a noi lettori di oggi sciogliere il nodo. Capire non solo se sia validato il letargo dantesco, ma se sia validabile il nostro letargo e quello di qualunque altro poeta o visionario. Se esista ancora un nesso originario con l’antico stupore del dio precristiano; se, al contrario, la morte di Dio, e l’inquinamento dei mari abbiano reso inservibile il pensiero di Dante, che noi ripeteremmo per il bel suono delle parole o per qualche vaga suggestione ancora operante. Ma soprattutto se sia ancora valida la percezione del nostro mondo e della nostra epoca storica come infima lacuna dell’universo. La nostra arroganza è inferiore o superiore a quella di Dante? 

Stabilire se la Commedia sia ancora, a distanza di sette secoli, un capolavoro che contiene un nucleo incandescente, lo vero lume, è una conseguenza che spetta a noi lettori di oggi trarre.  

Dobbiamo stabilire se Dante crede a quel che dice. Ed abbiamo un solo modo per capirlo: stabilire se ci crediamo noi. Dante si merita tutto tranne che commiserazione o contestualizzazione.

Dobbiamo aiutare Dante. Dobbiamo estendere il letargo, come una coperta, sulla mole immane degli eventi postumi. Da molti secoli il carro armato della storia ci passa sopra. Dobbiamo ripristinare quel letargo. Dobbiamo aiutare Dante ad uscire da sé stesso verso di noi, togliendogli dalle spalle il futuro che grava su di lui, innettunandolo. Lui ci ha aiutato, togliendolo a noi. Questo forse significa collaborare, cooperare con un poeta, se non vogliamo portarlo in giro. Lo dobbiamo, principalmente, a noi stessi.


[i] È interessante notare che la bomba atomica è raffigurata in un passo della edizione anastatica della prima edizione a stampa della Commedia, illustrata da Marinella Senatore (Editoriale Campi, 2021, presentata il 12-4-2021 in streaming, Giornate dantesche 2121). In quell’occasione l’artista ha mostrato al pubblico l’immagine.

[ii] Ad opera degli stampatori Orfini-Numeister, nella cittadina di Foligno. Uno dei pochi esemplari rimasti è conservato presso la Biblioteca comunale Dante Alighieri di Foligno.

[iii] Ospip Mandel’stam, Conversazione su Dante, il melangolo, terza ed., cap. V.

[iv] Andrea Fassò, Nel non-tempo e nel non-luogo: il letargo di Dante (Paradiso XXXIII), in Forme del tempo e del cronotopo nelle letterature romanze e orientali – X convegno – Società italiana di Filologia Romanza – VIII colloquio internazionale – Medioevo romanzo e orientale – (Roma, 25-29 settembre 2012) – ATTI – a cura di Gaetano lalomia, Antonio Pioletti, Arianna Punzi, Francesca Rizzo Nervo, Rubettino editore, 2014. http://hdl.handle.net/11585/152757

[v] Mandel’štam, op. cit., p. 117.

[vi] Op. cit, cap. IX. Il medesimo concetto è espresso in altra forma, non meno incisiva (ibidem, cap. I): […] dove un’opera si rivela commisurabile alla sua parafrasi, là non ci sono lenzuola gualcite, la poesia, per così dire, là non ha pernottato.]

[vii] Fassò cit., ibidem, 71

[viii] Attilio Momigliano, La Divina Commedia, Commento, Volume III, Paradiso, Firenze, Sansoni, 1960. Il celebre dantisa, sempre attento, per altri anche troppo, al fatto estetico più che ad altri fattori letterari, si esprime come segue a proposito della terzina: «[…] Quattro parole essenziali collocate con un grandioso senso pittorico fanno di Nettuno una delle più fugaci e meno dimenticabili apparizioni solenni della Commedia

[ix] Fassò, cit., ibidem, 85.

[x] Simone Weil parla de «L’infini dans en instant», La pesanteur et la grace, Chapitre 26, L’attention et la volonté. 

[xi] Dante «[…] passa da mirabolanti accessi di presunzione alla consapevolezza della propria più totale nullità.» Così Osip Mandel’stam, op. cit. (cap. II), a parziale correttivo della percezione che di Dante abbiamo noi italiani.

[xii] Secondo Mandel’stam (op. cit., cap. IX) questa visione grottesca è per colpa delle illustrazioni che si sono succedute, quando la Commedia non sarebbe che una partitura musicale che si può solo eseguire ma non rappresentare, giacché l’Inferno non avrebbe volumetria. Tutto un grande equivoco, fin qui. Interessante quello che scrive a proposito della natura pandemica dell’Inferno: «Si sbaglia a pensare l’Inferno come qualcosa che possiede una volumetria […]. L’inferno in sé non racchiude nulla ed è privo di volume, allo stesso modo in cui ne sono prive un’epidemia, una pestilenza – allo stesso modo in cui un qualsiasi contagio semplicemente si diffonde, pur non essendo dotato di spazialità.»)

[xiii] Di diverso avviso, in parte teologiae, sembra Osip Mandel’stam (op. cit., cap. VI): «[…] abbiamo conferito a Dante la dignità conforme al modello di una scienza defunta, mentre la sua teologia era un vaso di dinamica.» La Scolastica come scienza («la fisica aristotelica») sarebbe defunta, mentre la teologia sarebbe dinamica. Interessante, quantunque non possa non rilevarsi che vaso di dinamica ricorda il vaso di Pandora, cosicché la riabilitazione teologica fatta da Mandel’stam si apre ad altri, meno ovvi, sensi.

[xiv] Sebbene non vada taciuta l’arguta considerazione di Mandel’stam, ancora lui, il quale rileva che sul piano della produzione della metafora Dante è copernicano e noi moderni siamo (tornati) tolemaici. «Tolomeo è rientrato dalla porta di servizio… Inutilmente fu messo al rogo Giordano Bruno…» (Op. cit., cap. XI).

[xv] La fine (e il fine) appartiene al pensiero dell’essere, alla sfera dei valori. Essa non si attacca al nihilismo. Il pensiero del nihilismo è, per sua intima struttura, estraneo al fine e alla fine. Se togliamo alla negazione o al nulla il vestito della fine (che è il vestito a lutto dell’essere), ecco che il nulla, nudo, non ha fine. E, come un archetipo che auto esegue se stesso, il nulla non può che ritornare eternamente. Se il nulla è nulla, esso non può neppure finire (né iniziare, chiaro). Perché il nulla non torni eternamente, sarebbe necessario che in esso fosse inscritta la fine o il fine. Ma ciò contraddice lo statuto del nulla. Il nulla è necessitato (ananke) a rimbalzare eternamente in se stesso, come una palla da tennis. Se non rimbalzasse (ritornasse) non sarebbe quello che (non) è. Il nulla ha fatto l’ultimo (o il primo?) dispetto all’essere, gli ha lasciato il frutto avvelenato della fine, del nulla posteriore, frutto che sulle prime il nulla ha fatto finta di mangiare. Ecco perché Blanchot può dire: «Il pensiero dell’eterno ritorno […] è il pensiero nihilista per eccellenza, pensiero in cui il nihilismo si supera assolutamente rendendosi definitivamente insuperabile.»[xv] Ma poi aggiunge: «Finora avevamo creduto il nihilismo legato al nulla. […] Che leggerezza! Il nihilismo è legato all’essere.» E certo, il nulla, per essere tale, deve anche spogliarsi di se stesso, di quella spocchiosa aria terminatrice. Si è troppo infarcito il nulla di attributi negativi, come un piccione ripieno. Il nulla è un non-movimento di auto-abolizione incessante (eterna?) Se così non fosse, tradirebbe se stesso. Più che un gendarme di frontiera, che dice all’essere stop, qui finisce il tuo viaggio, il nulla è simile a un doganiere corrotto che rimuove e fa passare (e ritornare) l’essere, il contrabbandiere con tutte le sue merci di contrabbando. Bisognerebbe poi capire se il nulla, il doganiere corrotto, abbia tradito se stesso e se abbia teso una trappola all’essere-contrabbandiere, facendolo ritornare per rubargli ogni volta la mercanzia illegale. 

[xvi] Citazione in Blanchot, op. cit., p. 148, nota 9.

[xvii] Simone Weil, La Pesanteur et la Grace, Chapitre 9, Décréation. «C’est Dieu qui par amour se retire de nous afin que nous puissions l’aimer, Car si nous étions exposés au rayonnement direct de son amour, sans la protection de l’espace, du temps et de la matière, nous serions évaporés comme l’eau au soleil; il n’y aurait pas assez de je en nous Pour abandonner le je par amour.»

[xviii] Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, 1980, tr. it. Adriano dell’Asta.

Note a piè di lapide

Quanto a riti del congedo, siamo un po’ scarsini, ultimamente, e non è colpa della pandemia. Lo eravamo da prima. I morti, come ci ricorda Arminio, ci inviano cartoline, che non leggiamo più. Stepor Marqu trascrive qui per noi la cartolina che l’io narrante riceve il pomeriggio del non funerale. «Da un punto di vista più generale, non c’era nessun funerale, e, bara a parte, non c’era neanche il morto. Neppure la Morte era presente, sebbene fosse l’unico assente giustificato, perché era morto da anni. Era un non funerale.» Se le cose stanno così, allora dare sepoltura significa disseppellire la memoria. «Il colpo della bara a terra / è una cosa perfettamente seria», scrive Machado nella poesia En el entierro de un amigo. Ma se a (non) morire è l’amico dell’infanzia e della prima, bruciante, incandescenza, colui che è il depositario di un segreto inconfessabile, perso poi di vista nelle nebbie e nei rigori invernali della vita adulta, siamo sicuri che il colpo della bara a terra non sia, anche, perfettamente derisorio? Tra agiografia e sacrilegio, tra ilarità (molta) e tragedia (abbastanza), Note a piè di lapide è un’anabasi epigiocosa attraverso le macerie di una comunità assente e latitante, quella dei Girifalchi, colti nelle loro giovanili e boriose zuffe teoretiche e nella loro febbrile ed alcolica inoperosità in un anno, il 1989, in cui «le parole che erano state incatenate dal secolo breve si trovano libere, e non sanno cosa fare e dove andare». L’ Io narrante cede la voce a un Noi corale. Tuttavia, non «siamo nel cuore dell’ennesimo romanzo di (de)formazione tondelliano, anche se non emiliano. Niente di tutto ciò. Non solo perché non c’era la Via Emilia lì, e non c’erano neppure i sobborghi post-pasoliniani»: siamo altrove, e siamo a bordo della macchina mitologica, giacché Stepor Marqu, in un’operazione letteraria, di cui qui presentiamo il primo volume, esplicitamente e spericolatamente debitrice a Doktor Faustus di Thomas Mann, a cominciare dal nome dell’eroe ilarotragico, erige il contraltare maschile all’amico geniale, figura archetipa, indistruttibile presenza, tanto demonica quanto angelica, che ciascuno di noi si porta dentro dall’origine mitica dell’infanzia e fino ai piedi della lapide. «Mentre vado componendo questo requiem, stanno sul mio tavolo tre libri, dai quali traggo ispirazione per andare avanti […]. Uno è di un tedesco, uno di un polacco e il terzo di un americano. Ce ne sarebbe anche un quarto, di un ungherese, ma è troppo mitteleuropeo per essere adatto allo scopo. Ma nessuno di essi sostituisce il libro che davvero mi servirebbe, la vita di un santo o un libro di un profeta della Bibbia.»

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https://www.ibs.it/note-a-pie-di-lapide-ebook-stepor-marqu/e/9791220331593

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Franco Arminio, Cartoline dai morti

La rilettura della nuova edizione[1] di Cartoline dai morti 2007-2017 di Franco Arminio conferma che siamo in presenza di un libretto unico nel suo genere, come si dice. La nuova edizione aggiornata, aumentata, emendata e spurgata è un’operazione riuscita, salvo per un aspetto marginale di cui dopo si dirà. Anche Edgar Lee Masters, sull’onda del successo della prima edizione della sua celebre antologia, dette alle stampe una seconda edizione, con l’intento di colmare le lacune della prima e dare conto di tutte le lapidi possibili ma fallì, almeno in termini di successo commerciale. Fatta questa avvertenza facciamo finta che si tratti di un libro nuovo, e diciamo perché chi non lo ha letto lo deve leggere. Chi lo avesse già letto, lo rileggerà con profitto.

Siamo in presenza non di poesie ma, appunto di «cartoline», genere epistolare minore e in via di estinzione, che ben si addice alla condizione precaria e instabile che i morti, morendo, hanno provvisoriamente guadagnato. Attenzione, non è che i morti di Arminio siano in attesa della resurrezione, questo no. Ma il nulla dove sono finiti non è il Nulla, con la «enne» maiuscola e la «u» tremenda, ultima vocale dell’alfabeto, sorta di apocalittico «omega» ma dal suono più lugubre e inconfutabile.  No, il nulla dove i morti sono finiti è un niente sottratto alla retorica dell’eterno con tutto ciò che ne consegue; un nulla provvisorio e precario, la morte non concedendo neppure la garanzia, e la soddisfazione, di un contratto a tempo indeterminato. O forse sì, la morte è anche il Nulla, ma come può esserlo una Parte rispetto al tutto, al niente.

Questa condizione labile dell’essere morti ci porta alla porosità, che nelle cartoline si avverte bene, tra il mondo dei momentaneamente morti e quello di noi momentaneamente vivi. È importante questo passaggio, perché in mancanza di esso il lettore momentaneamente vivente si sentirebbe un po’ troppo al riparo rispetto a queste cartoline, che invece sono proprio per lui, per te e per me, e sono i nostri morti che ce le mandano, dal loro provvisorio soggiorno nell’aldilà. Prima o poi torneranno. E forse saranno cavoli amari. Il lettore è avvertito. (Ogni introduzione ad un libretto siffatto, come la qui presente, rischia di disturbare quel sottile e instabile collegamento che immediatamente si instaura tra il lettore ed il morto. Non c’è bisogno di nessun Ermete Psicopompo che conduca il lettore, mano nella mano, nell’aldilà. Il lettore, in queste brevi frasi lapidarie ma non solenni, si trova subito a casa, sa benissimo di cosa stiamo parlando. Ed è per questa ragione che qui abbiamo volutamente omesso di riportare il testo delle cartoline, come invece avviene usualmente nelle recensioni di libri di poesia). Il lettore insomma sa bene che chi, di volta in volta, irrompe dal bianco del niente della pagina per dire la sua verità in due, tre frasi, altri non è che una parte, un angolo remoto, un recesso dell’anima di se stesso.

Gran parte delle cartoline si concentrano sull’ora e il luogo del delitto, e talvolta sulle condizioni meteo che hanno fatto da sfondo alla dipartita. Ciò perché molti morti sono rimasti sorpresi e come pugnalati alle spalle, non ci vogliono ancora credere e non ci crederanno mai alla realtà della morte. Come dice James Joyce nell’Ulisse, parodiando le frasi di circostanza che si è soliti mettere negli annunci funebri: «si è spento, è salito alla casa del padre, ecc. Macché, cacciàti fuori a pedate, tutti quanti!» Molti morti rifiutano la morte, ma non tutti, ci sono anche quelli che l’hanno attesa per anni, agognata, e ci sono anche quelli che la morte se la sono volontariamente data, in un modo o nell’altro. Ci sono quelli morti vecchissimi e quelli morti appena nati o non ancora nati. Nella (irrealtà della) morte c’è posto per tutti.

