Lo scrittore e le intemperie

Chi segue questo blog sa quanta importanza si riservi al cognome delle figure pubbliche, in ispecial modo di quelle che hanno avuto od hanno un qualche ruolo nella cultura.

Nicola Lagioia, scrittore, curatore editoriale, conduttore radiofonico, direttore del Salone del Libro di Torino, membro della giuria della 77ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, porta un cognome che è equivalente a quello che aveva l’autore dell’Ulysses. Un mandato non da poco.

Breve preambolo che si può anche non leggere

Si erra quando si pensa che le persone più avide siano quelle amanti dei piaceri, cioè i crapuloni. Vi sono persone che non amano affatto i bagordi, e che cionondineno si dedicano all’accumulo di potere, di cui sono altrettanto se non più cupide dei sollazzatori. 

«Quel Cassio ha un’aria magra e affamata. Pensa troppo. Uomini così sono pericolosi», fa dire a Giulio Cesare William Shakespeare, rovesciando il luogo comune, di probabili origini cristiano-ascetiche, per cui sono le persone grasse quelle più avide e più pericolose.

L’avidità di potere, l’accumulo di più incarichi in una sola persona è cosa che viene normalmente associata alla figura del politico, agli smisurati appetiti, a una smania che trascende la logica del desiderio e del suo appagamento. Quando, raramente, si presenta un politico austero e morigerato, che non sembra scialare nel e del potere accumulato, sembra aprirsi una contradizione: non avrebbe fatto meglio a farsi monaco questuante e vivere di elemosine? Il politico è, per definizione, cupido di cariche: quello cui piace godersi la vita impiega le risorse che scaturiscono dal cumulo dei molti incarichi per soddisfare i suoi molti appetiti; quello per cui la vita non è godimento, accumula le cariche e ammassa il potere per poter continuare a detestare e disprezzare la vita in tutta sicurezza.

Una summa divisio come quella proposta è applicabile, per analogia, a qualunque categoria professionale ed umana: c’è il chirurgo buontempone, entusiasta tanto delle viscere che fruga e reseca quanto della trippa che ingurgita in ottime trattorie (non senza un occhio alla giovane infermiera che invita a pranzo), e c’è il chirurgo depresso e disgustato dei mondani piaceri, astemio e con frequenti mal di testa, che suole coricarsi presto subito dopo la minestrina. La medesima summa divisio si può applicare a insegnanti, a assistenti sociali, e in genere a chi si occupa della crescita e dell’equilibrio degli altri; si applica anche a chi si occupa del benessere e del piacere degli altri, come i cuochi e le prostitute, sebbene sia in effetti difficile trovare cuochi che non siano avidi di assaporare la vita, mentre, per converso, è difficile – ma non impossibile – trovare prostitute che lo siano.

In generale si può affermare che in ogni categoria professionale prevalga di gran lunga il carattere allupato su quello rinunciatario.

Quando ci avviciniamo al campo dell’arte le cose sembrano iniziare a capovolgersi. Certamente neppure nel campo artistico vi è carenza di allupati, soprattutto di sesso. Basti pensare a Picasso. Ma, vuoi per un eccesso di pratica che induce la saturazione, vuoi per la postura tragico-mesto-esistenziale che si consegna al pubblico onde sia manifesta la sofferenza che presiede ai parti (e tale postura finisce per infiltrarsi nell’anima dell’artista, il quale finisce per crederci), molti artisti – sia dello spettacolo, sia delle arti figurative, sia della musica, sia della scrittura (la più negletta tra le arti) – finiscono per posizionarsi sul piatto della bilancia dei disgustati dell’esistenza. Eppure essi continuano a lavorare ed anche a sgomitare perché il loro posto non sia preso da un altro. Anche loro accumulano – inviti a festivals, inviti ai centri di arte contemporanea con acronimi sempre più misteriosi e fichi, citazioni in cataloghi, recensioni, interviste, inviti a talk show – ma, sia chiaro, il loro accumulare non è in vista di un greve appagamento dei sensi – come quando, dopo una colossale bevuta di birra, si svuota la vescica: no, il loro accumulare è in vista di una gigantesca visione pessimista, per salvaguardare la possibilità della quale si accumulano le risorse che si accumulano e si fa incetta di occasioni.

Fine preambolo che si poteva saltare

Quando arriviamo a scrittori il cui obiettivo nella vita non è certo quello della villa in Sardegna e dello yatch e del machinone, quando arriviamo a scrittori impegnati nel sociale o la cui stessa arte è orientata al mistero del male, alla ferocia e alla sofferenza umana, e vediamo questi stessi scrittori assommare incarichi, premi e riconoscimenti, non dobbiamo stupirci.

