Nessuno, a quanto mi è dato sapere, ha messo in relazione con la pandemia da Covid-19 la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina all’alba di giovedì 24 febbraio 2022. Gli unici collegamenti tra i due eventi riguardano o la battuta che circola in questi giorni, per la quale durante la pandemia tutti erano virologi e ora che c’è la guerra tutti sono strateghi ed esperti di geopolitica; o la considerazione che “il virus e la guerra indicano il bisogno di avere più militari in servizio”, (così il Capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, nell’intervista di Gianluca di Feo, La Repubblica online, 06 marzo 2022. L’intervistatore, nella domanda, osserva che “la pandemia ha mostrato quanto possano essere utili i militari al Paese”.)
Perché Putin ha deciso l’attacco – certamente pianificato da mesi, come concordano pressoché tutti gli analisti – proprio in questo momento? Da un punto di vista strategico non sono emerse motivazioni plausibili. Ha atteso che la curva del contagio iniziasse la parabola discendente? Perché? Perché un attacco a pandemia in corso sarebbe stato rischioso per le truppe russe? Non è da credere, nelle caserme si è continuato anche durante la pandemia ad esercitarsi alla guerra (e non solo in Russia) indossando le mascherine sanitarie quando non le maschere anti-gas. Putin avrebbe allora atteso la discesa della curva pandemica per non creare una catastrofe umanitaria e sanitaria in Ucraina, cosa che avrebbe reso ancora più drammatica l’evacuazione dei civili dalle città sotto assedio? È stato un galantuomo? Non è da credere, vista la catastrofe umanitaria che l’invasione ha prodotto. À la guerre comme à la guerre, nessuna remora umanitaria avrebbe impedito agli strateghi russi ed al loro comandante in capo di impiegare, machiavellicamente, l’arma biologica della diffusione e della recrudescenza del contagio.
Proviamo ad osservare la questione del kairos putiniano da una diversa angolatura. Dal 24 febbraio i media di tutto il mondo non aprono più con le notizie della pandemia. La guerra di Putin ha scalzato la pandemia dal suo stabile primato biennale. Al livello della media-sfera Putin ha fatto fuori la pandemia. Sembra che l’emergenza sanitaria non esista più. E se l’umanità, eccetto beninteso gli Ucraini, avesse tratto inconsciamente un sospiro di sollievo? La guerra è azione, è emozioni (paura, orrore, certo, ma anche adrenalina, avventura, coraggio, altruismo, generosità, stupro ma anche amore, onore, resistenza, amor di patria, ecc.), non passività, non isolamento, non lockdown (così grigio e depressivo, a differenza del coprifuoco sotto le bombe), non terapie intensive, non intubamento, non soffocamento. Ma soprattutto la guerra è spettacolo, l’ultimo spettacolo dell’umanità.
Chi scrive non è così folle da non cogliere il grado di irricevibilità, quando non di empietà, di una ipotesi che sembrerebbe scongelare dal freezer della storia vecchie quanto demenziali teorie sulla bellezza della guerra. Nessuno (a parte i signori della guerra, i mercenari e i produttori/trafficanti di armi) è mai contento che scoppi una guerra, men che mai dopo una prolungata sofferenza planetaria. Mentre milioni di persone sono costrette ad abbandonare le loro case e le loro città, mentre un fiume di profughi sta cercando riparo dalla morte, dalla fame e dal freddo, scappando dalle bombe a grappolo, e mentre ragazzini di venti anni cercano di fermare i missili con i bastoni, e mentre il mondo si mobilità per inviare aiuti ed armi, tu ti trastulli con simili bizzarre cogitazioni?
E tuttavia, nonostante il monito morale che mi punta l’indice dentro la coscienza e declassa questo mio ragionamento a vacuo intellettualismo, l’idea che la guerra scatenata da Putin sia in qualche oscuro, misterioso, enigmatico modo collegata alla pandemia continua a ronzarmi in testa.
Si dice che Putin, lanciando le divisioni di carri armati contro l’Ucraina, abbia riportato indietro l’orologio della Storia, con un’invasione territoriale nel cuore d’Europa in stile, appunto, primo novecentesco. Verissimo. Basta con le cooperazioni militari, basta con le operazioni militari regionali e asimmetriche, basta con le guerre low-intensity, basta con gli interventi di peace making o peace enforcing, basta con le guerre fatte solo con droni e missili teleguidati. Torniamo sul terreno, che vi sia lo scontro fisico tra gli eserciti. I generali mettano di nuovo le bandierine sulle mappe cartacee, come ai bei tempi antichi. Sebbene non la chiami così, ma la chiami Operazione speciale militare, quella di Putin è una signora guerra.