Ma non sono né la precarietà della morte né la porosità tra i due regni, tra le Due Sicilie, seppure elementi rilevanti, a fare di Cartoline dai morti un libretto unico e imprescindibile.

Pian piano cerchiamo di arrivare a quello che a noi sembra l’elemento decisivo. Le cartoline che i morti ci spediscono ci parlano di e da un luogo, il paese, che è il luogo mitico della nostra infanzia e giovinezza per le generazioni che hanno oggi, anno 2017 dell’era cristiana, non meno di quaranta anni. Per chi è più giovane, le cartoline di questi morti arrivano da un luogo ancora più mitico perché sconosciuto, solo sentito in qualche racconto dei più vecchi, anche se ne dubitiamo, o visto nei film del neorealismo.

Sebbene si  misurino con l’Etterno, come dicevano nell’ottocento, le lapidine di Arminio ci raccontano di un mondo piccolo, di un piccolo mondo e borgo antico, di un orizzonte chiuso e per certi versi ancora decifrabile, di un’antropologia ancora novecentesca, ormai tramontata, come quella che ha fatto la fortuna di Kent Haruf nella immaginaria Contea di Holt, ed evocano persone come l’uomo che girava con la Simca verde, per fare l’unica citazione dal testo delle cartoline, ed è, secondo noi, appunto ciò a fare la fortuna, ma direi anche la forza, di un libretto come questo, analogamente a quanto, cento anni fa, avvenne nell’America della modernizzazione degli anni ’20 del novecento, quando i paesani, i countrymen, i bifolchi si inurbavano e lasciavano per sempre le loro colline e i loro cimiteri sulla collina per costruire e vivere nelle metropoli. Noi, modestamente, ci arriviamo cento anni dopo. Questa scarna rievocazione per frammenti di un mondo che più non esiste, il paese, appunto, o che esiste solo nell’Irpina Orientale, è la vera morte che ci raccontano le cartoline. Arminio non parla della Morte, anche qui con la «emme» maiuscola, metafisica, ma di una morte particolare, geograficamente e storicamente circostanziata, di una morte piccola, che è avvenuta e può in fondo avvenire solo nell’epoca storica dell’umanità, definitivamente archiviata, fatta eccezione per l’Irpina Orientale, forse. Nell’epoca moderna, nell’epoca di internet e di facebook e delle cinture urbane che non fanno più capire cosa sia città e cosa sia campagna, e che hanno raso al suolo i paesi, non si muore più. Non sarà un caso che, a meno di sbagliarci, l’unico riferimento alla nostra attuale epoca liquida (o uno dei pochissimi) che affiora nelle cartoline sono gli omogeneizzati Nipiol, che si trova a dover ingerire un malato terminale, il quale era sempre andato a bistecche (seconda e ultima citazione dai testi). In verità gli omogeneizzati Nipiol esistevano già quaranta anni fa. Si muore davanti al frigorifero, non davanti a facebook.

Come ci rammenta Jankelevitch, la morte non si può guardare in faccia, sfugge sempre al nostro tentativo di cattura cognitiva, si può solo darle una fuggevole occhiata diagonalmente, trasversalmente. Non a caso le poesie che parlano direttamente della morte, fatte salve pochissime eccezioni, nascono già morte. Arminio questo lo sa, o almeno lo sapeva fino all’uscita dell’attesa ristampa delle Cartoline. E qui veniamo alla nota dolente di questo pregevolissimo opuscoletto: stridono qui i due testi poetici in corsivo inseriti in questa nuova edizione, quello che, ahinoi, tenta di dare una definizione della morte, e quello che ci ammonisce sull’intensità della vita come antidoto alla morte per chi non crede alla vita dopo la morte. Insomma, una minestra già scodellata. Ma è una cosa che si riesce a perdonare, un peccato veniale, dato che resta fermo il carattere impersonale di queste cartoline, dove l’autore, lo scrittore, il poeta scompaiono dietro l’epitaffio, per dar voce ai fantasmi.

D’altra parte siamo ancora vivi o viventi, Arminio lo è e gli auguriamo ancora lunga vita e tante nuove cartoline, ma siamo fallibili. Per guadagnarci la perfezione bisogna essere morti e diventare come Molière, che fece scrivere sulla sua tomba: «Qui giace il re degli attori. Attualmente fa la parte del morto, e la fa veramente bene».


[1] Cartoline dai morti 2007-2017, Franco Arminio, Nottetempo 2017, € 12,00. La presente recensione è stata scritta nel novembre 2017.

Chadži-Murat, l’estraneo

Libri ci cui si parla in questo audio:

Lev Tolstoj, Chadži-Murat, Voland, trad. it. Paolo Nori.

James Frazer, Il Ramo d’oro. Saggio sulla magia e la religione, Bollati Boringhieri.

Fabrizio Coscia, La bellezza che resta, Melville Edizioni, 2017.

Sigmund Freud, Albert Einstein, Perché la guerra? (Warum Krieg?), Bollati Boringhieri.

Arthur Köstler, Dialogo con la morte, Il Mulino.

Tracce musicali:

Manish Vyas, Dina Awwad, La Illaha Illa Allah, Sufi Splendor

Ivan Vandor, In memoriam di Tadeusz Moll

Immagine di copertina

Franco e Stefano Ruiu, Maschere e Carnevale in Sardegna, Imago 2020, Carnevale di Fonni, particolare.

Chadži-Murat è stato letto e discusso nel Circolo di Lettura di Sovversioni non sospette mercoledì 11 novembre 2020 in videoconferenza.

2 novembre

Dagli antri librari ieri mi è venuto sulle mani un libretto che non ricordavo di aver mai visto prima. Si tratta di una plaquette di poesie, Poesie al ciclostile. Il nome, anzi il cognome di uno dei due autori mi ha acceso una lampadina. Ho mandato una mail, con la foto della copertina, a R. Il quale, prontamente, mi ha risposto che «no, non ricordo nulla di questa edizione, comunque bella, che ha il fascino delle cantine o delle soffitte. Insieme al concitar della CIA, anche Rainer Maria.» L’autore, invece, lo conosce, è il fratello maggiore di un suo amico di vecchia data, attore e regista teatrale, «prof di xxx, collaboratore di una rivista (forse ancora stampata al ciclostile, e comunque collegata a il manifesto, ndr), poeta. Persona compita e riservata, mite amico del poetare xxx, anche migrée (Sandro Penna). Ebbe strazio nell’età matura: perse un figlio […]».

La porta della plaquette reca una dedica autografa: «A Rosi, grato per tante cose / grato per l’amicizia / ed ora grato per ogni / minuto di lettura.» Segue la firma, il luogo e la data, yyy, Gennaio 68.

Rosi fu mia zia, sorella minore di mia madre. Morta in un orribile incidente stradale la notte della Befana del 1976 (otto gennai dopo quella dedica).

Ho sfogliato la plaquette. Una poesia si intitola 2 Novembre: «Io non ho / morti da piangere / non so dove deporre / il mazzo dei crisantemi / e mentre, estraneo / passo tra file di cipressi / e bianchi marmi / sparsi di ceri, / vedo i campi bui / della Siberia, / d’Hiroshima o di Auschwitz: / campi di cenere / su cui recita salmi / il vento che geme / nel filo spinato. […]»

Non è una bellissima poesia, ma, se poniamo mente all’epoca in cui fu scritta e pubblicata in ciclostile, che fu l’epoca del «concitar della CIA» e della malattia verbale del marxismo, va ad essa riconosciuta una sua – seppur gracile – limpidezza e semplicità di canto. Nessuna poesia, neppure la più bella del mondo, neppure Rilke, se la strappiamo dal suo contesto originario e dalla malattia dell’epoca, mantiene il proprio vigore; ovvero, ribaltando i termini, solo le grandi poesie riescono a sopravvivere integre quando sono strappate dal loro contesto originario, dalla malattia che intesero contrastare.

Non è una bellissima poesia, 2 Novembre, ma è commuovente, se si pensa che in quell’epoca di slogan e cortei andare al cimitero era una forma di deviazionismo culturale. Certo il poeta pensa non ai lutti privati, ma alle ecatombi collettive.

Ho letto 2 Novembre dopo aver appreso dello strazio che il poeta ebbe nella sua età matura ed il disporre di una informazione – chiamiamola così – che il poeta, nella sua giovane età (ancora) non possiede mentre si aggira tra le tombe senza (ancora) sapere dove deporre il mazzo dei crisantemi mi ha insignorito di una sorta di supercoscienza retroattiva, del potere infame del fato; ma questa onniscienza è durata poco, il tempo di afferrare qualcosa di diverso, che ha a che fare, forse, con l’essenza stessa della Poesia. Ogni poesia è vera e falsa allo stesso tempo. «Aber Lebendige machen / alle den Fehler, daß sie zu stark unterscheiden […]».[1] Anche – soprattutto – i poeti errano. Ed errano perché, nella loro generosità, nel loro spogliarsi dell’egoismo privato, scoprono un fianco, il loro capotto è un cappotto troppo corto che non ripara dalle intemperie: pensano di abbracciare il mondo nella sua interezza e non scorgono alle spalle l’artiglio che gli strazierà il cuore.

Ma – ed ecco forse il punto essenziale – consentono i poeti a me, al lettore che legge 2 Novembre, oggi 15 giugno[2], di comprendere lo statuto fragile, precario e transeunte del poetare; e, ancor più, di dotarmi di quella supercoscienza prima felice e poi infelice che rivolgo, non più alle spalle del giovane poeta (ancora) ignaro che si aggira tra le tombe, ma alle mie spalle, tremando, perché ho un figlio di otto anni e scrivo anche io qualcosa che vorrebbe essere poesia. E la cecità di quel giovane poeta tra le tombe è anche la mia cecità, e sono fratello di quel giovane poeta. La poesia, ecco il punto, è affratellamento a distanza nel tempo e nello spazio delle epoche e delle malattie.

Nonostante i miei studi giuridici, o forse proprio per scappare da essi, all’epoca in cui ero universitario seguivo le iniziative di un circolo poetico di cui Rainer Maria Cremonte era, credo, uno degli animatori. Ricordo quando Franco Fortini venne ospite alla sala dei Notari, il 15 maggio 1992. Lo intervistava Rainer Maria. Mi piaceva molto quel suo modo pacato, gentile e profondamente mite, di parlare di poesia e intervistare il papa dei comunisti. Un uomo alto, massiccio anche, che, se avesse fatto il portuale a Danzica, avrebbe estrinsecato una forza enorme, e che aveva convertito in dolcezza tutta quella enorme massa muscolare. Dicono che anche Majakovskij fosse un gigante, e la penna scomparisse tra le sue grandi mani. Quel 15 maggio 1992 non sapevo che il mite intervistatore avesse conosciuto, e fosse stato amico di mia zia Rosi. C’era una supercoscienza attiva su di me, che stavolta ero però io ad ignorare. È assai probabile che Rainer Maria sia stato presente al funerale di mia zia, in quel tetro funeriggio di gennaio, e che abbia portato non un mazzo di crisantemi ma una bandiera rossa con la falce e il martello. C’era, fuori dai cancelli, una foresta di bandiere rosse, che mia nonna, la madre monarchica della figlia marxista, aveva proibito entrassero dentro il cimitero.

C’è una poesia semplice e bella, in questa raccolta che ha il fascino delle cantine o delle soffitte. Ed è bella perché qui, davvero, la malattia verbale del marxismo è interamente guarita. È dedicata a un bambino uscito dall’infanzia, al fratello minore del poeta, a Danilo, l’amico di R., da cui tutto questo ragionamento ha preso le mosse.

AL MIO DANILO

Nelle fiabe / che ti narravo / Danilo / viene sempre / la fata / l’eroe che tutto risolve // Non scordare / gioca col lazo / nelle praterie del cuore / continua a fare l’eroe / almeno per me.


[1] Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien, Elegie Duinesi, Einaudi, 1978, Prima Elegia, tr. It. Enrico e Igea De Portu. «[…] Ma i vivi errano, tutti, / ché troppo netto distinguono […]».

[2] Questo testo è stato redatto in detta data.

Lo scrittore e le intemperie

Chi segue questo blog sa quanta importanza si riservi al cognome delle figure pubbliche, in ispecial modo di quelle che hanno avuto od hanno un qualche ruolo nella cultura.

Nicola Lagioia, scrittore, curatore editoriale, conduttore radiofonico, direttore del Salone del Libro di Torino, membro della giuria della 77ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, porta un cognome che è equivalente a quello che aveva l’autore dell’Ulysses. Un mandato non da poco.

Breve preambolo che si può anche non leggere

Si erra quando si pensa che le persone più avide siano quelle amanti dei piaceri, cioè i crapuloni. Vi sono persone che non amano affatto i bagordi, e che cionondineno si dedicano all’accumulo di potere, di cui sono altrettanto se non più cupide dei sollazzatori. 

«Quel Cassio ha un’aria magra e affamata. Pensa troppo. Uomini così sono pericolosi», fa dire a Giulio Cesare William Shakespeare, rovesciando il luogo comune, di probabili origini cristiano-ascetiche, per cui sono le persone grasse quelle più avide e più pericolose.

L’avidità di potere, l’accumulo di più incarichi in una sola persona è cosa che viene normalmente associata alla figura del politico, agli smisurati appetiti, a una smania che trascende la logica del desiderio e del suo appagamento. Quando, raramente, si presenta un politico austero e morigerato, che non sembra scialare nel e del potere accumulato, sembra aprirsi una contradizione: non avrebbe fatto meglio a farsi monaco questuante e vivere di elemosine? Il politico è, per definizione, cupido di cariche: quello cui piace godersi la vita impiega le risorse che scaturiscono dal cumulo dei molti incarichi per soddisfare i suoi molti appetiti; quello per cui la vita non è godimento, accumula le cariche e ammassa il potere per poter continuare a detestare e disprezzare la vita in tutta sicurezza.

Una summa divisio come quella proposta è applicabile, per analogia, a qualunque categoria professionale ed umana: c’è il chirurgo buontempone, entusiasta tanto delle viscere che fruga e reseca quanto della trippa che ingurgita in ottime trattorie (non senza un occhio alla giovane infermiera che invita a pranzo), e c’è il chirurgo depresso e disgustato dei mondani piaceri, astemio e con frequenti mal di testa, che suole coricarsi presto subito dopo la minestrina. La medesima summa divisio si può applicare a insegnanti, a assistenti sociali, e in genere a chi si occupa della crescita e dell’equilibrio degli altri; si applica anche a chi si occupa del benessere e del piacere degli altri, come i cuochi e le prostitute, sebbene sia in effetti difficile trovare cuochi che non siano avidi di assaporare la vita, mentre, per converso, è difficile – ma non impossibile – trovare prostitute che lo siano.

In generale si può affermare che in ogni categoria professionale prevalga di gran lunga il carattere allupato su quello rinunciatario.

Quando ci avviciniamo al campo dell’arte le cose sembrano iniziare a capovolgersi. Certamente neppure nel campo artistico vi è carenza di allupati, soprattutto di sesso. Basti pensare a Picasso. Ma, vuoi per un eccesso di pratica che induce la saturazione, vuoi per la postura tragico-mesto-esistenziale che si consegna al pubblico onde sia manifesta la sofferenza che presiede ai parti (e tale postura finisce per infiltrarsi nell’anima dell’artista, il quale finisce per crederci), molti artisti – sia dello spettacolo, sia delle arti figurative, sia della musica, sia della scrittura (la più negletta tra le arti) – finiscono per posizionarsi sul piatto della bilancia dei disgustati dell’esistenza. Eppure essi continuano a lavorare ed anche a sgomitare perché il loro posto non sia preso da un altro. Anche loro accumulano – inviti a festivals, inviti ai centri di arte contemporanea con acronimi sempre più misteriosi e fichi, citazioni in cataloghi, recensioni, interviste, inviti a talk show – ma, sia chiaro, il loro accumulare non è in vista di un greve appagamento dei sensi – come quando, dopo una colossale bevuta di birra, si svuota la vescica: no, il loro accumulare è in vista di una gigantesca visione pessimista, per salvaguardare la possibilità della quale si accumulano le risorse che si accumulano e si fa incetta di occasioni.