Perché Nicola Lagioia, il quale, come detto, oltre ad essere scrittore che ha vinto (2015) il più prestigioso premio letterario del nostro paese; oltre ad essere curatore editoriale (con un fiuto non comune, va detto: è stato tra i primi, in Italia, ad accorgersi del valore di Roberto Bolano, prima ancora che la fama di questi divenisse planetaria[1]); oltre ad essere conduttore radiofonico di una bellissima rubrica quotidiana su Radio 3, Pagine 3; oltre ad essere (dal 2017) direttore del Salone del Libro di Torino[2], che ha saputo condurre con ardimentoso spirito anche in epoche pandemiche; perché, oltre a tutto ciò, viene nominato membro della giuria della settantasettesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia? Pensavamo che Lagioia fosse ormai un ex scrittore, che la sua carriera fosse oramai tutta orientata al lavoro culturale, e invece ci sbagliavamo:  quando tutti pensavamo che, con tutto il gran daffare nella promozione culturale, egli avesse abbandonato il suo mestiere di scrittore, forse perché sfiduciato dalla scarsa presa sul reale del medesimo, eccolo che ritorna sulla scena originaria e, a mezzo di un’intervista su uno degli inserti settimanali più diffusi[3], annuncia l’imminente uscita del suo nuovo libro (La città dei vivi, Einaudi, in uscita il 20 ottobre 2020), un lavoro a metà tra lo scienziato e lo sciamano, su un efferato caso di cronaca nera degli ultimi anni, che costò la vita ad un giovane ragazzo, ucciso, apparentemente senza valido motivo, da due coetanei. L’intervistatrice chiarisce subito di cosa stiamo parlando, facendo il nome di Truman Capote. (Sky Cinema sta già realizzando una serie tv. L’intervistatrice, al termine dell’intervista, porge l’unica domanda che potrebbe apparire cautamente allarmistica: non è che stravolgeranno il senso dostoevskiano dell’opera, e calcheranno troppo la mano su coca & violenza? Nicola Lagioia rassicura tutti: niente paura, Sky ha accettato che sia io lo sceneggiatore. Quindi, Nicola Lagioia anche sceneggiatore.)[4]

Il Venerdì di Repubblica, 16 ottobre 2020, foto Chiara Pasqualini

Un tale cumulo di cariche non può non suscitare interesse se non addirittura ammirazione (so cosa pensi, lettore: invidiosetto?) Se in un tal uomo, così sovraccarico di impegni culturali e direzionali, vi è ancora la forza, il tempo, l’ingegno, la capacità del romanzo, deve esserci qualcosa di davvero straordinario. E così, più che un avido accumulatore di incarichi, Nicola Lagioia ci appare più come un martire della contemporaneità, come una vittima sacrificale che ci aiuta a distoglierci dall’idea che così tanti riconoscimenti ed emolumenti possano essere fonte del-lagioia, e allora tanto vale che ciascuno si rassegni al suo ruolo invisibile di scrittore fantasma, ed anzi ne goda, perché il volto iconico, smarrito, macilento, cosa viene a dirci se non che era meglio quando si viveva e si scriveva nell’oscurità, sebbene non si arrivasse a pagare in tempo le bollette della luce?

Ora, sarà senz’altro vero che siamo in presenza di una delle migliori menti della sua generazione[5], sarà senz’altro vero che egli abbia un grandissimo sangue freddo per trasvolare dai gran galà del Lido o del Lingotto allo squallore del luogo del delitto, che – stando alla sua stessa rivelazione – ha avuto modo di visitare di persona con tanto di autorizzazione dell’autorità inquirente; sarà tutto vero, ma una cosa è altrettanto certa: il cumularsi di tante cariche in un sol uomo fa venire alla mente l’immagine di quei Titani che sorreggono il mondo che li sta schiacciando con il suo immane peso. Si capisce, dunque, quell’aria patita, contrita, niente affatto gioiosa, niente affatto allupata, niente affatto vorace. Tutto quel peso immane serve a confermarlo nella sua idea che nella vita non ci sia poi molto di cui scialare, e lo stare al centro di tutti quei livelli di potere culturale, editoriale, cinematografico non è altro che l’accumulazione cui tende il politico triste: una barricata che si erige, una trincea che si scava, per meglio difendere – ma stando al riparo – il sentimento tragico della vita.

L’autore della presente nota ha letto l’intervista-lancio di Nicola Lagioia per puro caso. Aveva acquistato il Venerdì di Repubblica (cosa che non faceva da oltre venti anni) ad altro fine, per amore di Roberto Bolaño. Ascoltando, come quasi ogni mattina, la rubrica radiofonica di cui abbiamo detto, e di cui il nostro è conduttore periodico, aveva orecchiato di un articolo dello scrittore catalano Javier Cercas, nel quale egli riandava alla sua amicizia/inimicizia con lo scrittore di origini cilene, trapiantatosi in Catalogna e morto nel 2013. Per chi non lo conoscesse, Bolaño è uno dei santi e dei martiri della letteratura contemporanea, non meno grande di sant’Agostino come scrittore. In lui, la vita coincide con l’opera. In una sua intervista, Bolaño dichiara:

«[…] Credo che gli scrittori debbano rifiutare qualunque vincolo con lo Stato, questo tipo di relazioni non da nessun frutto. Io mi sono formato in una famiglia della classe medio bassa, è da quando avevo 16 anni che scrivo, e non ho mai chiesto aiuti allo Stato. Ho vissuto alle intemperie, all’inizio è scomodo, ma alla fine sei più libero, la qual cosa è molto piacevole».[6]