Ed ecco l’inquietante, oscena domanda: e se una tale scenografia arcaica, premoderna, fosse la sola in grado di scalzare la minaccia biopolitica e postmoderna della pandemia per come l’abbiamo vissuta? (la pandemia in sé non è ovviamente postmoderna, la peste è tanto arcaica quanto lo è la guerra, ma postmoderna è l’emergenza planetaria che la pandemia ha innescato). Putin ha servito al mondo questa narrazione archetipa ed arcaica (lo so, è indecoroso utilizzare tale locuzione super abusata, ma la cosa è intenzionale).
La contro-propaganda della resistenza ucraina non è da meno, quanto a regressione arcaica, sia chiaro: siamo alla fabbricazione fai-da-te delle molotov, con tanto di polistirolo che viene sbriciolato con le grattugie; e siamo allo scavo con il piccone delle trincee in mezzo alle arterie principali di Kiev.
Inconsciamente, anche l’Europa ha lanciato nell’agone mediatico segnali di regressione arcaica: il ritorno al carbone, per resistere alla dipendenza energetica da Putin (Germania); e la trasmissione ad onde corte della BBC, come nella seconda guerra mondiale, per consentire di ricevere notizie laddove internet è stato chiuso (Inghilterra).
Neppure la riflessione morale si è sottratta a questa regressione arcaica. Il teologo italiano Vito Mancuso ha ritirato fuori il concetto medievale di bellum justum, elaborato nel XIII secolo da Tommaso d’Acquino nella Summa Teologiae, per giustificare il sostegno militare, sub specie di invio di armi, alla resistenza ucraina contro l’aggressuine russa. Nel suo articolo pubblicato il 6 marzo scorso (https://www.vitomancuso.it/2022/03/07/guerra-e-pace/) Vito Mancuso, che pure non ignora il travaglio del pensiero novecentesco che sancisce la dissociazione tra la forza/violenza armata e il concetto di giustizia, fa appello anche lui a un vecchio arnese del lontano passato per fronteggiare l’evento mostruosamente arcaico che è in atto. Senza voler entrare qui nello specifico dell’argomentazione di Mancuso, annoveriamo anche questo gesto intellettuale quale sintomo della più generale regressione medievale innescata da Putin.
Il motto latino Dulce pro patria mori può essere interpretato in vari modi. Certo è che morire per pandemia nell’anonimato di una corsia d’ospedale, con la percezione di essere infetto, intoccabile, senza poter vedere i propri cari e con gli infermieri tutti bardati da astronauti non dulce est.
Al contrario, rischiare di morire, e morire, per una causa giusta, sacrificarsi per un valore eterno (= la difesa della patria panrussa, da un lato, la libertà del popolo ucraino, dall’altro, la tutela dei diritti umani da ogni lato) è una scelta drammatica, tragica, ma carica di emozioni supervitali e di adrenalina (il coraggio, il senso di appartenenza comunitaria, il sentirsi utile ad una causa, essere convinti che la propria morte non sia inutile, come inutile e soprannumeraria è quella da pandemia), ed in questo senso dulce est.
SIMMETRIE
I coprifuochi, i lockdown, le quarantene, il vaccino, il green pass rinforzato, il distanziamento sociale sono state le armi sanitarie e sociali schierate contro il diffondersi del virus. Sul piano materiale si è combattuto duramente e si sono fatti immensi sacrifici, è vero. Ma sul piano simbolico non si può dire che si sia agito con pari convinzione. Per uscire simbolicamente dalla pandemia era necessario che l’umanità intera facesse un sacrificio simbolico, celebrasse una liturgia espiatoria, un nuovo rito al tempo stesso di rendimento di grazie e di solenne promessa, sancisse una nuova alleanza a suggello dello scampato pericolo planetario e universale, era necessario che i popoli fondassero una nuova religione non ancora sorta, forse anche con tratti terribili ed inesorabili. Quale sacrificio? Quale nuovo rito? Ma è chiaro. La dismissione, anche a seguito di violente manifestazioni globali, di tutti gli arsenali atomici del pianeta, ovvero del virus tecnologico analogo a quello biologico per potenzialità annientatrice. Migliaia di pacifisti consacrati (sacrificati) a questa nuova religione dei popoli. Una grande kermesse mondiale da celebrarsi in un unico periodo, magari Agosto 2021 (come in un unico periodo si celebrano le Olimpiadi), con scioperi della fame, assedi pacifici ma ad oltranza alle basi militari di tutto il pianeta. Altro che Greta Tunberg. Solo questo avrebbe pareggiato i conti con la nascente, nuova, terribile Divinità (probabilmente la Madre Terra Matrigna, ma l’identificazione di essa non è qui rilevante).