Fine preambolo che si poteva saltare

Quando arriviamo a scrittori il cui obiettivo nella vita non è certo quello della villa in Sardegna e dello yatch e del machinone, quando arriviamo a scrittori impegnati nel sociale o la cui stessa arte è orientata al mistero del male, alla ferocia e alla sofferenza umana, e vediamo questi stessi scrittori assommare incarichi, premi e riconoscimenti, non dobbiamo stupirci.

Perché Nicola Lagioia, il quale, come detto, oltre ad essere scrittore che ha vinto (2015) il più prestigioso premio letterario del nostro paese; oltre ad essere curatore editoriale (con un fiuto non comune, va detto: è stato tra i primi, in Italia, ad accorgersi del valore di Roberto Bolano, prima ancora che la fama di questi divenisse planetaria[1]); oltre ad essere conduttore radiofonico di una bellissima rubrica quotidiana su Radio 3, Pagine 3; oltre ad essere (dal 2017) direttore del Salone del Libro di Torino[2], che ha saputo condurre con ardimentoso spirito anche in epoche pandemiche; perché, oltre a tutto ciò, viene nominato membro della giuria della settantasettesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia? Pensavamo che Lagioia fosse ormai un ex scrittore, che la sua carriera fosse oramai tutta orientata al lavoro culturale, e invece ci sbagliavamo:  quando tutti pensavamo che, con tutto il gran daffare nella promozione culturale, egli avesse abbandonato il suo mestiere di scrittore, forse perché sfiduciato dalla scarsa presa sul reale del medesimo, eccolo che ritorna sulla scena originaria e, a mezzo di un’intervista su uno degli inserti settimanali più diffusi[3], annuncia l’imminente uscita del suo nuovo libro (La città dei vivi, Einaudi, in uscita il 20 ottobre 2020), un lavoro a metà tra lo scienziato e lo sciamano, su un efferato caso di cronaca nera degli ultimi anni, che costò la vita ad un giovane ragazzo, ucciso, apparentemente senza valido motivo, da due coetanei. L’intervistatrice chiarisce subito di cosa stiamo parlando, facendo il nome di Truman Capote. (Sky Cinema sta già realizzando una serie tv. L’intervistatrice, al termine dell’intervista, porge l’unica domanda che potrebbe apparire cautamente allarmistica: non è che stravolgeranno il senso dostoevskiano dell’opera, e calcheranno troppo la mano su coca & violenza? Nicola Lagioia rassicura tutti: niente paura, Sky ha accettato che sia io lo sceneggiatore. Quindi, Nicola Lagioia anche sceneggiatore.)[4]

Il Venerdì di Repubblica, 16 ottobre 2020, foto Chiara Pasqualini

Un tale cumulo di cariche non può non suscitare interesse se non addirittura ammirazione (so cosa pensi, lettore: invidiosetto?) Se in un tal uomo, così sovraccarico di impegni culturali e direzionali, vi è ancora la forza, il tempo, l’ingegno, la capacità del romanzo, deve esserci qualcosa di davvero straordinario. E così, più che un avido accumulatore di incarichi, Nicola Lagioia ci appare più come un martire della contemporaneità, come una vittima sacrificale che ci aiuta a distoglierci dall’idea che così tanti riconoscimenti ed emolumenti possano essere fonte del-lagioia, e allora tanto vale che ciascuno si rassegni al suo ruolo invisibile di scrittore fantasma, ed anzi ne goda, perché il volto iconico, smarrito, macilento, cosa viene a dirci se non che era meglio quando si viveva e si scriveva nell’oscurità, sebbene non si arrivasse a pagare in tempo le bollette della luce?

Ora, sarà senz’altro vero che siamo in presenza di una delle migliori menti della sua generazione[5], sarà senz’altro vero che egli abbia un grandissimo sangue freddo per trasvolare dai gran galà del Lido o del Lingotto allo squallore del luogo del delitto, che – stando alla sua stessa rivelazione – ha avuto modo di visitare di persona con tanto di autorizzazione dell’autorità inquirente; sarà tutto vero, ma una cosa è altrettanto certa: il cumularsi di tante cariche in un sol uomo fa venire alla mente l’immagine di quei Titani che sorreggono il mondo che li sta schiacciando con il suo immane peso. Si capisce, dunque, quell’aria patita, contrita, niente affatto gioiosa, niente affatto allupata, niente affatto vorace. Tutto quel peso immane serve a confermarlo nella sua idea che nella vita non ci sia poi molto di cui scialare, e lo stare al centro di tutti quei livelli di potere culturale, editoriale, cinematografico non è altro che l’accumulazione cui tende il politico triste: una barricata che si erige, una trincea che si scava, per meglio difendere – ma stando al riparo – il sentimento tragico della vita.

L’autore della presente nota ha letto l’intervista-lancio di Nicola Lagioia per puro caso. Aveva acquistato il Venerdì di Repubblica (cosa che non faceva da oltre venti anni) ad altro fine, per amore di Roberto Bolaño. Ascoltando, come quasi ogni mattina, la rubrica radiofonica di cui abbiamo detto, e di cui il nostro è conduttore periodico, aveva orecchiato di un articolo dello scrittore catalano Javier Cercas, nel quale egli riandava alla sua amicizia/inimicizia con lo scrittore di origini cilene, trapiantatosi in Catalogna e morto nel 2013. Per chi non lo conoscesse, Bolaño è uno dei santi e dei martiri della letteratura contemporanea, non meno grande di sant’Agostino come scrittore. In lui, la vita coincide con l’opera. In una sua intervista, Bolaño dichiara:

«[…] Credo che gli scrittori debbano rifiutare qualunque vincolo con lo Stato, questo tipo di relazioni non da nessun frutto. Io mi sono formato in una famiglia della classe medio bassa, è da quando avevo 16 anni che scrivo, e non ho mai chiesto aiuti allo Stato. Ho vissuto alle intemperie, all’inizio è scomodo, ma alla fine sei più libero, la qual cosa è molto piacevole».[6]

Abbiamo detto che Lagioia è uno dei maggiori supporter italiani di Bolaño, che ha con lungimiranza definito il più grande scrittore per il ventunesimo secolo. Non siamo così ingenui o bacchettoni o semplicemente stupidi da ritenere che se uno ama Bukowski debba sfasciarsi di birra, se uno ama Emily Dickinson debba segregarsi in casa per tutta la vita o se apprezza Ezra Pound debba fare il saluto romano o se ama Oscar Wilde… Beh, insomma. La letteratura è una magia che consente a individui con vite – e conti correnti – diversissimi di convergere su una medesima immagine estetica. È probabilmente, la letteratura, l’antidoto più potente che ci sia contro l’odio e l’invidia sociale. È forse per questo che in questi tempi di scarsa autorevolezza della letteratura vi sia un così possente odio social in giro.

Non è una questione di stili di vita, di case protette e ben riscaldate o di intemperie. Gli scrittori vivono come possono e vogliono vivere. Se Proust non avesse frequentato i salotti e la nobiltà di Parigi non avremmo avuto la Recherche, dopotutto. Se Moresco non fosse stato prima in collegio poi militante rivoluzionario e non avesse vissuto per anni al freddo di una mansarda non avremmo avuto, senza la Chiesa, senza il Partito e senza sorella Povertà I canti del caos. (Lagioia, va detto, non risulta avere un posto fisso, né all’università né in qualunque altra struttura pubblica o privata, e dal nostro punto di vista ciò è un merito).

È solo una questione di gioia, di joyce. Vivere alle intemperie all’inizio è scomodo, ma alla fine sei più libero, la qual cosa è molto piacevole. E nella scrittura si sente, altro che se si sente.


[1] Si rimanda alla notevole lectio su Bolaño, Perché Roberto Bolaño è il più grande scrittore per il ventunesimo secolo. Anche l’autore di questo post ha contribuito con un suo intervento audiovisivo (2013) a invitare alla lettura di Bolaño (Firmamento provvisorio – Roberto Bolaño in quanto poeta morto), con un numero di visualizzazioni assai molto, molto più modesto della lectio di Lagioia. La convergenza su Bolaño sta qui a significare che sia Lagioia che l’autore di questo post hanno gioito nel leggere un medesimo autore, nella fattispecie Bolaño, e che talvolta ciò significa essere, anche se per un piccolo tratto, fratelli.

[2] Non si vuole qui biasimare nessuno, anzi va ricordato che anche il precedente direttore del Salone, Ernesto Ferrero, è stato, oltre che traduttore e autorevole curatore editoriale, anche scrittore in proprio. Ha vinto anche lui lo Strega, in costanza di carica (2000), questo va pure detto, e inoltre ha anche lui il suo talismano, il farfallino, così sabaudo e anacronistico, commuovente segno di distinzione rispetto all’anello di pietra nera, che Nicola Lagioia porta all’anulare destro, in inequivocabile attitudine borbonico-sciamanico-contemporanea. Sui talismani si gioca la guerra dell’auto-rappresentazione.

[3] Il Venerdì di Repubblica 16 ottobre 2020, Feroci a loro insaputa, di Simonetta Fiori. La testata per la quale Lagioia stesso collabora o ha collaborato.

[4] La foto che lo ritrae in una sorta di spoglio vestibolo con la parete di fondo affrescata e scrostata, seduto, in posizione dignitosa ma assente, su un divano di pelle in stile, in una luce lievemente catacombale e underground è perfetta. È il laboratorio di una icona pop, come fu D. F. Wallace. Come ogni icona, ha un tratto distintivo: Wallace aveva la bandana, Lagioia un anello di pietra nera (per esulare dalla letteratura, e verificare l’assunto su altro terreno, Che Guevara ha il sigaro, Sandro Pertini la pipa.) L’elemento magico sciamanico, il talismano, come detto alla prec. Nota 1. Lagioia può stare bene tanto in un salotto dell’upper class quanto in un tinello delle case popolari, ma altrettanto, e soprattutto, bene in una discoteca underground. Lo scrittore un po’ scienziato un po’sciamano trae dal rigore della letteratura la scienza della narrazione, mentre dalla musica rock lo sciamanesimo. Con gli occhialoni di osso nero, Lagioia somiglia a un leader di un gruppo rock anni ’80, che si è separato dal gruppo. Un rock newyorkese però, raffinato, non trucido come quello dei pub inglesi. Lagioia ha un’estetica rock diametralmente opposta a un Nick Hornby, tanto per intenderci.

[5] In questo modo si era espresso lo stesso Nicola Lagioia, in qualità di direttore del Salone di Torino 2019, riferendosi non ovviamente a se stesso, ci mancherebbe, ma agli autori invitati – da Lui – al Salone, che, a dir suo, rappresentavano il meglio del meglio delle menti letterarie e intellettuali del pianeta. Il Salone, dunque, come aeropago delle menti più eccelse del momento.

[6] Intervista di Duina Miravet, in rivista Cuadernos Hispanoamericanos, Madrid, ottobre 2000, in Bolaño. La prossima battaglia, Medusa, 2013).

Il sogno di Kafka

Come è noto, l’aspirazione massima di ogni scrittore è farsi pagare perché sia pubblicato il libro che ha scritto. Vi è però, e ciò è meno noto, una segreta aspirazione, non dico di ogni scrittore, ma di qualcuno di essi: farsi pagare perché non sia pubblicato il libro che ha scritto.

Escludendo da questa fenomenologia i libri scritti per bieco spirito di vendetta o per vile ricatto, e passando per il grado intermedio ove a pagare acciocché il libro non veda la luce sia una intera categoria di persone – ad esempio un gruppo di amici (ma qui siamo ancora nella fenomenologia della vendetta o del regolamento di conti), una comunità religiosa, un gruppo etnico, una nazione (e qui torna alla mente quanto scrive Philip Roth: «La storia della letteratura era in parte la storia dei romanzieri che facevano incazzare connazionali, parenti ed amici»[1]), arriviamo al punto apicale di questa ipotesi: ad un libro per la cui non pubblicazione sarebbe disposta a pagare l’intera umanità.

Questo sì che sarebbe il colpo letterario del secolo! Ma cosa dovrebbe contenere questo ipotetico libro esecrando al massimo grado? Dovrebbe contenere una verità scomoda, una storia, una riflessione che non vorrebbe conoscere né sentire non un singolo individuo, non una singola comunità, non una singola nazione, ma la totalità degli esseri umani? No, perché sarebbe sufficiente ignorare il detto libro, lasciarlo ammuffire nel cassetto dell’autore senza che sul suo conto corrente arrivi neanche un centesimo.

Quando qualcuno paga per non far pubblicare un libro (altrui, si intende), lo fa affinché non si risappia in giro quanto in quel libro è detto. Facile capirlo nell’ipotesi base e in quella intermedia. Ma nell’ipotesi che abbiamo definito apicale tutta l’umanità si coalizzerebbe in un unitario interesse a non far circolare notizie che la riguardano, a non far sapere in giro cose che la metterebbero, è da credere, in cattiva luce.

Ma chi non dovrebbe essere raggiunto dal contenuto del libro, se è tutta quanta l’umanità che si mobilita acciocché il libro non veda la luce? Forse Dio? O il diavolo? O possibili forme di vita extraterrestre? Non occorre arrivare a simili astruserie. Sarebbe sufficiente pensare al concetto di pericolo? No, perché in questo caso l’umanità ricorrerebbe in maniera diretta alla censura, impedirebbe la pubblicazione per decreto e condannerebbe l’autore del libro al
carcere o a morte, a seconda degli usi e costumi vigenti. Altro che riempirlo d’oro!

Torniamo un poco indietro. Quando è che si paga per non far pubblicare un libro? Possiamo con certezza dire una cosa: tale evenienza poggia su una conditio sine qua non, ed è che detto libro possa interessare un terzo potenziale lettore, che è proprio colui che si vuole tenere all’oscuro del contenuto del libro. In altri termini, e rovesciando la questione, c’è in circolazione qualcuno che pagherebbe per leggere quel libro che altri paga perché non sia pubblicato.

Nel caso apicale che abbiamo ipotizzato, ci sarebbe, di volta in volta, ogni singolo essere umano che non vuol far sapere a tutto
il resto dell’umanità qualcosa che è contenuto nel libro.
La differenza sta qui però nel fatto che il singolo individuo cambia continuamente, e di volta in volta diviene ogni singolo individuo che compone l’intera umanità. Ogni singolo individuo andrebbe di nascosto o alla chetichella dallo scrittore (o dal suo agente) e verserebbe il denaro richiesto affinché il libro non sia pubblicato, e lo farebbe come un tossicomane che va di nascosto dal pusher o un puttaniere che si intrufola con l’aria del finto tonto in un sordido vicolo della suburra. Ogni singolo individuo penserebbe di essere l’unico a compiere questo segreto gesto di autotutela per sventare la diffamazione. Di essere l’unico tossicomane o l’unico puttaniere, o entrambe le cose insieme. Non vede la fila che c’è fuori dall’ufficio dove è stabilito che egli versi l’obolo. Ogni singolo individuo pensa che quella che vede sia la fila di tutti quelli (tutta l’umanità eccetto lui) che vorrebbero acquistare il libro per la cui non pubblicazione egli affretta il passo, come un tossicomane o come un puttaniere.