Abbiamo detto che Lagioia è uno dei maggiori supporter italiani di Bolaño, che ha con lungimiranza definito il più grande scrittore per il ventunesimo secolo. Non siamo così ingenui o bacchettoni o semplicemente stupidi da ritenere che se uno ama Bukowski debba sfasciarsi di birra, se uno ama Emily Dickinson debba segregarsi in casa per tutta la vita o se apprezza Ezra Pound debba fare il saluto romano o se ama Oscar Wilde… Beh, insomma. La letteratura è una magia che consente a individui con vite – e conti correnti – diversissimi di convergere su una medesima immagine estetica. È probabilmente, la letteratura, l’antidoto più potente che ci sia contro l’odio e l’invidia sociale. È forse per questo che in questi tempi di scarsa autorevolezza della letteratura vi sia un così possente odio social in giro.

Non è una questione di stili di vita, di case protette e ben riscaldate o di intemperie. Gli scrittori vivono come possono e vogliono vivere. Se Proust non avesse frequentato i salotti e la nobiltà di Parigi non avremmo avuto la Recherche, dopotutto. Se Moresco non fosse stato prima in collegio poi militante rivoluzionario e non avesse vissuto per anni al freddo di una mansarda non avremmo avuto, senza la Chiesa, senza il Partito e senza sorella Povertà I canti del caos. (Lagioia, va detto, non risulta avere un posto fisso, né all’università né in qualunque altra struttura pubblica o privata, e dal nostro punto di vista ciò è un merito).

È solo una questione di gioia, di joyce. Vivere alle intemperie all’inizio è scomodo, ma alla fine sei più libero, la qual cosa è molto piacevole. E nella scrittura si sente, altro che se si sente.


[1] Si rimanda alla notevole lectio su Bolaño, Perché Roberto Bolaño è il più grande scrittore per il ventunesimo secolo. Anche l’autore di questo post ha contribuito con un suo intervento audiovisivo (2013) a invitare alla lettura di Bolaño (Firmamento provvisorio – Roberto Bolaño in quanto poeta morto), con un numero di visualizzazioni assai molto, molto più modesto della lectio di Lagioia. La convergenza su Bolaño sta qui a significare che sia Lagioia che l’autore di questo post hanno gioito nel leggere un medesimo autore, nella fattispecie Bolaño, e che talvolta ciò significa essere, anche se per un piccolo tratto, fratelli.

[2] Non si vuole qui biasimare nessuno, anzi va ricordato che anche il precedente direttore del Salone, Ernesto Ferrero, è stato, oltre che traduttore e autorevole curatore editoriale, anche scrittore in proprio. Ha vinto anche lui lo Strega, in costanza di carica (2000), questo va pure detto, e inoltre ha anche lui il suo talismano, il farfallino, così sabaudo e anacronistico, commuovente segno di distinzione rispetto all’anello di pietra nera, che Nicola Lagioia porta all’anulare destro, in inequivocabile attitudine borbonico-sciamanico-contemporanea. Sui talismani si gioca la guerra dell’auto-rappresentazione.

[3] Il Venerdì di Repubblica 16 ottobre 2020, Feroci a loro insaputa, di Simonetta Fiori. La testata per la quale Lagioia stesso collabora o ha collaborato.

[4] La foto che lo ritrae in una sorta di spoglio vestibolo con la parete di fondo affrescata e scrostata, seduto, in posizione dignitosa ma assente, su un divano di pelle in stile, in una luce lievemente catacombale e underground è perfetta. È il laboratorio di una icona pop, come fu D. F. Wallace. Come ogni icona, ha un tratto distintivo: Wallace aveva la bandana, Lagioia un anello di pietra nera (per esulare dalla letteratura, e verificare l’assunto su altro terreno, Che Guevara ha il sigaro, Sandro Pertini la pipa.) L’elemento magico sciamanico, il talismano, come detto alla prec. Nota 1. Lagioia può stare bene tanto in un salotto dell’upper class quanto in un tinello delle case popolari, ma altrettanto, e soprattutto, bene in una discoteca underground. Lo scrittore un po’ scienziato un po’sciamano trae dal rigore della letteratura la scienza della narrazione, mentre dalla musica rock lo sciamanesimo. Con gli occhialoni di osso nero, Lagioia somiglia a un leader di un gruppo rock anni ’80, che si è separato dal gruppo. Un rock newyorkese però, raffinato, non trucido come quello dei pub inglesi. Lagioia ha un’estetica rock diametralmente opposta a un Nick Hornby, tanto per intenderci.

[5] In questo modo si era espresso lo stesso Nicola Lagioia, in qualità di direttore del Salone di Torino 2019, riferendosi non ovviamente a se stesso, ci mancherebbe, ma agli autori invitati – da Lui – al Salone, che, a dir suo, rappresentavano il meglio del meglio delle menti letterarie e intellettuali del pianeta. Il Salone, dunque, come aeropago delle menti più eccelse del momento.