Così però non è andata (la scomparsa dei riti essendo la cifra della nostra epoca secondo il filosofo Byung-chul Han), e all’orizzonte mentale del potere si è riaffacciato l’unico rito sacrificale che l’umanità conosce dalla notte dei tempi (quello che Roger Callois chiama l’ultima festa nera dell’umanità): la guerra-guerra, quella combattuta inizialmente in Europa (e dove sennò?), corpo a corpo, strada per strada, tetto per tetto, cecchino per cecchino, con trincee e barricate e sacchi di sabbia e cavalli di frisia come sul fronte occidentale di più di cento anni fa e come sul fronte orientale ottant’anni fa.
E se in questo vuoto di potere rituale Putin avesse assunto un mandato paradossale ed assurdo e una legittimazione globale ad appiccare l’incendio che ha appiccato?
Entriamo con discernimento nel delirio. La pandemia ha inoculato nell’inconscio individuale e globale il senso della possibilità dell’estinzione del genere umano. Razionalmente, e facendo riferimento ai precedenti storici epidemiologici, la ratio globale ha messo in carico una decimazione dell’umanità, non l’estinzione totale, ha fatto leva sulle contromosse sanitarie e sociali. Ma il virus è penetrato nell’inconscio, dove la parte e il tutto coincidono (Matte Blanco), e per la prima volta ha posto l’homo sapiens nella (in)coscienza della propria condizione globalmente estintiva dovuta all’interconnessione globale. Certo anche la guerra nucleare, con il suo inesorabile, e tragicamente comico acronimo MAD (Mutual Assured Destruction) pone il rischio potenziale dell’estinzione del genere umano (della vita umana sul pianeta terra). Ma lo ha finora posto ad un livello distopico, non attuale, materia buona per libri e film sul day after, La Strada di Cormac Mccarthy, ad esempio, buona per le grandi tenzoni morali dell’umanità a fine corsa. All’estinzione nucleare nessuno crede davvero più, forse ci si è creduto all’epoca della guerra fredda. La pandemia ci ha fatto invece provare in atto il sentimento dell’estinzione globale. Dunque, simmetria inconscia tra pandemia e guerra nucleare, ma maggiore virulenza inconscia della prima. Per uscire dalla pandemia, non avendo saputo compiere un rito religioso nuovo, l’umanità ha scelto, incaricando il più truce tra i potenti della terra, il sacrificio in vecchio stile, sacrificando – tanto per cominciare – un popolo, quello ucraino, i bambini (quelli di cui da sempre le Divinità sono più ghiotte), le mamme (la Grande Madre), i vecchi (il colloquio con la morte che viene), i malati (i combattenti per la vita), le ragazzine (il fiore), i giovanotti che vanno alla guerra (il tronco). Il problema però resta, perché quella innominata Divinità che avremmo dovuto placare, non si accontenta di sacrifici regionali e territorialmente circoscritti, è un po’ avida…
Una cosa interessante, soprattutto perché apparentemente sconcertante, l’ha detta un giovane sacerdote cattolico ucraino, parroco nel milanese, in un servizio tv in cui si dava conto degli aiuti umanitari raccolti dalla parrocchia (medicinali, viveri, vestiti, ecc.) e destinati alla Caritas ucraina. Intervistato (da Rainews), il parroco di origine ucraina si è fermato un momento, ha fatto silenzio e poi: – Dico una cosa. Pausa. I suoi occhi, arrossati, si sono inumiditi. Con un inizio di singhiozzo subito soffocato ha proseguito così: – Mi dispiace che Dio abbia scelto il mio popolo per questo sacrificio, ma il cuore di tutti, di tutti i popoli, si è ultimamente troppo indurito, non ci inginocchiamo più, non preghiamo più. Il giovane parroco ucraino, dietro un richiamo apparentemente catechistico e cattolico-universale, ha detto qualcosa che esonda l’ambito religioso e va al cuore del problema globale attuale.