[1] La mia vita di uomo, Mondadori, I Meridiani, I, 832.

I fischi di Berio

Chi ha introdotto il fischietto dell’arbitro nella musica contemporanea? Chi ha fischiato per primo l’espulsione dal campo di gioco della musica classica, lorda di sangue, se è vero, com’è vero, che i nazisti adoravano Schumann e Rachmaninov, ed i più maligni sostengono che non disdegnassero neppure la Nona Sinfonia, il cui delirio e tripudio leggevano come consono alle loro alte finalità storiche? I più informati parlano di Hitler come di un animo sensibile alla musica da camera, non necessariamente a gas. 

Il teatro contemporaneo è un gran fischiare, da Brecht a Ronconi, questo lo si sa. Gli ultimi giorni dell’umanità, per fare solo un esempio, è tutto un gran fischiare di capi stazione e di capi treno, in adesione allo spirito, se non alla lettera, di Kraus. Sì, è pur vero che siamo in una stazione, da dove partono i convogli austriaci per il fronte della prima ecatombe europea, ma i fischi, insieme agli sbuffi del vapore e al frastuono metallico delle locomotive che si mettono in azione non ci fanno capire praticamente una parola. In effetti, e pour cause, il teatro contemporaneo ha fischiato il cartellino rosso alla parola insanguinata, quella del teatro borghese, dei salotti e dei drammi, che aveva preparato la mentalità cinica che porterà alla grande carneficina europea. 

(La letteratura, e qui spezziamo una lancia a favore della povera letteratura, conosce il rumore ab origine. L’onomatopea è consustanziale al sorgere della lingua umana. Ricordo, ma solo per doveroso omaggio al padre dante-forza-letteraria, il rumore prodotto dagli utensili e dai macchinari (azionati non dal motore, ma dalla forza motrice delle braccia umane) e dalle fucine nei fondachi dell’Arsenale di Venezia [Inferno, XXI] Il martello, che esiste dall’Età del ferro, non fa forse rumore?) 

Torniamo però alla domanda di partenza. Essa scaturisce dall’ascolto di Berio, che introduce nelle sue opere il rumore in generale, ed il fischio in particolare.

I fischietti entrano in scena al minuto 15:47, Stazione V

Ma siamo sicuri che il rumore lo introduca Berio per la prima volta? E non sto pensando alle avanguardie storiche, che non contano perché erano puramente sperimentali. Io parlo dell’arte che si fonda su un gusto, se non ancora stabilizzato, in grado di cogliere l’innovazione. 

Proviamo a fare un passo indietro. Possiamo pensare alle sinfonie di Beethoven senza il rumore del motore a vapore, quello delle nascenti ferrovie? (Il primo treno a vapore viene azionato in Inghilterra nel 1804, in una miniera di carbone). E, ancora un passetto indietro: possiamo pensare  alle sinfonie di Mozart, soavi ma non prive di inquietudine, assolutamente scevre dei cannoneggiamenti sui campi di battaglia settecenteschi? 

In tutte le sinfonie, e includendo pure alcune di Haydn (quelle londinesi, guarda caso), serpeggia un rumore metropolitano. Il frastuono delle strade di Londra, che a metà settecento non era poca cosa. 

Nelle sinfonie ottocentesche, precorritrici dell’acustica novecentesca, il pizzicato reiterato degli archi ricorda l’accensione del motore dell’automobile, quando stenta a partire. Alcune sequenze degli archi fanno subito pensare al rumore dell’elica dell’aeroplano. 

In Berio le voci sembrano provenire da un manicomio o da una prigione. Tutto un vasto programma. 

È noto che nella sinfonia Stalingrado Shostakovich abbia voluto riprodurre il suono, allarmante, delle sirene della contraerea, mentre gli Stukas, demoniache fortezze volanti, sganciavano dalle nubi il loro carico di morte e distruzione. Poi le sirene, quelle delle autoambulanze però, sono diventate un refrain nella musica di Nono e di Henze, per esempio. Non si pensa mai abbastanza al nome mitologico, o omerico, con il quale designiamo l’urlo di dolore che squarcia abitualmente il sordo rumore di fondo dello stato di guerra urbano. 

Ma neppure dalle urla sono immuni le sinfonie. Di urla da stadio è piena l’Ode alla gioia del quarto movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, ed è forse questo ad aver reso gradito ai nazisti quello che diventerà poi l’inno della Disunione europea.  Boutade a parte, si può concepire un tale fracasso senza che la mente non rivada ai moti di piazza, ai grandi cortei della rivoluzione francese, al boato della folla che prende d’assalto la Bastiglia? Pensiamo che prima del maggio francese, prima degli autonomen, prima degli stadi e degli slogan, prima dei concerti rock, le sommosse fossero senza audio, tutti zittini e buonini? 

Quanto a Wagner, beh, che dentro la sua musica vi sia già l’heavy metal è un dato poco controvertibile. Io andrei ancora più avanti, mi azzarderei a dire che esiste una funzione Wagner: cioè a dire che la musica di Wagner lascerebbe la sua impronta genetica anche su cose posteriori all’epoca del proprio concepimento. Oggi non possiamo più concepire un elicottero da guerra che mitraglia gli insorgenti nella giungla senza che nelle orecchie non ci risuoni la cavalcata delle Valchirie. Ma arrivo a dire che è stato Wagner stesso, prima che vi pensasse sua vece Ford Coppola, a concepire per primo il bombardamento aereo, o forse a vederlo e ad udirlo in sogno, e probabilmente a inventare, almeno spiritualmente, l’elicottero d’assalto Apache. Wagner è un costruttore di micidiali armamenti e arsenali. Il missile a propulsione nucleare è inconcepibile senza alcuni passaggi del Götterdämmerung, il Crepuscolo degli dei

La musica classica è classica non nonostante porti ma proprio perché porta nei salotti il rumore delle officine e il clangore dei campi di battaglia, sia terrestri che celesti. 

27 agosto

«Non fate troppi pettegolezzi», è l’ultima frase scritta da Cesare Pavese prima di togliersi la vita, o di riprendersela, a voler seguire l’espressione inglese «to take his own life». Sembra che anche un altro poeta, anch’egli suicida, abbia scritto la stessa cosa prima di spararsi al cuore. Era Vladimir Majakovskij. I pettegolezzi, nell’uno come nell’altro caso, si riferiscono ad «affaires de coeur». I pettegolezzi si riferiscono sempre ai cazzi altrui. In poeti così tanto implicati nella sorte pubblica della loro nazione, serpeggia una gigantesca questione privata. Non sfuggirà quel tocco lieve, anti-tragico, di quella parola così frivola usata però in limine Proserpinae. Più che a uno stoico romano, quell’estremo aggettivo di Pavese, tocco da grande scrittore postumo, fa pensare a un dandy. Fatene, ma non «troppi».

E già qui zampillano le domande. Può un intellettuale cui la rinata Italia antifascista affida un enorme ruolo culturale, può uno scrittore che è stato punito e spedito al confino in fondo alla Calabria dal Tribunale speciale, può l’influente collaboratore della più prestigiosa casa editrice italiana tutta orientata verso la via democratica al socialismo uscire di scena come un dandy?

La risposta venne da un amico dello scrittore, da uno che lo aveva frequentato: Davide Lajolo coniò il sintagma «vizio assurdo», traendolo dagli scritti dello stesso Pavese, e il sintagma ebbe una fortuna enorme, e mise una pietra definitiva sulla inquieta tomba dello scrittore impegnato e suicida. Era così ben organizzato, quel sintagma, che funzionò da incantesimo e sortì il sicuro effetto di far dimenticare a stuoli di giovani lettori appassionati un dato comune a molti scrittori, almeno del novecento: il suicidio è l’ombra lunga che si proietta su non poche delle loro pagine. Quanti scrittori, primo e secondo-novecenteschi, si sono ripresi la propria vita… L’elenco è impressionante, non solo per numero ma per celebrità degli inclusi in esso. Da Walter Benjamin a Primo Levi, passando per Klaus Mann, il quale ultimo si è ripreso his own life con un anno di anticipo su Pavese. La tendenza era in atto. Solo che per i tre menzionati c’era un’attenuante: Per Benjamin, il terrore, forse troppo paranoico, di finire nelle grinfie della polizia di frontiera, che lo avrebbe poi venduto alla Gestapo via Vichy; Per Klaus Mann l’omosessualità (come se, per inciso, nell’omosessualità vi sia inscritta una innata tendenza suicidaria…); per Primo Levi lo sappiamo tutti. Ma per Pavese, quale attenuante ci sarebbe? Nessuna. Era un fregnone, e la rinata Italia antifascista non poteva annoverare un fregnone tra le sue figure intellettuali di spicco.

Quando a Giulio Einaudi gli portarono sulla scrivania le pagine del diario «segreto» o «postumo» di Pavese, nel quale, nello sfacelo del 1943, serpeggiavano giudizi non ostili al Duce e alla Repubblica Sociale Italiana (erano davvero meglio di lui gli italiani che prima lo avevano venerato e poi lo avevano ripudiato?), e, cosa ancor più insopportabile, valutazioni non così draconiane, come ex post ci si sarebbe atteso da un intellettuale antifascista, sulla condotta militare dei tedeschi in Italia (minimizzando le atrocità delle SS?), Giulio Einaudi sbiancò. La sua faccia, pur così dolce e con quei bellissimi occhi azzurri, diventò più bianca del celebre «bianco Einaudi».

Del «diario postumo» e del suo sconcertante contenuto (ma che diario postumo sarebbe se non fosse sconcertante?) se ne è riparlato ora in occasione della ricorrenza, il settantesimo anniversario della sua morte autoinflitta.

In qualche giudizio più ponderato si fa sì strada il riconoscimento della «complessità tragica» dello scrittore, che ne accrescerebbe, anziché diminuirlo, il valore e l’attualità. Ma tale riconoscimento suona più come un atto di soccorrevole conciliazione dell’inconciliabile, che di convinta apertura alle ragioni tormentate, ma non imbarazzanti, di Pavese. Funziona forse ancora il medesimo meccanismo protettivo (ma protettivo di chi?) che aveva lavorato nel conio di Davide Lajolo. «Complessità tragica» o, meglio, «tragica complessità». 

Uno dei titoli più prestigiosi della celebre «collana viola», ideata e diretta da Cesare Pavese per la casa editrice Einaudi.

Cesare Pavese fu certo autore per incandescenti, parlava all’inquietudine dei verdi anni giovanili. Ogni letteratura nazionale ne ha uno. Noi italiani abbiamo avuto Pavese, ed è stata una benedizione per la patria, con il senno di poi. E non solo perché, essendo il suo suicidio così poco eroico, non ebbe praticamente imitatori.  Certo, in Pavese la pendolarità tra due richiami, e questa cosa è l’incandescenza, è molto forte, lo è tra campagna e città, tra origini ancestrali e vita moderna di tram e fabbriche, tra mito e lutto del mito (ma qui il dubbio era meno lacerante), lo è tra amori campestri e semplici da un lato e amori complicati con attricette volubili dall’altro, lo è tra restare un poeta zappatore o diventare un autore per il cinema, con tanta fica urbana al seguito. Questo è Pavese. È questa l’oscillazione. E allora perché sarebbe insensato e incomprensibile che tale oscillazione, il moto inquieto e insonne, non arrivasse a propagarsi anche alla sfera politica? Ah no, è vero, lì o si sta di qua o si sta di là. Almeno nello stesso momento. Perché Pavese ne vide tanti che prima stavano di qua e poi andarono di là. Furono chiamati padri della patria, molti di loro sedettero all’assemblea costituente. Erano stati fascistissimi e poi erano diventati arcicomunistissimi. Volete i nomi? Ingrao, Dario Fo. E una miriade di altri intellettuali che poi radicaleggiarono assai. Al cospetto il malmostoso Giuseppe Berto, o il volubile Curzio Malaparte sono campioni di coerenza. 

Pavese, come ogni poeta che sente la (tragedia della) patria, è arpionato, come Achab, dal fantasma della guerra civile. Questo mostro, su tutti, il più terrificante. La ragione non sta mai da una parte soltanto.

Noto, en passant, che è quello che dirà poi, venti anni dopo rispetto all’epilogo torinese, come in un secondo tempo dumasiano, Pier Paolo Pasolini. Io penso che Pavese odiasse la guerra e soprattutto la forma più incivile di guerra che è la guerra civile («[…] Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.» La casa in collina, XXIII) e la stupida polarizzazione che essa diffonde come una pandemia, perché l’unica guerra che lo interessasse davvero e lo impegnasse davvero era quella interiore. Ed è questo, ne sono persuaso, che ha fatto di Pavese l’autore più amato dai giovani italiani del secondo novecento. Pavese ha inseguito, più di Capitini, una visione pacifista della condizione umana novecentesca. 

L’uomo tormentato che non prende le armi è additato come un vile, ma al contrario carica su di sé un fardello enorme, è come Tiresia – né uomo né donna – che carica sulla propria coscienza le ragioni e i torti degli uni e degli altri, è la coscienza che cammina tra i morti, «quelli che più stanno in basso», è la magna mater che non sceglie nessuno dei suoi figli rivali, essendo progenitrice di tutti.

Dico, en passant, che un altro grande pacifista italiano, in tempi meno remoti, si appese ad un albero. 

Pavese conosceva la letteratura nordamericana meglio di chiunque altro. Meglio di Vittorini. E uno che ha tradotto Moby Dick come fosse una moderna Odissea, o che ha trafficato con il Joyce di Stephen Dedalus, per tacere di Whitman, di Lee Masters, ecc., non può certo essere un fascista. Ma non può essere neppure comunista. Troppa libertà di pensiero soffia da quelle pagine. 

Arthur Köstler abbandonò il comunismo nel ’39 dopo aver toccato con mano propria nella Spagna della guerra civile lo spietato e disumano cinismo dei comunisti, e ne divenne un fiero avversario. Certo, lo fece da spalti britannici, democratici. Se Köstler si fosse sventuratamente trovato nel 1943 in Italia lo avrebbero tacciato di filo fascismo. Pavese anche toccò con mano l’opportunismo e il cinismo della resistenza italiana, fu tradito dalla ragazza di cui si era invaghito e pagò con il confino di Brancaleone Calabro una militanza del cuore, non dell’antifascismo duro e puro. Pavese subodorò che non tutti coloro che si opponevano al fascismo avessero tutte le carte in regola. A differenza di Köstler, però, Pavese non passò risolutamente allo schieramento degli alleati, perché se l’Italia era stata largamente fascista un cambio così repentino era sospetto e pericoloso, e nel fascismo vi erano state anche delle ragioni, che non potevano essere scaricate da mane a sera nella latrina della storia. Questa altitudine intellettuale, che è al servizio dell’unità spirituale della patria, è ancora più apprezzabile in uno scrittore traduttore che più di ogni altro aveva lavorato per la diffusione in Italia della grande letteratura inglese e soprattutto nordamericana, e proprio quando essa era invisa al regime dell’autarchia culturale e della lotta contro le plutocrazie. Sarebbe stato fin troppo facile per lui saltare sul carro degli Alleati. È evidente che il suo trascorso fascista non trascorreva così soavemente come per molti altri intellettuali di pronta conversione. Pavese in fondo non fu mai veramente fascista e mai veramente comunista. Quanto al suo antifascismo, esso era inscritto nei suoi geni e scritto nei suoi libri, non aveva bisogno di essere proclamato.