[6] Intervista di Duina Miravet, in rivista Cuadernos Hispanoamericanos, Madrid, ottobre 2000, in Bolaño. La prossima battaglia, Medusa, 2013).

La natura della U

È impossibile non notare, talmente è evidente, la abnorme quantità di «u» presente nei versi iniziali del poema De rerum natura di Lucrezio. Non solo. Nel primo, celeberrimo verso, l’accento quantitativo lungo (esemplificativamente segnato, nel testo sotto riportato, in grassetto e sottolinea) cade quattro volte su sei sulla «u» (divomque è una lezione equivalente a divumque); indugia sulla «u» di Venus nel secondo verso; sulla «u» di navigerum del terzo verso; sulla «u» di concipitur al quinto e ancora al quinto sulla «u» di lumina; cade sulla seconda «u» di fugiunt; prolunga a dismisura il sintagma adventumque tuum, ove la lunga cade consecutivamente su due «u», caso rarissimo, credo, forse un apax legomenon; e suggella con tre cadute il nono, meraviglioso verso, cadendo sulla «u» di placatumque, di diffuso e di lumine. L’ultima vocale di questo primo quadro dell’avvento di Venere si chiude con la «u» di caelum.

Aèneadùm genetrìx, | hominùm divòmque volùptas,

àlma Venùs, | caelì subtèr | labèntia sìgna

quaè mare nàvigerùm, | quae tèrras frugiferèntis

còncelebràs, | per tè quoniàm | genus òmnanimàntum

còncipitùr | visìtque exòrtum | lùmina sòlis:

tè, dea, tè fugiùnt | ventì, te nùbila càeli

àdventùmque tuùm, | tibi suàvis daèdala tèllus

sùmmittìt florès, | tibi rìdent aèquora pònti

plàcatùmque nitèt | diffùso lùmine caèlum.

https://www.youtube.com/watch?v=WRQTb9-unRE (fino a 0:37)

Perché così tante «u», un così cupo suono accompagna la presentazione e l’avvento di questa dea, alma Venere? La nascita botticelliana è di là da venire, nei secoli venturi. Vi è una tenebrosa vicenda alle spalle di questa dea, e le «u» ne custodiscono la reminiscenza. Avanzo un’ipotesi: non è possibile comprendere la potenza eversiva dell’inno lucreziano alla voluptas, se non si ha presente il dominio plurisecolare del culto dei morti e degli eroi che ha intriso la cultura romana arcaica via Etruschi. Quello che Lucrezio si ripropone, preannunciandolo già dai primi versi del suo poema filosofico, è una rivoluzione spirituale e culturale, un ribaltamento di paradigma, come sarà quello della predicazione di Cristo, con il suo motto «lasciate che i morti seppelliscano i morti».

Lucrezio canta la legge generatrice cui tutto l’universo, nulla escluso, soggiace. Una potenza universale e cosmica. Ma, e qui sta il punto della nostra osservazione, perché in un inno che apre alla potenza generatrice e rasserenatrice della voluptas, luminosa e vitale, ci sono così tante «u», vocale buia, infera, mortifera? Un filologo meticoloso, e quale filologo non lo è?, partirebbe dalla struttura fonetica del termine latino voluptas, per evidenziare che in esso c’è la predominanza delle vocali scure, «o» e «u», sulla vocale chiara, «a»,[1] la predominanza delle vocali chiuse su quelle aperte.

Uno psicologo del profondo, qualunque cosa possa significare l’oggetto dello studio di questo professionista, direbbe che la voluptas che governa tutto l’universo trae la sua spinta da forze sotterranee, oscure, inconsce. La chiamerebbe libido (che in latino arcaico è lubido). Niente, quindi, di cui stupirsi, in fondo, se non che Lucrezio avrebbe capito questa cosa, questa potenza, con duemila anni d’anticipo su Freud.

Senza quella «o», ma soprattutto senza quell’abisso oscuro della «u» (per incidens, occorrerebbe studiare il valore simbolico del segno «u», raffigurazione grafica di una cavità, un pozzo o un abisso), avrebbe la potenza primaverile della voluptas, che è capace di disperdere le tormente e i nembi e di riportare il sereno e il sorriso dell’aurora sulle acque placate, la medesima spinta, la medesima profonda motivazione?

E allora, direbbe l’esperto in filosofie orientali: vi stupite? Molto prima di Lucrezio in Oriente si era capito chiaramente che l’uno è la risultante di due principi tra loro antagonisti, yin e yang. Bella scoperta, Lucrezio!