L’ELEMENTO PORTENTOSO, MIRACOLOSO, SPETTACOLARE DELL’INVASIONE MILITARE RUSSA.
Nell’ora buia dei generali e degli analisti, solo una cosa è condivisa da tutti. L’invasione russa dell’Ucraina non se l’aspettava nessuno, non così. Un evento che rompe la catena analitico-previsionale, che sorprende, che rende attuale l’inimmaginabile, che altro è se non qualcosa di portentoso, numinoso, miracoloso (nel senso etimologico di “meraviglia, cosa meravigliosa, prodigio” che detiene il vocabolo latino miraculum, o il verbo miror (semipassivo o deponente) che significa essere sorpreso o essere stupito di qualcosa non necessariamente degno o onorevole, lasciando il senso in una neutralità valoriale al pari del termine latino fortuna) ergo spettacolare? L’evento epocale che irrompe inatteso, si trascina dietro, o è preceduto, da qualcosa di terribilmente religioso, religioso nel senso quantomeno gnostico, dove la religione è il campo di battaglia tra due demiurghi, Dio e Satana. La CIA lo sapeva e lo aveva predetto, ma l’opinione pubblica mondiale (il popolo dei fedeli) non credeva all’inimmaginabile.
4-3-2022. La scorsa notte è infuriata la battaglia attorno alla più grande centrale nucleare europea, quella di Zaporihzhia. Sono state documentate esplosioni. È circolata la notizia di un innalzamento della radioattività nell’area circostante, notizia poi smentita. Ieri notte le autorità ucraine dichiaravano di mantenere il pieno controllo della centrale, stamane la notizia che la centrale è sotto il controllo russo (si fa per dire). Una centrale nucleare come campo di battaglia, come lottare sull’orlo di un vulcano… Mai successo, se non nei film, qualcosa del genere, prima. Il vuoto simbolico lasciato dai pacifisti di tutto il pianeta è stato occupato materialmente dai guerrieri, fuori dai cancelli della centrale atomica.
È evidente che a questo si voleva arrivare e a questo si è arrivati. Uso qui deliberatamente (e anti-heideggerianamente) il “si” impersonale, giacché a questo punto la questione non è più solo un contenzioso tra due stati, ma una reazione a catena che coinvolge l’Europa tutta ed il mondo intero, e tutti gli attori, diretti e indiretti, del conflitto, sono meglio ricompresi nella particella “si”, equivalente dell’insieme umano.
L’umanità intera, come dicevamo, ha corso e forse ancora corre il rischio di decimazione se non di totale estinzione a causa della pandemia. Per il general intellect, nella sua parte più storico-dialettica, la pandemia è stata letta come il kairos per una palingenesi umana. Il filosofo marxista sloveno Zizek ha intravisto, nel diffondersi globale del contagio, una lucina in fondo al tunnel: un nuovo, ma stavolta non dispotico, comunismo. In Italia è divenuta virale la poesia di Mariangela Gualtieri Nove marzo 2020, assurgendo al rango di prece nazionale lirica e laica con funzione colpevolista / apotropaica. Lo schema della poesia è il seguente: 1. COLPA (“ci dovevamo fermare”, abbiamo spezzato l’equilibrio cosmico con Madre Terra, ecc.- 2. ESPIAZIONE (“una voce imponente ci dice di stare a casa”) – 3. PERDONO/RINASCITA (la ricetta per la exit strategy inizia col verso “guardare di più il cielo” e finisce con l’esortazione a “fare il pane”). La pandemia è, per la poeta Gualtieri, un accadimento che ha qualcosa di portentoso, miracoloso, (anti)-spettacolare e, in definitiva, religioso. La seguente strofa potrebbe benissimo adattarsi alla nuova evenemenzialità prodigiosa in atto in Ucraina, anzi, sembrerebbe scritta all’uopo, eccetto per le pepite d’oro, perché quelle le trovano solo i signori della guerra e i produttori e trafficanti di armi:
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
L’uscita dallo schema conduce a, ed è prefigurata da “una comprensione dilatata”. Nove marzo 2020 (due anni esatti fa) prefigura sì nuove ritualità, ma a sacrificio zero o minimo. Se rinunciamo a qualcosina, e ci fermiamo dieci minuti a guardare il tramonto, siamo già sulla buona strada. La proposta, se così possiamo chiamarla, di una delle voci sapienziali più ascoltate oggi in Italia (una poesia di Gualtieri, Bello mondo, è stata recitata a San Remo 2022 da Jovanotti) è un sacrificio compatibile.