Un Sepulveda doppio! Un Coelho ghiacciato!

Ancora passeggiate nei sobborghi letterari

Luigi Ontani, Dante/Pinocchio, 1974

Giunti, come siamo giunti, a questo grado di sofisticazione nella lettura, non ci accontentiamo più degli scrittori e dei libri main stream, ricerchiamo le chicche letterarie, siamo diventati, in letteratura, come è a letto la donna, un po’ più in alto con la distopia, un po’ più dentro con il monologo interiore, un po’ più in basso con le contaminazioni dei generi, un po’ più a sinistra con il romanzo di denuncia, oh sì, oh sì, ancora così, così, no, ora a destra, un po’ di meta-romanzo, oh sì, oh sì, oh sì!!!

Come donne esigenti in fatto di vestiti o di gioielli, noi disdegniamo la letteratura facile, di genere, buonista, sentimentale. Sepulveda (R.i.p.), Coelho (riposi e basta) ci smontano le nostre corde estetiche ed estatiche. Siamo diventati esigenti, quasi sempre insoddisfatti, non c’è un libro in cui non troviamo un limite, una caduta di stile, un cedimento strutturale.

Non lo diciamo a nessuno, perché non lo possiamo dire, negli ambienti che non frequentiamo ma che prendiamo a riferimento ci lincerebbero, ci ostracizzerebbero, ci toglierebbero quella remota possibilità che abbiamo di pubblicare su LE PAROLE E LE COSE². Non lo diciamo quindi a nessuno, ma come ci piacerebbe entrare in un bar di periferia e ordinare al bancone:

«Mi dia un Sepulveda doppio!»

«Mi dia un Coelho ghiacciato!»,

e tracannarlo senza tante titubanze, e stare in armonia con la scorsa grezza del mondo.

Giuseppe Chiari: Music Is Easy, 1982

Fino a un cero punto della faccenda, agli scrittori, ma soprattutto ai poeti si è chiesto, come un po’ ai santi, agli eremiti, agli asceti, ai saggi, di erogare un aiuto all’animo in difficoltà. Nel 90% dei casi per pene d’amore. Nel restante 10% per male di vivere, accidia (=depressione), angoscia, tormenti, incubi.

Mi limiterò a questo secondo, e residuale, 10%.

Al poeta si chiede di darci le parole giuste per ammansire la belva che si è installata dentro di noi. Oppure, che ci dia le parole capaci di incantare il custode della prigione invisibile in cui siamo incarcerati, per evadere.

Al saggio si chiede invece la via. Il saggio è come un’esperta guida alpina, che conosce i pericoli del percorso, e sa esattamente dove ci sono rischi di frana, dove sono crollati i ponti e i passaggi.

Ma tanto il poeta che il saggio non sono tali se non offrono garanzia circa il loro potere: e la garanzia è data dal fatto di aver loro, per primi, patito il male che pretendono curare. La garanzia è data dal fatto che essi, poeti e saggi, hanno lottato con la belva, sono stati prigionieri nel carcere scuro dell’anima, si sono trovati ad attraversare percorsi montani irti di rischi, con crolli, frane, baratri, o percorsi desertici senza acqua, con i serpenti e il sole cocente.

Non conta l’arte, non conta la sapienza. O, meglio, l’entità, la qualità e la quantità di arte e sapienza sono una variabile subordinata all’entità, qualità e quantità della sofferenza patita e oltrepassata. Questo è stato vero, almeno nella poesia, fino a Rimbaud o forse, ancor prima, fino a Baudelaire. Con Baudelaire questa funzione della poesia, e della sua validazione ex experto, viene meno.

Che cosa la sostituisce? Il successo commerciale e la fama. Ottenuti, fama e successo, non perché si abbia attraversato i deserti, ma perché si è bravi a descriverli.

Conosco l’obiezione: e allora l’apollineo Goethe?


Quando si è molto giovani si ha fretta di saltare ai versi più malinconici e ultimativi di una poesia, come il sottoscritto con Montale, quando, leggendolo, non vedeva l’ora di arrivare a quel verso: «… ma è tardi, sempre più tardi.»

Quando si è molto giovani si prediligono i momenti crepuscolari e irreversibili. Si gioca con la fine, con la morte, come i gattini con il gomitolo di lana.

Quando non si è più molto giovani, e poi quando non si è più giovani affatto, si ha un riposizionamento del gusto, un suo arretramento a stadi intermedi. Si scopre e si assapora la bellezza di versi interlocutori, temporeggiatori, si scopre la sottile raffinatezza di certe soste, di certi viottoli che riescono agli erbosi fossi, quelle stesse soste e quelle pozzanghere che, quando eravamo molto giovani, saltavamo a pie’ pari senza neppure leggerle. Quando siamo vecchi prendiamo piacere a leggere versi minimi, dettati da un’attenzione minima, come quello che parla dello stucco che si usava una volta per sigillare il vetro sugli infissi, dell’odore che aveva quello stucco; quando siamo vecchi non indugiamo con così tanto gusto sulla fine, sugli annunci e le premonizioni di morte, e questo perché l’ombra si sta allungando e noi restiamo, come i vecchi di un ospizio, o di un hospice, a guardare gli ultimi raggi del sole morente, nel padiglione degli incurabili, come Fadin, allontanando con la mente il più che sia possibile il momento in cui l’infermiera verrà a prenderci, e spingerà la carrozzella dentro il refettorio, dove ci attende la cena.


Vi sono scrittori che inseriscono cenni a persone realmente incontrate o conosciute, e lo fanno come un sacerdote che ricordi, nelle sue orazioni, certi defunti speciali. «Mi ricordi nelle sue preghiere», implora il curato il moribondo; «ricordami nei tuoi racconti», sembra chiedere il personaggio secondario o la semplice comparsa allo scrittore.


Si potrebbe guardare all’arte, nei regimi dove essa è sottoposta a censura, come ad un compromesso che viene stipulato nell’animo del cittadino: l’arte allude (metafora) senza divenire denuncia esplicita, lascia spazio nell’animo del cittadino ad entrambe le istanze, quella spontanea del popolo e quella ufficiale del potere, senza impegnarlo ad una scelta di campo immediata. Il sovrano storce il naso ma non può reprimere troppo perché si scoprirebbe, cadrebbe la sua maschera benevola; il cittadino può godere del contenuto radicale dell’arte senza mettere in pericolo la sua esistenza. Laddove si proibisce l’arte allusiva, come nel nazismo, il potere getta la maschera, mostra i denti e sopprime il cittadino come tale; laddove si chiede all’arte di divenire denuncia esplicita, si ha il movimento politico, la fine del cittadino e l’avvento del militante dell’arte. Questa riflessione è scaturita dai versi della canzone di Vladimir Vysockij, Cavalli bradi, nella versione cantata da Milva, quando dice: «[…] Non si arriva mai in ritardo / se è Dio che riceve / Ma perché gli angeli in coro / hanno le voci così cattive?» Il potere supremo (ma quale?) è benevolo, sono i funzionari, i burocrati, i delatori, gli agenti dei servizi segreti, i cori degli angeli, ecc. ad essere cattivi. In Russia tutti capivano, Vysockij era venerato come un santo, è da immaginare che abbia subito anche qualche persecuzione da parte di angeli cattivi, ma ha continuato a cantare e ad essere ascoltato da milioni di russi.


La scelta del tema

Contrariamente a quanto si pensa, la scelta del tema letterario non ricade nella sfera di discrezionalità o di arbitrarietà dell’autore.

Si è soliti pensare che l’autore scelga il tema (una storia di adulterio e di gelosia, i migranti, il day after, o una storia in cui, nel day after, un gruppo di migranti si trovi alle prese con una storia di adulterio e gelosia), ma che poi ciò che conta è come lo svolga.

I critici sono tanto esigenti nel giudicare la forma, per quanto sono corrivi nel non intromettersi nella scelta del tema.

Si riconosce all’autore questo ghiribizzo, e lo si lascia, come un inspiegabile capriccio di un bambino, in una dimensione di totale insindacabilità. Alla base di questa omissione vi è una precisa concezione della letteratura, secondo la quale uno scrittore è grande in quanto scrive bene e può applicare questa sua arte sopraffina su qualunque oggetto, come uno scultore bravo sa lavorare tanto il marmo che il legno o il ferro.

Sia detto chiaramente: non è che qui si intenda riesumare la concezione del realismo sovietico, che condannava, e non raramente internava nei gulag, gli scrittori che scegliessero temi e contenuti non conformi alla finalità politica cui l’arte e la letteratura dovevano inchinarsi.

Qui si cerca di mostrare quanto la scelta del tema sia, chiamiamolo così, un passaggio decisivo nella creazione artistica: nella letteratura rapinosa lo scrittore non sceglie il tema, ma è da questi scelto. Solo quando si verifica questa inversione si avverte chiaramente, e inoppugnabilmente, quella urgenza, quella meravigliosa necessità che è il marchio di garanzia che la macchina che abbiamo acquistato è una vera macchina che ci rapirà e ci porterà lontano.


L’autore celebrato e pluripremiato aveva un cruccio. Aveva ricevuto e continuava a ricevere apprezzamenti, elogi e recensioni per tutti i suoi libri eccetto uno. Non che avesse ricevuto una stroncatura, ma, a parte qualche tiepida recensione di servizio, quel libro era come caduto in prescrizione, non ne parlava nessuno. Era il lavoro a cui teneva di più, quello sul quale si era macerato di più, era come il figlio spastico e tetraplegico in mezzo agli altri figli atletici, splendidi come statue greche.  Era il figlio che amava di più. Ogni volta che riceveva, per tutti gli altri libri, un elogio, un apprezzamento o una citazione, una trafittura gli passava sul torace, ringraziava con più gentilezza per nascondere la fitta.


Vi sono scrittori che sottopongono i loro inediti con mani tremebonde ai critici letterari; vi sono scrittori spavaldi che se ne fottono tout-court dei critici, pensando unicamente al pubblico, loro unico e inappellabile tribunale, persuasi di averlo ai piedi; vi sono infine scrittori che aspettano critici e lettori al varco, senza battere ciglio, con una sovrana aria di imperturbabilità, e una precisa idea in mente, sepolta però sotto la fronte serena: «mo’ vi inculo io!»


CAPIRE UNA POESIA

Capire una poesia è portarsi con la mente e con il cuore a prima che essa fosse composta, scriverla noi insieme al non ancora poeta acclamato, accompagnarlo e anche sostenerlo nei momenti in cui vacilla e rischia di inciampare, cioè di rovinare quel fragile, precario e meraviglioso equilibrio, trepidare con lui, stargli vicino, aiutarlo ad arrivare indenne, indenni, all’ultimo verso.

Capire una poesia è capirla dal suo interno, indovinarne l’occasione in una circostanza dove a nessun altro sarebbe venuto in mente (e al cuore) di scrivere una poesia e quella poesia; pensare all’incipit quando era ancora una cosa fragile, immaginare le varianti scartate, pregare, anche, che il poeta non ancora laureato creda in quella sua prima intuizione e che non la richiuda nel cassetto o strappi il foglio gettandolo nel camino acceso.


Foto di copertina: Luigi Ontani, Dante/Pinocchio, 1974

I problemi sessuali nei ’70

Cindy Sherman, Senza titolo, Fotogramma da film # 39, 1979.

Negli anni ’70 dello scorso secolo divenne irrefutabile che la massima infamia fosse avere problemi sessuali. Essere un drogato, essere un delinquente, essere financo un assassino non subiva il medesimo stigma sociale, la medesima ignominia che avere, appunto, problemi sessuali.

Che cosa fosse avere problemi sessuali era al tempo stesso una cosa lampante ed oscura.

In quella categoria dell’infamia non rientravano né i froci né gli stupratori. Né l’inversione sessuale (così ancora si chiamava), né la delinquenza sessuale ricadevano in quella massimamente esecrata fattispecie.

Indicatori piuttosto precisi di quella fattispecie erano la timidezza, l’imbarazzo, la vergogna e, soprattutto, l’arrossire. Colui che non impiegava disinvoltamente parole come «cazzo», «incùlati», «fica», ecc., era guardato con un certo sospetto. Ma solo chi aveva la bestemmia facile poteva dirsi legittimo membro del club dei disinibiti.

Essere inibiti era peggio che essere handicappati.

L’inibito era recepito come un agente provocatore della reazione, una talpa del secolare, del plurisecolare dominio della repressione (la Chiesa, La Famiglia, la Scuola, le Istituzioni), talpa infiltratasi nelle schiere avanguardistiche della nuova spavalderia sessuale.

Il sesso, il problema dei problemi, non era più un problema.

I timidi e gli inibiti occultavano il problema, e si dividevano in due sottogruppi: quelli che uscirono dal gruppo, e quelli che vi restarono, adottando studiatamente un linguaggio ancora più turpe dei veri disinibiti, e millantando, e forse talvolta facendo, cose ancora più spinte dei veri emancipati.

Il quadro si complicò assai, e non ci si capì più niente. Chi era veramente chi?

Poi avvenne un fatto curioso. Tra le file avanguardistiche degli scopatori e delle scopatrici a-problematici, alcuni cominciarono a defezionare, qualcuno fidanzandosi a casa con una ragazza perbene, di cui era nota l’intenzione di arrivare vergine all’altare (sebbene occorresse poi chiedersi a quale verginità alludesse la ragazza perbene, e iniziò a circolare il termine francese démi-vierge…); qualcun’altra cessando di colpo di darla a destra e a manca e frequentando qualche associazione del volontariato cattolico.  Vi furono casi, certo estremi, nei quali qualche scopatrice pentita fosse riconosciuta in corteo nella processione del santo patrono. I registri linguistici espunsero, almeno quale canone dominante, il turpiloquio e la blasfemia. Vi furono, certo, distinguo e sottodistinguo. Ma fu evidente che il fronte degli emancipati sine problema fosse stato disarticolato.

Nel frattempo, l’ala secessionista dei timidi e degli inibiti era andata avanti per la propria strada: di essi, molti si erano laureati, avevano messo su famiglia, e avevano cominciato a darci dentro, alcuni e alcune con il furore iniziatico degli adepti. Vi fu il caso di un (ex) timido che divenne uno scopatore rinomato: scopava come un demonio.

I vecchi, irriducibili disinibiti, accoglievano di buon grado la notizia che quel tipo, che era stato per farsi prete, fosse entrato, seppur tardivamente, nei loro stanchi ranghi e li avesse rigalvanizzati, portandosi alla testa del movimento. Volarono pacche sulle spalle, e postumi riconoscimenti.

Tra sbicchierate e cene di vecchi compagni ormai oltre la cinquantina, non fu più chiaro chi avesse o avesse avuto problemi sessuali e chi no.

Non fu più nemmeno chiaro che cosa fossero i problemi sessuali, sebbene ora qualcuno, di ambo gli schieramenti, accennasse sogghignante a problemi erettili o alla menopausa.

E si revocò anche in dubbio che esistessero o fossero mai esistiti i problemi sessuali.

Questo divenne il nuovo problema sessuale.

On reading, on talking, on writing

Davvero scrivere è un’anomalia, una malattia e una (forse) terapia.

Conosco una persona che nell’atto in cui legge esprime, seduta stante, la sua impressione; è agile nella conversazione, prontissima di battuta. Ė l’erede della tradizione orale, oracolare.