Leggo ora che Antéros, un’associazione GLBTI  di lesbiche, gay, bisex, transgender e intersex (la quale, più appropriatamente, vorrebbe che la propria sigla fosse LGBTQIA+) ha introdotto nel suo statuto il neologismo sociu, per chi non è né un socio (maschio) né una socia (femmina), perché « l’uso della “u” rientra tra i vari dispositivi utilizzati per neutralizzare il genere […]».[2]

Proviamo ora a trarre qualche conclusione. Le interpretazioni canoniche dell’incipit lucreziano puntano tutte dritte verso il riconoscimento che Alma Venere spazza la tempesta e riporta il sereno, come l’alba porta via la notte e il sole scaccia le tenebre. Il principio ordinatore del mondo fa chiarezza su una precedente confusione, su un caos originario. È qui all’opera una tipica reinvenzione della tradizione in chiave rinascimentale e botticelliana.[3] Se le cose stessero così, però, la fonetica dell’incipit lucreziano sarebbe tutta orientata alla luminosità, come avviene nelle quattro stagioni di Vivaldi, dove i toni gravi della morte raccontano l’inverno e quelli acuti e gioiosi, i trilli, la primavera, la rinascita.

Ma, come si è visto, così non è. L’avvento di Venere (adventuumque tuum) è impastato di questa misteriosa vocale che è la «u». Che cosa porta questa vocale dentro e nel cuore stesso dell’attrazione universale dei sessi? Un principio neutrale, forse? Un buio originario? Un qualcosa che resta attaccato all’estrinsecarsi felice della potenza generativa come una macchia cristiana o stoica o come un’ombra junghiana? Ricaschiamo nell’invenzione della tradizione, così.

E se, fuoriuscendo dalla tradizione culturale, vuoi filosofica, vuoi spirituale, vuoi religiosa, vuoi psicanalitica, si trattasse dell’eco fonetico dell’antimateria? Della materia oscura? In questo senso il genere (il maschile e il femminile, yin e yang) è neutralizzato all’origine. Hanno ragione u LGBTQIA+. E l’origine dura anche dopo. Basta vegliare le notti serene, e quella U si sente, si sentono eccome le radiazioni cosmiche di fondo. 

Quindi un viaggio lisergico dentro la materia profonda e dentro l’antimateria, è quello che forse inaugura Lucrezio con le sue insistite U, non meno veggente in questo di Rimbaud, per spazzare via l’origine, l’archè, dalle divinità sessuate, Venere inclusa, dal culto dei morti e degli eroi, e retrodatarla a una dimensione pre-umana, cosmica, atomica, Venere è partorita dall’energia, e l’Energia è = U, non = E, come vorrebbero Rimbaud e Einstein.


[1] Nel celebre sonetto di Arthur Rimbaud, Vocales (Vocali), ove il poeta stabilisce delle corrispondenze tra le vocali e i colori, alla A è associato il colore nero, mentre alla U il verde. Occorre notare che nella fonetica francese il suono della U è ben diverso da quello della U italiana, e si sostanzia in una I pronunciata con le labbra impostate per la U, la «u turbata». La U francese, infatti, non è collocata, come invece nella fonetica italiana, all’ultimo posto nella gradazione vocalica: la sequenza fonetica francese è A E I U O. Il termine oppositivo della A, nel francese, è la O, che infatti anche per Rimbaud assume il colore più scuro dello spettro, che è il blu, se si eccettua il nero. Il problema sarebbe l’associazione della A al nero. La A è il primo suono che emettono le corde vocali del neonato, e il venire alla luce è ancora un essere impastati di buio, d’accordo. Rimbaud vuole evidentemente legiferare una sua diversa, e originaria, associazione cromatica, fondare una nuova legge percettiva. La A è una vocale che, per essere la prima della scala labiale (il dolore come il piacere hanno in essa il veicolo fonetico più immediato), include tutte le possibilità di filiazione, come il nero include tutti i colori dello spettro. Il nero della A rimbaudiana assomiglia alla saturazione della luce e dei colori, come quando d’estate al mare si chiudono gli occhi sotto il sole e tutto appare prima rosso, poi quasi nero.

[2] Figure della differenza, settembre 2019, n. 3.

[3] A T.S. Eliot si deve il concetto di tradizione letteraria come eredità a due sensi di marcia, che dal passato arriva ai nostri giorni, ipotecandoli, e che dai nostri giorni risale, come un’anguilla, al passato, rifecondandolo.

L’errore di Moresco

[Antonio Moresco è un eretico della letteratura. Le considerazioni che seguono sono chiose a Lettere a nessuno e a Gli esordi]

Se Moresco ha commesso un errore, questo è di aver preso sul serio la letteratura. Ha bussato per anni, con la pazienza di un’ape operaia, alle porte girevoli dell’editoria, sebbene essa producesse principalmente merda e lasciasse transitare, da quelle porte scorrevoli ma non soccorrevoli, le mosche cocchiere, le api con il miele, no.

Ha bussato per anni, Moresco, con la pazienza, dicevamo, di un’ape industriosa e infaticabile. Di un’ape operaia che, ostinatamente, scambia per un’arnia un cesso pieno di merda.

Se un errore di Moresco vi è stato, l’errore è stato di aver preso sul serio, troppo sul serio, la letteratura, al punto di scambiare un merdificio per un mielificio. Un maleficio per un mielificio, anche.