Ma un sacrificio compatibile è fintamente religioso. Se religiosa è la diagnosi (hybris versus divinità cosmica), la terapia è invece qui analgesica. La “dismisura prometeica” che anche la pandemia (al pari della tecnologia dell’annientamento totale reciproco, MAD) ha spalancato, non può che essere colmata con una dismisura uguale e contraria. Se la pandemia ha divorato fino ad oggi almeno 11 milioni di esseri umani (fonte La Repubblica online, 20 gennaio 2022, Quanti sono i morti del Covid? Molti più di quelli che sappiamo: ecco perché, di Noemi Penna), almeno altrettanti milioni di esseri umani dovevano immolarsi in gesta eroiche di atti di sabotaggio degli armamenti nucleari in tutto il pianeta, ponendo la propria vita sulla bilancia della Divinità Terribile.
La guerra in corso, che come ogni guerra, non lo dimentichiamo, ha sempre avuto una matrice sacra (sacralità che nel novecento si è nascosta dietro il velame dell’ideologia) è quindi per questa ipotesi la vendetta che la pandemia (ossia gli almeno 11 milioni di esseri umani insepolti, presto liquidati) scatena contro l’umanità sopravvissuta. A dispetto degli auspici della poeta Gualtieri, un minuto dopo la discesa del contagio si è tornati alla solita vita frettolosa di prima, come se nulla fosse davvero successo: altro che fare il pane e contemplare lungamente il cielo!
Non si sta ovviamente sostenendo, come potrebbe apparire, che se non ci fosse stata la pandemia Putin non avrebbe scatenato la guerra. La guerra era preparata da tempo, oltre al fatto che incubava nel conflitto regionale che andava avanti da anni. Quello che si cerca qui di indagare è che la dismisura con la quale la Russia di Putin ha scatenato l’aggressione, e che ha sorpreso pressoché tutti gli analisti ed esperti militari e di geopolitica, è speculare alla dismisura globale con la quale la pandemia ha invaso la coscienza planetaria. Il comportamento di Putin sembra replicare il comportamento del virus, come fanno i neuroni specchio. La pandemia, lungi dall’indurre a istituire un tabù circa l’annientamento umano, ne ha rappresentato la fonte di legittimazione e replica. Altro che una “comprensione dilatata”. Qui siamo piuttosto al cospetto di un programma virale che auto-esegue se stesso. La sovranità planetaria, biopolitica e letale della pandemia ha innescato una reazione a catena di sovranità politica letale attraverso la guerra.
E torniamo alla sorpresa, al miracolo. Sarà contro-propaganda, ma il tema dell’isolamento umano, della paranoia di essere assassinato e della malattia mentale di Putin sta circolando nei media. La scrittrice spagnola Clara Usòn dice che Putin “è il dio greco che impazzisce prima di distruggere tutto” (La Stampa, 2 marzo 2022, p. 21). L’approccio alla guerra di Putin è stato finora caratterizzato più dallo stile dello 007 (egli, come è noto, inizia la sua carriera come agente segreto al servizio del famigerato KGB) che non dalla strategia militare classica. Non perché egli sia una colomba, chiaro. La guerra si fa di nascosto, si agisce in segreto, spiando, comprando, corrompendo, avvelenando, torturando, eseguendo uccisioni mirate, diffondendo false notizie, dividendo lo scacchiere avversario, infiltrandosi nei ranghi nemici. Lo scontro frontale non è l’opzione decisiva, o non lo era stata fino ad ora. Nelle guerre cecene Putin ha sì dato il suo contributo efferato e spietato, ma vi è entrato a conflitto già aperto. Putin non aveva scatenato nessuna invasione in stile classico prima del 24 febbraio scorso. E tutto l’attivismo di Putin nella guerra siriana è anch’esso improntato a gioco segreto, prima che alla guerra asimmetrica. Perché allora questo cambio di registro? Si è davvero sentito minacciato dalla NATO? Gli esperti ritengono che non sia questo il punto. Anzi, è stato detto che l’inspiegabile decisione di Putin ha fatto rinascere la NATO, che forse poteva anche morire. Putin si sente però paranoicamente accerchiato, tornano alla mente le riflessioni di Luigi Zoja sulla paranoia dei tiranni