Io ho bisogno di prendere appunti, devo ricostruire a posteriori, e con fatica, la mia impressione primaria di lettura, nella conversazione sono un impedito, scrivo dialoghi per confezionare ordigni di risposte che non ho saputo far esplodere a tempo debito.

A questo punto della riflessione, è indubbio che la pagina scritta sia una specie di panchina, le righe della pagina la corsia dove mi alleno e riscaldo per entrare in campo.

La persona che conosco è già in campo, è in campo dal primo minuto. Un pomeriggio in cui entrambi eravamo intenti alla lettura, ho provato a convincerla sull’utilità di non esplicitare in maniera immediata le impressioni. Come fosse più ripagante trattenersi tutto dentro, rispettare i tempi di gestazione, ed aspettare poi a tempo debito un’opinione più ponderata, più dirozzata.

La persona che conosco ha interrotto la sua esternazione in presa diretta, mi ha dato, non del tutto persuasa, ragione, ma ha detto che non è abituata a scrivere.

– Registra i tuoi ragionamenti in messaggi vocali, le ho detto.

Stasera eravamo a cena con amici. La persona che conosco ha intrattenuto oralmente, brillantemente, gli invitati.

Io ho scritto questa nota.

Temo che alla base vi sia uno scontro dell’eternità, o delle eternità.

La persona che conosco brucia nell’istante presente l’eternità. Non si fida dell’eternità.

Io non mi fido dell’istante presente, e mi affido all’eternità.

Che vi sia, adombrato sotto questo conflitto, uno scontro di civiltà tra paganesimo (hic et nunc) e cristianesimo (l’aldilà)? Tra femminile e maschile? Tra matriarcato e patriarcato?

Non lo so. Il mio disagio nella conversazione è eterno; come è eterno il senso di frustrazione che prova la persona che conosco per non saper prendere appunti.

Effimera è la sua dedizione all’istante presente; come effimera è la mia propensione alla storia futura. Alla panchina. Alla malattia. Alla terapia.

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Che cos’è la letteratura.

Se dovessi dirlo con un’immagine, la letteratura è un ponte crollato.

Una ragazzina che scopre la bellezza del manga giapponese e vorrebbe farne partecipe il nonno che legge Il corriere della sera. Questo è un ponte crollato, in questi paraggi si aggira la letteratura.

Un universitario che scrive di nascosto poesie sulla morte e vorrebbe farne partecipe il padre, agente di commercio.

Una casalinga che legge Proust e vorrebbe farne partecipe la suocera, mentre le fa i bigodini.

La letteratura è la bellezza della lettura che si è scoperta da soli e che è talmente dirompente che vorrebbe con urgenza trasmettersi alle persone più lontane, più vicine e più lontane, ma ciò è un azzardo troppo rischioso, troppo probabile il fallimento, la letteratura è solitudine di ritorno, è un ponte che è crollato ancora prima di essere collaudato.

La letteratura è un giovane liceale, figlio di contadini, che legge Rimbaud e ne parla alla madre quando rientra al tramonto dall’aia, dove ha governato le bestie, e la madre gli dice: – Non ti far sentire da tuo padre!

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Frugare nell’anima degli altri.

La prima volta che venne a casa mia e vide la mia libreria, notai che cessò quasi di interessarsi a me e dedicò tutta la sua concentrazione, tutta la sua estatica contemplazione ai libri, alle file dei libri sugli scaffali. Ne prendeva in mano qualcuno, dava una rapida occhiata alla quarta di copertina, lo riponeva al posto, scorreva con il dito indice la costa dei libri, come farebbe un inesperto sui tasti del pianoforte.

– Li hai letti tutti?

Una persona che ama vuole impiantarsi nell’anima dell’amato o dell’amata. Fino a qualche decennio fa, e per secoli, c’è stato un modo, una via regia, per farlo: leggere i libri che ha letto la persona amata.

Oggi non so, e non so se si abbia ancora questa affezione verso l’amato o l’amata.

Fu questa considerazione, e questo ricordo, a spingermi nell’impresa folle che conduco da anni. Leggere o rileggere tutti i libri della libreria di X, per trovare il passo, la pagina, la frase che lo ha fatto impazzire, che lo ha allontanato da me. Mi sono convinto che in una certa pagina (ma quale? e di quale libro?) ci sia il maleficio.

Ė, la mia, questa mia, un’impresa disperata, lo so. Ho pensato che sia simile al caso di una prostituta che, per redimersi dalla sua condizione, abbia un’unica possibilità: riandare con la memoria a tutti i suoi clienti, e a tutte le occasioni di meretricio, per trovare quella dove è avvenuto l’incontro che può salvarla.

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Come la morte, anche la letteratura è in definitiva una faccenda solitaria. Davanti alla bellezza della letteratura si è in definitiva soli, come si è soli davanti alla solennità della morte.

Ė per questo che la celebrità e il successo letterario girano a vuoto, come un non-senso o una contradizione in termini; analogamente al successo o alla celebrità nella morte, dove, per aggiunta, possiamo cogliere anche il ridicolo e la farsa, cosa che potrebbe non essere còlta quando uno scrittore vince un premio.

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Il Fisco dell’anima.

Vessati dal Fisco in quelle epoche di penuria, chiamate anche recessione, i commercianti si erano alla fine rivolti a chi sapeva tenere a mente i calcoli. Ogni bigliettino, infatti, ogni appunto, il benché minimo lacerto scritto, se scovato dagli intendenti, significava per il commerciante la rovina.

Chi era che sapeva tenere a mente i calcoli, i crediti e i debiti? I ragionieri.

Ma i ragionieri erano sospetti. E così venne in mente a un commerciante di assoldare un poeta, un cantore epico, di quelli che sanno a memoria l’Iliade o L’Orlando furioso. Altri commercianti vessati seguirono l’esempio. I poeti divennero i depositari dei conti in nero. Il fisco cominciò ad avere sospetti, ma non c’erano prove. Gli intendenti seguivano nelle ultime file i reading dei poeti epici, attenti a carpire qualunque minimo riferimento a numeri che si nascondessero tra i versi e le rime. Era nato un nuovo Dipartimento della Fiscalità Generale: il Fisco dell’anima.

Elogio del male

Il male non è meno consustanziale del bene alla condizione umana[1]. Considerare il male un accidente che prima o poi sarà spazzato via, come si spazzano i rifiuti, è un atto non solo, come è noto, dannoso per il così detto progresso umano, giacché l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato come l’inferno umano sia lastricato dalle migliori intenzioni orientate al bene; non solo per questa considerazione generale, ma per una ragione specifica, che riguarda la persona degradata a vittima, è necessario che al male sia riconosciuto, come in guerra, lo statuto di belligerante legittimo.

Le vittime della guerra, le vittime dello sfruttamento, le vittime dei sistemi dispotici, le vittime dei tumori, le vittime della strada, le vittime della violenza sessuale non sono onorate come persone, ma sono ipostatizzate come incidenti di percorso sulla linea di progresso che condurrà l’umanità a debellare il male, ponendo fine alle guerre, alle ingiustizie sociali, alle malattie, alle violenze private.

Qui sì, come in guerra, le vittime del male sono «caduti» in nome di un valore astratto, che non è più la salvezza della patria ma la sconfitta del male planetario. Apparentemente sembra che la formula «affinché il loro sacrificio non sia vano», o «affinché ciò non accada più», indefettibilmente pronunciata dagli officianti, religiosi o laici, alle esequie, sia una modalità, anzi, la modalità di onorare la vittima al massimo grado.

I famigliari della vittima sembrano credervi e quasi sempre danno il consenso all’espianto degli organi. Ma a meglio guardare ci si avvede che ai congiunti stretti, alle persone distrutte da quel male, non frega niente che la loro amata persona sia messa sull’altare delle Vittime Sacrificali del Progresso Umano. Alle persone devastate nell’anima non è di alcun conforto sapere che il loro caro, il nome del loro caro, sia glorificato in quella maniera finalizzatrice.

Si badi bene, qui. Esistono, certo, molte forme di sollievo del dolore, e una di queste è l’elargizione che i rappresentanti delle Istituzioni sacre, la Stato e la Chiesa, fanno nei riguardi dei famigliari superstiti: il risarcimento pecuniario da parte dello Stato; l’intitolazione di una via o di una piazza; il ricevimento dei famigliari in udienza privata dal Papa. Le istituzioni sacre sanno come sedare e manipolare il dolore. Ciò è vistoso, nel suo grado parossistico, nel terrorismo suicidario di matrice islamica. Omettiamo di ricordarci che il Califfato elargisce ai familiari dell’eroe suicida una bella sommetta.

Ma il «consolo» ufficiale, statuale o pastorale, non funziona tanto, né tanto a lungo.

E non solo perché presto i riflettori sulla tragedia si spengono; e non solo, si faccia cortesemente attenzione qui, perché la storia passata dimostra, e quella futura presto confermerà, che il sacrificio della vittima non è servito e non servirà a niente. Le guerre riprendono fiato, se mai lo hanno perduto; le ingiustizie sociali, le mafie, le malattie, le violenze tornano a fare la voce grossa.

Allora, tutti quei sacrifici essendo vani, quelle vittime perdono potere ontologico. La loro funzione si mostra imperfetta, inefficace, diventano vittime di serie B. Hanno la stessa valenza che hanno i rimedi omeopatici davanti alla meningite.

Le Istituzioni sacre però non si arrendono, proclamano che la lotta al male non finisce, la guerra continua, e altre vittime sono attese sulla via che conduce al trionfo del bene.

Siamo tutti in un tritacarne funzionale e finzionale. Ci dimentichiamo che la tragedia esiste, che esiste il male. Facciamo finta che il male sia uno stronzo che prima o poi scaricheremo nel water della storia.

Non rispettando il male, non rispettiamo le vittime. Rispettare il male significa considerarlo una potenza, come Empedocle considera neikos, l’odio, la discordia, un elemento fondante dell’universo, non meno possente di philìa.

Le vittime colpite dal male non sono fungibili. Sono individui toccati da una potenza incoercibile. Vanno ammirate, non funzionalizzate.

E allora, niente più tragedia ai giorni d’oggi, così magnificamente lanciati sull’autostrada del bene? Nessuna sepoltura davvero solenne? Se le Istituzioni sacre prendono per il culo, chi si sostituisce loro?

*

Il posto vacante è, talvolta, occupato da figure eroiche e dal coro tragico.

Una di queste è Rosaria Costa, la giovane moglie di Vito Schifani, l’agente di scorta di Giovanni Falcone, saltato per aria grazie al tritolo della mafia insieme al magistrato, alla di lui moglie Francesca Morvillo e agli altri uomini della scorta, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, il 23 maggio 1992 sull’autostrada A29.

Le parole che pronuncia Rosaria al funerale di Stato potrebbe averle scritte Sofocle.

La giovane donna, fresca di vedovanza, ha le idee chiare. Per comprendere quello che sto cercando di dire è importante ricordare che Rosaria è siciliana. Più siciliana della mafia stessa. La cultura siciliana è, ancora negli strati più profondi, una cultura della vergogna e dell’onore (shame and honor culture), non della colpa. È una cultura, cioè, dove il concetto di vittima sacrificale non è ancora dirottato verso un’idea espiatoria e migliorativa del mondo.  La vittima sacrificale è un tributo di sangue che si versa, se necessario, per difendere l’onore della propria famiglia, della propria comunità originaria, degli antenati.

Rosaria usa un paralogismo molto sottile, molto filosofico: «Io – ella dice con tono implorante e straziante – vi perdonerei (= io non so cosa sia il perdono, la mia cultura non lo contempla, ma quelli che mi stanno accanto, preti e politici, mi esortano a perdonare); ma prima – ella prosegue il finto sillogismo – dovete venire qua, sotto la bara di mio marito, e inginocchiarvi. Perché lo so che siete anche qua dentro. Se avete il coraggio di cambiare.» E poi, con una torsione, con uno scarto retorico che fa accapponare la pelle, ed è per questo che ho evocato prima Sofocle, smette di rivolgersi ai mafiosi, agli assassini, e fa un commento estraniato ad alta voce, come desse voce al coro tragico che parla dentro di lei: «Ma tanto loro non cambiano.»[2]

Se qualcuno dei presenti, per assurdo, si fosse mosso, e fosse arrivato ai piedi della bara e si fosse inginocchiato, avremmo avuto l’Innominato, il pentimento e la conversione, Manzoni, la colpa e il cristianesimo giansenista come motore attivo contro il male.

Nessuno si mosse in quella chiesa.

Il male tenace tace, si nasconde, è questa la sua potenza fondante dell’universo. Agisce con il buio e di giorno sembra che non ci sia, che la sua sia una condizione transeunte e peritura. Così, da secoli, il cristianesimo prima e l’illuminismo poi avallano l’illusione. Invece grande è il dominio del male. Il suo esplicarsi nel mondo non è un incidente di percorso, ma l’esercizio di una stabile signoria: coloro che cadono sotto i suoi colpi sono i prescelti, gli eletti, i migliori; e sarebbero degni non della commiserazione che si riserva alla vittima, ma degli onori che si tributano all’eroe.


[1] Avvertenza I. La filosofia morale poggia sulla distinzione fondamentale tra bene e male, come la filosofia teoretica poggia sulla distinzione fondamentale tra vero e falso. I tentativi di scardinare queste due opposizioni fondamentali annaspano sotto la dannazione del relativismo etico, da un lato, e dello scetticismo gnoseologico dall’altro.

Avvertenza II. Questo testo è stato pensato e scritto nei mesi scorsi, e comunque prima dell’insorgere della pandemia del virus Sars2. Era rimasto nel cassetto, in attesa di confluire in un progetto più ampio. Ho deciso di pubblicarlo ora perché rileggere riflessioni svolte ante l’instaurarsi di questa nuova “situazione” mi dà la sgradevole impressione che siano oscenamente esposte ad un principio di falsificabilità ora spietato. Quello che sembrava – o almeno a me sembrava – vero ante pandemia, oggi è, stranamente, ancora più vero e ancora più falso.

[2] Il discorso pronunciato dalla giovane vedova è spaccato in due da quello che potremmo chiamare uno scontro di civiltà, quello tra la civiltà della colpa da un lato e la civiltà della vergogna dall’altro; che è anche uno scontro tra religioni, quella del cristianesimo e dell’amore e del perdono, e quello precristiano dell’onore e della vendetta («Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente» ripete alla fine per tre volte Rosaria Costa, come una litania, la sconsolata verità del mondo); è ancora scontro tra culture, cultura scritta (il testo previamente concordato con il sacerdote), e cultura orale (i commenti a braccio ad alta voce della giovane donna, che crede e non crede a quello che sta leggendo); e, infine, anche scontro tra maschile (il sacerdote che tiene il microfono, che sorregge sì la vedova nei momenti di cedimento, ma che vorrebbe anche orientarla e reindirizzarne il delirio oracolare nei momenti in cui parla la voce interiore della donna) e femminile (l’accensione isterica e la voce delle Erinni, quella stessa che parla in Cassandra, in Antigone, in Ifigenia, ecc.). Ecco il testo: «Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani — Vito mio — battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato — lo Stato… — chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano … se avete il coraggio… di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare loro…di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete.

Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non lo sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo che avete reso questa città sangue, città di sangue…

Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue — troppo sangue — di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente. »

Dura sex, sed sex

La proibizione dell’adulterio, e la consustanziale indicazione libidica di esso, sulle quali il matrimonio parimenti si fonda e si regge, funge da severissimo selettore della migliore spinta spermatica. Il matrimonio, non quello d’amore, sia chiaro (che poi non di rado si rivela il più disastroso e il più fitto di corna), ma il matrimonio di una volta,  quello imposto dalle famiglie, quello concordato, il matrimonio che si sostanzia in un mercimonio, nella  compravendita di bambine all’orco, il matrimonio di convenienza, il matrimonio riparatore, insomma, il matrimonio, non quello di oggi, sia chiaro,  che con il divorzio non è più nemmeno un matrimonio, essendo venuta meno l’indissolubilità del vincolo, il matrimonio-matrimonio, questa farsa posta tra la tragedia del nascere e la commedia del morire, è un’istituzione evoluzionisticamente perfetta, perché filtra le mezze seghe e consente solo al coraggioso, all’intrepido amante adultero disposto al sacrificio della propria vita, come Paolo per Francesca, di irrompere come terzo intruso e di depositare più irresponsabilmente e più vigorosamente il proprio seme, fecondare la donna sposata ed adultera, lasciare la migliore spinta spermatica nella vulva adultera siffattamente fecondata per poi ritirarsi, lasciare ad altri l’accudimento di ottimi esemplari della specie così riprodotti, come è stato d’altra parte per lo stesso fecondatore adultero, a sua volta generato nella medesima modalità adultera.


In certe donne, non necessariamente anziane, arriva il momento in cui le rare volte che si manifesta il desiderio del coito ciò avviene come una richiesta di trivellazione meccanica, di sbucinamento nelle cavità uterine, dove solo il cazzo può calarsi, per riportare in superficie un qualcosa di smarrito o per togliere qualcosa che dà fastidio. È per questa ragione che certe donne hanno il mito del cazzo nero, del cazzo degli ivoriani. Naturalmente si tratta, anche qui, di un malinteso, meglio, di un doppio malinteso. Le donne non desiderano il cazzo, né in generale né sub specie ivoriana, ma qualcosa di infinitamente più turpe: la tenerezza. È per questo che riducono il coito a un atto perforativo: si vergognano della loro richiesta indecente. Il maschio, dal canto suo, ridotto com’è a idraulico, certo gioisce, ma in cuor suo sa bene che è una spolizazione della sua natura e statura guerriera, predatrice, dominatrice e seduttiva, quando bastava solo un lieve tocco della mano sui capezzoli per far fremere di piacere e di deliquio la donna, non questa prestazione da artigiano del sesso iscritto alla Confstantuffato.


All’origine dell’innamoramento, di quel fenomeno massimamente presente e al tempo stesso difficilmente spiegabile, fenomeno che Stendhal ha chiamato «cristallizzazione», deve esserci questo (parlo dell’innamoramento dell’uomo maschio per la donna): una divaricazione tra l’apparenza, l’aura, lo splendore angelico da un lato, e la insopprimibile fisicità e corporeità dall’altro. Più questa divaricazione, questa «forbice» si allarga, più intenso è l’innamoramento. Non sto parlando della dicotomia maschilista tra donna angelo (la madre, la moglie) e la donna demonio (l’amante, la prostituta). E non sto parlando della compresenza, nella medesima persona di sesso femminile, dell’angelo (il volto, gli occhi, i capelli) e il demonio (i lombi, il sesso, le mestruazioni). Quello che vorrei provare a descrivere è un’altra cosa. Non è l’idealizzazione, variante concettuale della cristallizzazione stendhaliana (troppe –zione). Ogni appartenente alla spavalda e smarrita schiera dei maschi sa bene cosa si intenda con l’espressione «quella è bona». Bona è la femmina dove la divaricazione non avviene, la femmina dove bel culo, gambe dritte e snelle, intelligenza, buon umore, assennatezza convivono in equilibrio. La donna «bona» è quella trombabile, ma anche, all’occorrenza, una volta toltosi il capriccio, scaricabile.

Facciamo un passo avanti. Se un innamorato sente l’appellativo «bona» riferito, magari da suoi amici ignari all’uscita dal bar, alla donna di cui è innamorato, l’innamorato non riconosce in quell’aggettivo l’essenza della donna. Non solo perché si sente oltraggiato, segretamente oltraggiato per la violazione di una sua intima percezione, che ha dedotto dal generico lo specifico, mentre gli amici riconducono grossolanamente lo specifico nella rudezza del generico («che bella fica!»); non si riconosce in quella forma verbale riduzionistica perché enuncia assertivamente e indubitabilmente l’ esistenza di qualcosa o qualcuno di cui invece l’innamorato dubita, mettendone in dubbio la possibilità stessa di esistenza.

L’innamorato, e siamo forse arrivati a ciò che cercavamo di dire, è come un drogato o un allucinato: dubita che sia possibile che possa esistere una presenza, una creatura, una persona come quella di cui è innamorato.  Egli regge un carico insostenibile tra essere e non essere, lotta duramente dentro di sé e soffre questa lacerazione. L’innamorato sta come dentro un sogno. Insegue un fantasma. Quando qualcuno gli ricorda che quella donna è «bona», è «una gran fica», quello che avviene dentro il sogno dell’innamorato è propriamente una battaglia ontologica, dove le schiere dell’essere irrompono e dettano al regno del possibile la loro inesorabile legge: non c’è divaricazione, non c’è forbice, c’è solo questa bella fica che passa per strada o esce da scuola. 

Qualcosa del genere lo dice anche Paolo di Tarso, giusta il commento all’Epistola ai Romani di Karl Barth. L’innamorato vede nell’altra ciò che ella non è, non ciò che ella è, come invece fanno gli amici all’uscita dal bar. L’innamorato scorge un soggetto, gli amici vedono un oggetto. L’innamorato costruisce e libera un soggetto fuori di sé, toglie le basi su cui l’oggetto poggia, e questa operazione silenziosa (non replica agli amici quando escono dal bar), misteriosa (perché allucinatoria) e dolorosa è ciò che cade, nel linguaggio comune, banalizzatore, sotto l’espressione «pene d’amore»: l’innamorato sa di aver liberato dal sepolcro dell’oggettualità la persona splendente, e così facendo si è condannato a perderla, e a morire per essa come oggetto che egli diviene, ed è in questo senso che il linguaggio comune appone al sintagma di cui sopra, ironicamente, si intende, l’aggettivo «perdute».


Siamo soliti ascrivere le caratteristiche somatiche di ogni persona a un qualcosa che, se non è la libera scelta di essa, a tale sfera di responsabilità personale è in ultima istanza riconducibile. Parlo con un conoscente, un professionista, molto preparato e molto colto. Mi accorgo dei suoi occhietti piccoli e tondi, non li avevo mai notati prima. Sono il segno di qualcosa di ottuso, e infatti questo professionista è sì preparato, ma pedante, e probabilmente insicuro. Veniamo da una cultura che, da Plutarco a Lowen, ci ha istruiti a trarre le caratteristiche morali e psicologiche di una persona dai suoi tratti fisici, anatomici.

Ovviamente niente è più falso di ciò. La statura fisica e la grandezza d’animo, solo per fare un esempio, sono il più delle volte inversamente proporzionali. Non ce la facciamo proprio a uscire da questa impasse. A una stortura del volto, riconnettiamo una stortura morale.

Il medesimo ragionamento, con il segno + invece che con il segno -, vale per la bellezza. Siamo inclini ad assegnare alla bellezza di un volto un merito morale ascrivibile alla portatrice del suddetto bel volto.  Ci sembra impossibile che a un nasino così lezioso e a una guancia così deliziosa non debba corrispondere un tratto interiore altrettanto lezioso e delizioso. I primi ad accorgersi del baratro tra apparenza e realtà furono i Greci. Il motto chalòs kai agathòs deve essere letto come l’esito di questa sconvolgente epifania del reale. La letteratura dell’occidente si potrebbe ricondurre tutta quanta allo sforzo di mostrare la bontà dietro un volto arcigno e sgraziato, e la malvagità dietro un volto incantevole.

Resta, insanabile, la ferita di ogni individuo, condannato a (sop)portare un volto (bello o brutto che sia) che gli altri considerano il risultato di una deliberata opzione.

La responsabilità individuale affonda le sue più profonde radici in un equivoco.

Nessuno è responsabile di ciò (il proprio volto, il proprio aspetto, il proprio apparire) di cui viene ritenuto massimamente responsabile.

«[…] Perché mi è stata assegnata questa forma? Perché mi è stato dato questo tremore, mentre dentro di me io non tremo?» (Antonio Moresco, Canti del caos, 332).


Il clitoride, il «minuscolo cazzofica» (ancora Moresco), mi fa pensare, come parola, al nome femminile, molto desueto oggi, Clotilde.  Il clitoride di Clotilde. Di Clotilde l’inclito clitoride, io canto.



«La cosa più difficile fu dirlo ai miei genitori». Incipit di un monologo dove una ragazza racconta – come in certe interviste-verità, nelle quali il volto della persona intervistata è opacizzato o di spalle e la voce distorta metallicamente, vuoi perché collaboratrice di giustizia, vuoi perché minore, vuoi perché vittima di stupro, ecc. ecc. – racconta di come fu difficile fare accettare ai propri genitori la propria scelta. Quale scelta? Non si capirà se quella di diventare porno attrice o di farsi monaca di clausura.


Lui non scopava, il corpo nudo della donna lui lo arava.


«A dispetto di ogni evidenza (e di quasi sei miliardi di smentite), io, in fondo, resto convinto di essere l’unico maschio che scopa davvero, che prova fino in fondo la potenza e la tragedia dell’orgasmo. Tutti gli altri intingono il pisello, si uniscono o si accoppiano sessualmente come gli animali nei documentari, si riproducono meccanicamente – e piuttosto distrattamente – come i piccioni sui cornicioni: non conoscono, come conosco io, l’estasi – e la catastrofe dell’orgasmo. E parimenti, a dispetto di ogni evidenza, io, in fondo, resto convinto che tutti gli altri sappiano del sesso qualcosa di essenziale che io ignoro, che siano scafati laddove io sono ancora alle prime armi, che siano tutti grandissimi e inesorabili percussori, laddove io sono spesso un disastro. »

«Sa chi si nasconde dietro gli altri? Sa di chi parliamo quando parliamo degli altri, della gente?», domandò l’analista.

«Chi?»

«I propri genitori».


Il sesso di alcune donne è villoso, di altre cavilloso.


Domandare ai bambini, che si sono portati al Luna Park, se si sono divertiti, una volta di rientro in macchina, non è similmente osceno al domandare post coitum, una volta stesi a riposare a letto: – Ti è piaciuto?


Una donna che aveva molti amanti, non sempre in modo diacronico, e molto senso dello humor, apostrofava un suo amante avvocato, un uomo corpulento, chiamandolo «principe del mio foro», glielo sussurrava nell’orecchio durante gli amplessi; e lui, che era un classicista, stava al gioco – replicava, mentre fotteva:

The amorous drawings of the Marquis Von Bayros

Dagli atri muscosi, dai fori cadenti,

un cazzo disperso repente si desta,

intende la nerchia, solleva la cresta,

percote con novo, crescente vigor!

Lei naturalmente la prendeva bene, non si offendeva, mentre la fotteva, per i fori cadenti, quelli, semmai, erano roba d’altre… Gli uomini erano così, ci credevano alle sue parole di incoraggiamento, benché alle parole seguissero roboanti proclami, più che fatti inoppugnabili. Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus, le veniva in mente, ma taceva. Li amava, per altri motivi. Ad un altro amante, un magistrato dell’alta corte, minuto, mingherlino e occhialuto, diceva che a lui, e solo a lui, era riservato lo jus primae noctis, e questo perché lo riceveva all’inizio della settimana, il lunedì. Il magistrato, nell’esercizio della propria giurisdizione, sentenziava dura lex, sed lex, ma, a dispetto del proclama solenne, si atteneva ligiamente all’adagio né bis in idem, la doppietta, per non parlare della tripletta, essendo una reliquia di anni ormai lontani. Ma lei li amava per altri motivi.


Sarebbe complicato convincere un bambino che i gemiti e poi le grida belluine della giovane donna, venticinque anni, moretta, carina, minuta, capelli a zazzera, brillantino alla narice, che si sentono stanotte provenire dalla finestra di fronte non sono di dolore ma di piacere, e che l’uomo, un ventinovenne, gran fisicaccio, che le sta alle spalle (la tenda corta lascia intravedere sul pavimento quattro piedi nudi, quelli della donna davanti e più divaricati, quelli dell’uomo dietro) non la stia uccidendo ma la stia facendo godere. Siamo impastati con la violenza.


Storia generale della merda[1]

Stepor Marcucci

Con il levarsi del sole nell’estremo oriente il flusso planetario dello sperma cominciava a scorrere di nuovo, come una fontana spenta alla sera dal giardiniere e riaccesa con le prime luci del giorno, un extragettito che riprendeva continuo a zampillare, uno scroscio, un inondare, un dilagare, un defluire da est verso ovest con il procedere del sole alto nel cielo. Gli analisti imperiali calcolavano in venti milioni di litri l’emissione giornaliera di sperma su tutta la superficie dell’orbe terracqueo, equivalente a venti milioni di bottiglie da un litro e a duemila duecento ventidue autobotti da nove mila litri cadauna. Il 40% dell’immane, liquido, quantitativo restando imprigionato nel lattice dei profilattici; il 25% della massa globale defluendo da cosce e natiche e labbra e restando assorbita da materia cartacea o tessile; il 30% rifluendo da condotte sanitarie quali bidet, water, lavandini; il 4% variamente disperso nell’ambiente; e solo l’1% restando ad indugiare nelle cavità uterine, producendo la fecondazione in 1 caso ogni 1000. E questo ogni giorno dell’anno, a questo stadio della popolazione globale.


Vidi a me venire nella fogna la madre emancipata. Uno smerdphone teneva all’orecchio e conversava con qualcuno che mi parve di capire fosse sua amica. Ah no, la udii dire, no no, lei fino alle undici non si alza mai (…), no no, non sta mai a casa, macché la sera esce sempre (…), beh, con gli amici, alle feste, si drogano (…), sì sì, sono io che l’ho avviata all’uso consapevole di ogni droga, purché non sintetica e non tagliata (…), come che madre sono? Sono una madre che pensa di aver addestrato sua figlia al piacere (…), sì, certo, e allora? Vanno alle feste, una sera un’orgia o una gang bang a casa di gente importante (…), no fammi finire, io se una cosa le ho insegnato è di darla a tutti, democraticamente, equanimemente, a non essere bigotta samaritana e a non darla solo agli sfigati (…) infatti spesso me li porta a casa (…) no, in camera sua fa quello che vuole, però in salotto solo pompini con l’ingoio, questa è l’unica regola, se no i divani si impiastricciano (…), guarda che all’università non ci va mai, non sarò certo io a forzarla, fino a che vorrà restare con me vitto e alloggio garantito, il resto se lo paga da sé (…), no che non lavora la troietta, diciamo che ha due o tre amici abbastanza adulti e abbastanza facoltosi, con i quali si intrattiene di quando in quando (…), guarda, non sarò certo io a fare la morale a mia figlia, quello spetta ai preti (…), qualche volta ci va alla messa, certo (…) a tal proposito, una di queste persone… ragguardevoli è un alto prelato, molto moderno, molto aperto, durante l’omelia cita sovente Coelho (…), ma quello lì adora metterlo in culo, lei acconsente, sempre con quel suo spirito burlone, perché dice che quello è un uomo di cul(τ)o, la butta sempre sul ridere lei, è una zuzzerellona, quanto è matta, insomma non mi lamento (…), no, aspetta, allora non te lo mando a dire, sei te che mi fai pena, con quella figlia sfigata che ti ritrovi, depressa, ansiosa, brufolosa, due lauree, una magistrale, un master, baffuta, gobba, spenta, la fiatella fecale a lunga gittata, le ragnatele che le sono cresciute sulla fica… Qui il credito finiva e la madre emancipata, indignata, lanciava il cellulare nello stige.