Se c’è un errore di Moresco, l’errore è quello di non aver preso sul serio la letteratura. La letteratura è una cosa seria, Moresco: la letteratura sono cravatte, bonifici bancari, viaggi in Pappagonia pagati per scrivere un reportaggio, il conto delle pompe funebri per il funerale dell’anziano padre odiato e poi rimpianto, l’asilo nido dei figli a € 700,00 al mese fino alle 15.45, la letteratura sono i pannolini, i rimborsi spese, il gettone di presenza, il mutuo per la casa, il mac su cui scrivere il nuovo romanzo. Vai a fare il frate in convento, Moresco, vai a fare il mendicante scalzo in Africa, frate Moresco del cazzo.

La letteratura è una cosa seria. La letteratura enno soldi.

Moresco e la rivoluzione 1.

Se una colpa ha Moresco, è quella di aver preso sul serio la rivoluzione. Quando tutti la abbandonavano, lui, come Enea con l’anziano padre Anchise, se l’è caricata sulle spalle, e l’ha portata in salvo attraverso gli incendi dell’ideologia e l’ha nascosta, per proteggerla, sotto il velo di parole come oltranza, radiante, inarreso, prefigurazione, ecc. Naturalmente i veri rivoluzionari irriducibili non la presero bene, non ci misero molto ad additare un altro traditore, un altro reazionario, un altro disertore.

Se Moresco ha una colpa, questa è di non aver preso sul serio la rivoluzione. Mentre la nave della rivoluzione si fracassava sugli scogli, Moresco si è illuso che non solo i marinai, ma anche gli ufficiali di vascello, i nostromi e financo gli ammiragli si buttassero a mare e buttassero a mare le loro uniformi, i loro gradi e le loro spalline, le loro dottrine e le loro mappe di navigazione.

Si è sbagliato, Moresco, perché la rivoluzione è una cosa seria, e quantunque la nave sia affondata gli ufficiali, i nostromi e l’ammiraglio continuano ad emanare direttive ai naufraghi dalle tolde immateriali, ma ben remunerate, delle università e delle case editrici.

La rivoluzione, Moresco, è una cosa seria.

Moresco e la rivoluzione 2.

Moresco non smette di girarle attorno, le cambia solo il nome: sostantivi come ferita, lacerazione, collasso seguiti da disseminazione, irradiazione, binomi come lacerazione-moltiplicazione, ma anche aggettivi sostantivati come impensato, incalcolato, inconciliato, inarreso.

Moresco e la conoscenza del mondo

Uno scrittore, per essere tale, credo che fondi il suo essere tale su due pilastri: una grande sventura e una vasta conoscenza di un ambiente umano.  La sventura può essere tanto esterna quanto interiore, poco cambia. Quanto alla conoscenza degli uomini, invece, una lunga esperienza in qualunque umano consorzio, vuoi il salotto per Proust, vuoi il seminario per Joyce, sono basilari. Per Moresco, senza che ciò dia adito a inutili equipollenze, la lunga esperienza in un’organizzazione della sinistra extra-parlamentare è decisiva. Da lì vengono il pullulare dei caratteri, da lì vengono le storie.

Moresco e la metrica

Leggendo Gli esordi penso di aver scoperto una cosa.  Si tratta di una scoperta talmente evidente che ai critici sarà sfuggita. Gli esordi non è un romanzo ma è un poema costruito in larghissima parte su uno schema metrico composto di due settenari o di un quinario e un endecasillabo. Quasi tutti i periodi terminano con un endecasillabo. Mi sono accorto di ciò perché notavo che mi distraevo dall’immagine ma venivo comunque trascinato ad andare avanti nella lettura da un qualcosa di meccanico, che poi ho individuato essere pura e semplice metrica.  

Moresco e la musica

Sarà allora per quanto detto sopra che Moresco scrive (Lettere a nessuno) che durante la stesura, durata quasi quindici anni, de Gli esordi non poteva ascoltare la musica, l’ascolto della musica lo disturbava, lo distoglieva, interferiva con la sua musica.

Moresco è un pesce?

Moresco è un pesce fuori dell’acquaio letterario italiano. Sta fuori dal vetro, guarda fisso, non si sa come respiri, ma non muore.

Moresco e i vip

Una cosa che si è poco rimarcata nella poetica di Moresco sono le non rare agnizioni di scrittori famosi o di critici rinomati. Sono apparizioni improvvise, così «impensate» da risultare decontestualizzate, dove emerge, principalmente, un disallineamento tra lo scrittore celebre e quello in carne ed ossa che Moresco vede apparire dinnanzi ai propri occhi. Si tratta di disincontri sempre deludenti, dove solo una cosa si rafforza, la convinzione che per uno scrittore la celebrità e la fama non è una fortuna, ma una sciagura. Il riconoscimento di Abraham Yehoshua a Milano, in viale Hoepli, di fronte all’Hotel de la Ville… (Lettere a nessuno, p. 618). Moresco non manca, più in generale, di registrare il riconoscimento per strada di personaggi famosi, come nel caso del sindaco Pillitteri, per esempio…

Moresco e il papa

… e la visione o apparizione di Woityla, visto di scorcio, incorniciato in una finestra aperta della diocesi di Milano, nel retro dell’edificio, in una notte afosa d’estate, un ritratto tra l’ultimo Tiziano e Francis Bacon, colto mentre prende congedo dai pochi privilegiati fedeli rimasti a salutarlo prima che si corichi…

Moresco davanti all’obiettivo

Non so quanti critici, di quelli che si sono occupati di lui, avranno notato che nelle foto che lo ritraggono Antonio Moresco non guarda mai in camera, i suoi occhi sono abbassati, in un atto di autoprotezione, si direbbe, di smarrimento lievemente circospetto, di infinita mestizia, soprattutto, che contiene la verecondia, l’imbarazzo, la timidezza e la compassione, virtù negative e oppositive alla sfrontatezza dei selfie di oggidì.