novecenteschi (Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri). Bisognerebbe conoscere dettagli della vita privata di Putin, se la ha, al momento comunque non noti, per poter accertare qui una ricorrenza clinica. Ma è certo che la dismisura non si spiega se non come reazione ad una dismisurata minaccia che l’opinione pubblica mondiale non percepisce e Putin sì. Qual è questa smisurata minaccia? Putin ha avuto paura di morire di Covid-19 (in quel modo inglorioso in cui si muore di Covid-19) e ha voluto inconsciamente reagire mettendo in moto la macchina della morte gloriosa della battaglia, la morte degli altri ma forse anche quella propria in qualità di smisurato reattore? (sarebbe «leggendaria» la «germofobia di Putin acuita a dismisura dal Covid», Alessandro Giammi, Domani, Sabato 22 marzo 2022, p. 13, Putin si barrica dietro un totem di potere e fragilità maschile). Ancora, Putin invidia inconsciamente la sovranità letale planetaria del virus (suo simbolico concorrente: il virus agisce non-visto, come uno 007 con licenza di uccidere) e avrebbe ingaggiato contro di esso una competizione per l’egemonia della sovranità sterminatrice?
La medesima fretta con la quale si è fatto ritorno alla solita vita ha contrassegnato anche il ritorno alla guerra. La guerra continua = la vita continua. Cosa di più valevole, nel certificare il pieno ritorno alla normalità post-pandemia, di una guerra? Sembra, da questo punto di vista, che Putin abbia messo in moto l’imponente macchina da guerra russa principalmente contro (lo spettro del) virus, ponendogli in seguente ultimatum: o te ne vai o ti estinguerò. Il virus rispose: ma così tu ti auto-annienti. Effetti collaterali, sentenziò lo zar. Da questo punto di vista Putin incarna la ritorsione militare dell’umano contro l’attacco virale e letale del biologico, una proclamazione di superiorità annientatrice dell’umano sul biologico. Ancora una volta, se guardiamo bene, una questione di sovranità, anche se non più e non solo tra stati, ma tra livelli (umano, biologico).
La guerra ripristina la (in)stabile signoria dell’umano sulla morte biologica. Non è la natura, ma l’uomo a maneggiare, con la guerra, il potere di vita e di morte. La guerra è l’invenzione umana per sconfiggere il dominio della morte biologica ed instaurare il regime dell’immortalità. In questo senso guerra e religione sono alleati, perché entrambi perseguono il trionfo della vita sulla morte nell’immortalità. Da questo punto di vista, e andando qui contro Günther Anders, secondo cui la bomba atomica introduce una frattura metafisica irreversibile nel progetto e nella vicenda dell’umano, persino l’estinzione atomica dell’umanità (MAD) si manterrebbe dentro il solco di questo programma, anzi ne sarebbe l’attuazione piena: non la materia biologica, ma l’uomo tecnologico determinerebbe la propria auto-estinzione, trionfando definitivamente sulla morte biologica ed accedendo alla piena immortalità.
Il dio greco che impazzisce prima di distruggere tutto è, come noto, Ercole. Talvolta gli scrittori hanno intuizioni strane. La mitologia è la riserva di caccia dove vanno a raccogliere (o a cacciare) le idee gli scrittori, mentre imperversano sui media gli esperti di ogni ordine e grado. Ercole, alla fine, è ucciso da un morto.
P. S. «La guerra in Ucraina è la prosecuzione della pandemia con altri mezzi», così una ascoltatrice intervenuta oggi, 17 marzo, alla trasmissione radiofonica Tutta la città ne parla (Radio3), presenti, per commentare i contributi degli ascoltatori, Dacia Marini e Luigi Zoja. Detto in una frase, è quello che ho cercato di dire in tutto questo articolo.
P. P. S. Un’altra analogia tra pandemia e guerra. I bambini ucraini sono in DAD. Durante l’ultima settimana di marzo, chi scrive ha ospitato per alcuni giorni quattro profughi, due madri con i loro bambini, uno di dodici e una di otto anni. Il ragazzino di dodici la mattina si collegava e seguiva le lezioni. Lui dall’Italia, altri compagnetti da chissà dove, e da chissà da dove gli insegnanti.