Vidi a me venire il maschio fraudolento. Era come uno di quei maschi che mirano indefettibilmente al culo, uno di quei maschi per i quali una chiavata non è tale se non si risolve in inculata, era uno di quei maschi che passava dalla fica come si passa a salutare moglie e figli la sera prima di andare a cena e a letto con l’amante, e l’amante era il culo; era uno di quei maschi fraudolenti, come lo era ogni maschio, che assicurava, garantiva, giurava addirittura che si sarebbe accontentato della fica; e questa cosa rassicurava la sventurata al punto coitale che essa concedeva di sciogliersi, e lo scioglimento la induceva, ma così per un giochetto eccitante e nulla più, a sussurrare parole porche al maschio fraudolento, la cui cappella, al suono di simili sussurramenti, si ingrossava stantuffando e ingrossando stantuffava fino al punto in cui la sventurata, prossima al deliquio, pronunciava, ma come da un’alterità di lussuria, come fosse stata lei stessa un’altra congiurata contro le preclusioni di quella morigerata che lei fondamentalmente era, pronunciava il sì, sbattimi forte, fammi sentire la tua verga dura, e allora il fraudolento, con rapido sgusciamento e rovesciamento di lombi, la chiavava da dietro e con rapido gesto sputava sul dito medio, sul polpastrello, e lo appoggiava malizioso all’orlo dell’ano già un poco sfessurato, e lei diceva no, ma diceva anche sì, e lui mormorava melliflue parole ingannatrici e lei urlava togli quel dito del cazzo e lui con fulminea manovra a tenaglia sfilava il dito e inseriva il cazzo e lei urlò di no ma lui ormai in vista della meta prossima forzò il pertugio, si fece spazio come in un tunnel della prima guerra mondiale, e sfondò le linee nemiche, ruppe le barriere di filo spinato e avanzò con la granata pronta per essere lanciata. Lei lo cacciò via. Dopo poche ore, ed era tornato a casa e stava guardando la partita di champions con suo figlio, i carabinieri lo portarono in caserma. Accusa di stupro. Non era l’aver tradito i patti, amplesso in corso di svolgimento, perché l’app scaricata sullo smartphone di lei aveva in effetti registrato un mutamento di volontà e la ricorrenza del consenso (il diagramma lo mostrava bene), non era questo il punto, «il fatto – disse il maresciallo – non costituisce reato».

«E allora?» aveva domandato il maschio fraudolento già proteso verso il secondo tempo, che volgeva ai supplementari.

«Il problema è nella app del tuo cellulare – gli disse il maresciallo. Ha registrato la tua intenzione originaria (e il maresciallo mostrava anche qui l’andamento di un grafico), e questo la tua partner non te lo perdona. La dichiaro in arresto.»


[1] Vengono qui anticipati, per la pazienza dell’ipotetico lettore, tre stralci del poema omonimo in corso di lavorazione.

I grandi benefattori dell’umanità

Si è soliti pensare ai grandi scrittori come a dei grandi benefattori dell’umanità, e ciò è probabilmente vero, ma lo è non solo nel senso che essi arricchiscono l’umanità di una saggezza e di una bellezza che prima di ciascuno di loro non c’era, ma anche – e forse soprattutto – in un altro senso, a cui non si è soliti por mente.

In ogni grande scrittore alberga un formidabile genio del male, non meno potenzialmente letale di un fisico nucleare.

Si è soliti pensare ai grandi scrittori come a grandi anime aliene dal male, a grandi fari nella notte dello spirito e del verbo. Fatta eccezione, nel novecento, per Celine (e, nel settecento, per Sade), nessuno scrittore, nemmeno il più depravato dei maledetti, è reputato un alleato del male. Lo scrittore ha un’anima buona, e un animo orientato al bene, se parla e si e ci intrattiene con il male è solo per attraversare il campo minato dell’esistenza, e aprire una via, a suo rischio e con grande pericolo, perché altri possano agevolmente passarci. Lo scrittore come una guida alpina, insomma.

Nessuno pensa mai ai grandi scrittori come a confezionatori di micidiali ordigni capaci di far saltare per aria intere società umane, o l’umanità intera. Si erra se si pensa che Kafka non fosse capace di elaborare un sofisticato e infallibile programma di sterminio di tutta l’Europa; si erra se si pensa che Kafka sia da meno di Hitler, da un lato, e di Einstein e Oppenheimer dall’altro. «[…] se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo», dice con parole sue Pasolini (citato da Giovanni Giudici, prefazione a Bestemmia. Tutte le poesie), esprimendo, seppure ad altri fini, la medesima avversione verso il poeta innocuo.

Il fatto poi che Kafka non si sia dedicato allo sterminio dell’Europa o che non si sia dedicato al confezionamento dell’ordigno nucleare è una mera circostanza occasionale, che nulla depone circa la sua incapacità di fare l’una e l’altra cosa. L’opera di Kafka non è meno ingegnosa della pianificazione nazista né meno complessa della bomba atomica.

Quando quindi pensiamo ai grandi scrittori come a grandi anime innocue, dovremmo provare invece a vederli come grandi criminali in pectore, gente capacissima, per intelligenza e profonda conoscenza dell’uomo e della natura, di portare l’umanità alla distruzione e alla sua autoestinzione.

Non che essa, l’umanità, non ci stia già provando, ma i suoi sforzi in quella direzione sono frenati o rallentati dal suo istinto di autoconservazione.

Ci metterebbe cinque minuti Shakespeare a far deflagrare una guerra civile europea, un «euxit» su larga scala, sol che lo volesse. Al confronto, Putin o Trump impallidiscono. Ci metterebbe meno di cinque minuti, William, e penetrando nelle menti sortirebbe un effetto anche più pervasivo delle esplosioni nucleari, che nulla potrebbero contro coloro che scendono nei bunker sotterranei. Gli basterebbe, al bardo, una mezza paginetta ma, come Kafka, preferisce dedicarsi ad altro, a disinnescare, non ad innescare, ordigni.

Se solo avesse voluto, Tolstoj avrebbe guidato le masse russe ed europee dove voleva, anche al diavolo. Ma si è dedicato ad altro. L’opera filosofica e politica di Lenin impallidisce, al confronto.

Si è soliti, oggi più che mai, considerare gli scrittori come operatori umanitari in tenuta letteraria.

Visti gli scandali sessuali che sono venuti a galla nel campo delle ONG, si potrebbe sperare che anche in loro alberghi la propensione al male, e ciò ci dà fiducia nel futuro della letteratura.

La natura della U

È impossibile non notare, talmente è evidente, la abnorme quantità di «u» presente nei versi iniziali del poema De rerum natura di Lucrezio. Non solo. Nel primo, celeberrimo verso, l’accento quantitativo lungo (esemplificativamente segnato, nel testo sotto riportato, in grassetto e sottolinea) cade quattro volte su sei sulla «u» (divomque è una lezione equivalente a divumque); indugia sulla «u» di Venus nel secondo verso; sulla «u» di navigerum del terzo verso; sulla «u» di concipitur al quinto e ancora al quinto sulla «u» di lumina; cade sulla seconda «u» di fugiunt; prolunga a dismisura il sintagma adventumque tuum, ove la lunga cade consecutivamente su due «u», caso rarissimo, credo, forse un apax legomenon; e suggella con tre cadute il nono, meraviglioso verso, cadendo sulla «u» di placatumque, di diffuso e di lumine. L’ultima vocale di questo primo quadro dell’avvento di Venere si chiude con la «u» di caelum.

Aèneadùm genetrìx, | hominùm divòmque volùptas,

àlma Venùs, | caelì subtèr | labèntia sìgna

quaè mare nàvigerùm, | quae tèrras frugiferèntis

còncelebràs, | per tè quoniàm | genus òmnanimàntum

còncipitùr | visìtque exòrtum | lùmina sòlis:

tè, dea, tè fugiùnt | ventì, te nùbila càeli

àdventùmque tuùm, | tibi suàvis daèdala tèllus

sùmmittìt florès, | tibi rìdent aèquora pònti

plàcatùmque nitèt | diffùso lùmine caèlum.

https://www.youtube.com/watch?v=WRQTb9-unRE (fino a 0:37)

Perché così tante «u», un così cupo suono accompagna la presentazione e l’avvento di questa dea, alma Venere? La nascita botticelliana è di là da venire, nei secoli venturi. Vi è una tenebrosa vicenda alle spalle di questa dea, e le «u» ne custodiscono la reminiscenza. Avanzo un’ipotesi: non è possibile comprendere la potenza eversiva dell’inno lucreziano alla voluptas, se non si ha presente il dominio plurisecolare del culto dei morti e degli eroi che ha intriso la cultura romana arcaica via Etruschi. Quello che Lucrezio si ripropone, preannunciandolo già dai primi versi del suo poema filosofico, è una rivoluzione spirituale e culturale, un ribaltamento di paradigma, come sarà quello della predicazione di Cristo, con il suo motto «lasciate che i morti seppelliscano i morti».

Lucrezio canta la legge generatrice cui tutto l’universo, nulla escluso, soggiace. Una potenza universale e cosmica. Ma, e qui sta il punto della nostra osservazione, perché in un inno che apre alla potenza generatrice e rasserenatrice della voluptas, luminosa e vitale, ci sono così tante «u», vocale buia, infera, mortifera? Un filologo meticoloso, e quale filologo non lo è?, partirebbe dalla struttura fonetica del termine latino voluptas, per evidenziare che in esso c’è la predominanza delle vocali scure, «o» e «u», sulla vocale chiara, «a»,[1] la predominanza delle vocali chiuse su quelle aperte.

Uno psicologo del profondo, qualunque cosa possa significare l’oggetto dello studio di questo professionista, direbbe che la voluptas che governa tutto l’universo trae la sua spinta da forze sotterranee, oscure, inconsce. La chiamerebbe libido (che in latino arcaico è lubido). Niente, quindi, di cui stupirsi, in fondo, se non che Lucrezio avrebbe capito questa cosa, questa potenza, con duemila anni d’anticipo su Freud.

Senza quella «o», ma soprattutto senza quell’abisso oscuro della «u» (per incidens, occorrerebbe studiare il valore simbolico del segno «u», raffigurazione grafica di una cavità, un pozzo o un abisso), avrebbe la potenza primaverile della voluptas, che è capace di disperdere le tormente e i nembi e di riportare il sereno e il sorriso dell’aurora sulle acque placate, la medesima spinta, la medesima profonda motivazione?

E allora, direbbe l’esperto in filosofie orientali: vi stupite? Molto prima di Lucrezio in Oriente si era capito chiaramente che l’uno è la risultante di due principi tra loro antagonisti, yin e yang. Bella scoperta, Lucrezio!

Leggo ora che Antéros, un’associazione GLBTI  di lesbiche, gay, bisex, transgender e intersex (la quale, più appropriatamente, vorrebbe che la propria sigla fosse LGBTQIA+) ha introdotto nel suo statuto il neologismo sociu, per chi non è né un socio (maschio) né una socia (femmina), perché « l’uso della “u” rientra tra i vari dispositivi utilizzati per neutralizzare il genere […]».[2]

Proviamo ora a trarre qualche conclusione. Le interpretazioni canoniche dell’incipit lucreziano puntano tutte dritte verso il riconoscimento che Alma Venere spazza la tempesta e riporta il sereno, come l’alba porta via la notte e il sole scaccia le tenebre. Il principio ordinatore del mondo fa chiarezza su una precedente confusione, su un caos originario. È qui all’opera una tipica reinvenzione della tradizione in chiave rinascimentale e botticelliana.[3] Se le cose stessero così, però, la fonetica dell’incipit lucreziano sarebbe tutta orientata alla luminosità, come avviene nelle quattro stagioni di Vivaldi, dove i toni gravi della morte raccontano l’inverno e quelli acuti e gioiosi, i trilli, la primavera, la rinascita.

Ma, come si è visto, così non è. L’avvento di Venere (adventuumque tuum) è impastato di questa misteriosa vocale che è la «u». Che cosa porta questa vocale dentro e nel cuore stesso dell’attrazione universale dei sessi? Un principio neutrale, forse? Un buio originario? Un qualcosa che resta attaccato all’estrinsecarsi felice della potenza generativa come una macchia cristiana o stoica o come un’ombra junghiana? Ricaschiamo nell’invenzione della tradizione, così.

E se, fuoriuscendo dalla tradizione culturale, vuoi filosofica, vuoi spirituale, vuoi religiosa, vuoi psicanalitica, si trattasse dell’eco fonetico dell’antimateria? Della materia oscura? In questo senso il genere (il maschile e il femminile, yin e yang) è neutralizzato all’origine. Hanno ragione u LGBTQIA+. E l’origine dura anche dopo. Basta vegliare le notti serene, e quella U si sente, si sentono eccome le radiazioni cosmiche di fondo. 

Quindi un viaggio lisergico dentro la materia profonda e dentro l’antimateria, è quello che forse inaugura Lucrezio con le sue insistite U, non meno veggente in questo di Rimbaud, per spazzare via l’origine, l’archè, dalle divinità sessuate, Venere inclusa, dal culto dei morti e degli eroi, e retrodatarla a una dimensione pre-umana, cosmica, atomica, Venere è partorita dall’energia, e l’Energia è = U, non = E, come vorrebbero Rimbaud e Einstein.


[1] Nel celebre sonetto di Arthur Rimbaud, Vocales (Vocali), ove il poeta stabilisce delle corrispondenze tra le vocali e i colori, alla A è associato il colore nero, mentre alla U il verde. Occorre notare che nella fonetica francese il suono della U è ben diverso da quello della U italiana, e si sostanzia in una I pronunciata con le labbra impostate per la U, la «u turbata». La U francese, infatti, non è collocata, come invece nella fonetica italiana, all’ultimo posto nella gradazione vocalica: la sequenza fonetica francese è A E I U O. Il termine oppositivo della A, nel francese, è la O, che infatti anche per Rimbaud assume il colore più scuro dello spettro, che è il blu, se si eccettua il nero. Il problema sarebbe l’associazione della A al nero. La A è il primo suono che emettono le corde vocali del neonato, e il venire alla luce è ancora un essere impastati di buio, d’accordo. Rimbaud vuole evidentemente legiferare una sua diversa, e originaria, associazione cromatica, fondare una nuova legge percettiva. La A è una vocale che, per essere la prima della scala labiale (il dolore come il piacere hanno in essa il veicolo fonetico più immediato), include tutte le possibilità di filiazione, come il nero include tutti i colori dello spettro. Il nero della A rimbaudiana assomiglia alla saturazione della luce e dei colori, come quando d’estate al mare si chiudono gli occhi sotto il sole e tutto appare prima rosso, poi quasi nero.

[2] Figure della differenza, settembre 2019, n. 3.

[3] A T.S. Eliot si deve il concetto di tradizione letteraria come eredità a due sensi di marcia, che dal passato arriva ai nostri giorni, ipotecandoli, e che dai nostri giorni risale, come un’anguilla, al passato, rifecondandolo.