Ma il punto non è solo questo, non è questo il problema.

Se si guardano bene queste foto, si nota che dietro le due lenti rotonde i due occhi prendono direzioni ed espressioni non convergenti. Un occhio è decisamente semichiuso, la palpebra essendo calata di un 75%, si direbbe quasi un qualcosa di congenito; l’altro occhio sembra un po’ più all’erta, sebbene sia spalancato solo come una fessura, al 35% delle sue possibilità. Si tratta di un’allerta non meno vigile sebbene non proclamata. Lo sguardo di Moresco non è unidirezionale. Il padre Priore de Gli esordi ha due teste, due facce. Ecco, si potrebbe dire che la figura del Priore, più che grottesca, sia un autoritratto. Normalmente, e ipocritamente, l’integrità dell’io abbisogna, per consistere in se stessa, della deformazione grottesca del non-io, dell’altro. È solo un’idea, forse sbagliata, ma è probabile che i veri scrittori siano coloro che riescono a lavorare di sbalzo con le deformità non degli altri, ma con quelle di se stessi.

Essere o non-essere

Nella mischia tra l’essere e il non-essere, in cui, che lo voglia o che non lo voglia, si trova invischiato ogni scrittore, e forse ogni essere umano, la posizione di Moresco è singolare. Egli, come molti scrittori aspiranti alla pubblicazione, ha dovuto incassare, come è noto, una sfilza di rifiuti editoriali. A differenza di molti scrittori, anche di quei pochi che alla fine hanno incassato un contratto, Moresco ha fatto, della sua odissea editoriale durata quindici anni e forse più, materia della sua scrittura.

Nell’altalena tra l’essere e il non-essere Moresco non ha molta scelta: il suo stato, la sua posizione è inchiodata al non-essere, all’altalena in posizione statica, rimuginativa, rammemorativa, ebetudinaria. Per spiccare i folli voli della fantasia, l’altalena di Moresco deve restare in posizione di riposo, orizzontale (solo così per lui è possibile sprofondare nella verticalità). Moresco sembra come un bambino imbronciato, che occupa l’altalena, la sequestra ad altri bambini che fremono per librarsi avanti e indietro, ma resta fermo.

È naturale, normale, che l’editore diffidi di uno scrittore come Moresco.

Perché però Moresco sta fermo su quell’altalena? Se scrivi e lo fai in vista della pubblicazione, è evidente che accetti l’altalena, il suo oscillare vertiginoso tra il non-essere della stasi e l’essere dello slancio (e del lancio commerciale). Moresco, come ogni innamorato deluso, si nasconde al parco e medita sulla sua sventura seduto fermo sull’altalena. Lui aveva dell’editoria un’idea salvifica, gloriosa ed eccelsa, propulsore lei dell’incalcolato, dell’impensato, dell’inarreso, della moltiplicazione, e invece si è dovuto amaramente ricredere. Pensava, Moresco, che essere pubblicati fosse davvero prendere lo slancio e librarsi sul firmamento dell’Inconciliato, qualunque cosa ciò possa significare. Ha atteso, Moresco, quasi venti anni per questo lancio, ma quando alla fine, sulla soglia dei quaranta anni di età ciò è avvenuto, è stata una catastrofe, in senso etimologico. Pensava, Moresco, che all’apice dell’oscillazione dell’altalena vi fosse la pienezza del non-essere, della disseminazione al suo grado più esteso, l’irradiazione, un principio di r […]; e invece ha dovuto constatare, Moresco, che lassù non c’è tutta quella vista che si pensa, che con la stessa velocità alla quale si ascende si ridiscende, e che i salotti, le cene, i festival, i convegni non sono tutta questa goduria e pienezza del non-essere…

Eppure Moresco, e non vuole essere un paradosso questo, è il cantore più puro che l’editoria, l’industria editoriale contemporanea abbia mai avuto. Lettere a nessuno sono lettere d’amore, dichiarazioni d’amore verso l’editoria, gli editori e gli editors. Più si allontanano da lui e più lui, come l’utopia di Galeano, si mette in cammino. Mai l’editoria era stata cantata, prima di Moresco, per quello che davvero è: la terra promessa. Quando poi esausto, stremato è approdato a tale terra promessa, come ogni innamorato finalmente appagato e corrisposto, è rimasto deluso, Moresco.

In cima all’altalena, Moresco sperava, segretamente lo sperava, ma era stata, questa, la sua speranza più grande, Moresco sperava che il mondo, il parco pubblico, si mettesse anche lui a girare, si inclinasse paurosamente, come paurosamente inclinato è spesso il mondo delle sue visioni. Che in cima all’altalena il non-essere, in quel punto immobile ed eterno della stasi aerea, riprendesse i suoi inalienabili diritti. Macché, niente da fare. Il mondo, il parco, il giardino dell’eden dell’editoria restava fermo, tetragono, inconcusso.  Non si spostava di un millimetro. Allora capì, Moresco, che non era quella la cosa che aveva tanto desiderato in cuor suo. Capì che l’editoria lo aveva truffato, che lo aveva sì pubblicato ma non lo aveva seguito, che il non-essere era appannaggio esclusivo di essa; non aveva, Moresco, per anni e anni, per notti e notti battuto sulla macchina da scrivere per vedersi sottrarre quel privilegio di immobilità, quella sospensione dell’essere che aduna tutte le tempeste.

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Foto di copertina Antonio Moresco, 2019, by L’Errore di Kafka.

Audi

Esiste un club non dichiarato dei possessori di automobili Audi. Avere una Audi non è soltanto possedere una bella macchina. Avere una Audi significa appartenere ad una élite che si connota per precisione, potenza, determinazione, chiarezza di intenti, scelte qualificate, eleganza senza ostentazione (ostentazione inestirpabile da altre auto di pregio, come Porsche, Jaguar, Rover e Ferrari).

Avere una Audi significa appartenere ad una vasta minoranza globale che sceglie il buono e scarta il troppo. I quattro cerchi intrecciati del logo ci parlano di competizione olimpica e di onesta e meritata vittoria, un fair play che non si ritrova, per esempio, nel mirino della Mercedes, reminiscenza bellica di un marchio amato da Hitler.

Sui sedili di una Audi non riusciamo ad immaginarci macchie di bibite rovesciate, cracker smollicati da bambine capricciose, buste di patatine,  e sui tappetini non riusciamo a pensare che si siano depositati detriti, peli, capelli, caccole secche, fazzoletti da naso intonsi. L’interno delle Audi è immacolato, integerrimo.

Con il doppio tubo di scappamento Audi manda un monito di quieta potenza a tutte le altre vetture, Wolkswagen, Peugeot, Citroen, Fiat, e finanche alle Volvo e alle ipertecnologiche auto nipponiche.

Audi avanza con disciplina nel traffico urbano, si ferma diligentemente alle strisce pedonali. Onora i semafori arancioni. Eppure non dimentica mai la sua potenzialità e la sua potenza da primo della classe, pronta a scatenarsi sulle strade della notte, in latino Audi significa «Ascolta!», il messaggio è chiaro e distinto, guai a intralciare il quieto procedere dell’Audi appena fuori dagli ingorghi cittadini, la sua discrezione non ci mette niente a convertirsi in soverchiante potenza, a lanciarsi in missile stradale, dionisiaco e giubilante potere della tecnica superiore e perfetta.

Lo senti?

 

What We Talk About When We (Men) Talk About Fica

Mi corre l’obbligo (espressione che, sotto la scorza del linguaggio burocratico, enuncia l’assolvimento di un dovere di cui si farebbe volentieri a meno), a questo punto della mia vita, di precisare che cosa intendono gli uomini (i maschi) quando designano una donna con il termine fica. («È una gran bella fica», «È un pezzo di fica», ecc.).

Nel termine fica, applicato all’intero, è insita una svalutazione al quadrato. L’impiego di una metafora attinta al mondo vegetale (come fava o pisello per l’organo sessuale maschile) segnala innanzitutto una degradazione. Tale degradazione riguarda anche il maschio. L’impiego poi di questo termine degradante, che designa una parte anatomica, per significare l’insieme della persona, o quantomeno l’insieme anatomico di essa, introduce la svalutazione di secondo livello, sotto forma di metonimia sub specie di sineddoche. (L’espressione maschile di cui sopra equivale quindi filologicamente a dire: “Che gran pezzo di sineddoche!”) Questa seconda degradazione concerne quasi esclusivamente la femmina: di un uomo attraente si dice che è un gran figo, non che è un bel cazzo.

Perché il ricorso a questa figura retorica svalutativa?

Dico subito che la funzione di questa figura retorica è protettiva.

Il termine fica è una difesa, una barriera eretta dal maschio, erettore per eccellenza, per ripararsi dalla forza trascinante e terrifica del volto della donna.

La potenza massima della donna risiede non nel tesoro su cui ella è seduta, come amenamente si dice, ma nel suo sguardo, cui fanno contorno il naso, le labbra, il sorriso, le guance. Come non convenire con Flaubert, quando scrive che «più vado avanti e più trovo ridicola l’importanza attribuita agli organi urogenitali?»

Sembra agire nello sguardo femminile, risiedere in esso, sprigionarsi da esso una forza di attrazione magnetica, una calamita, e una calamità, che risucchia e cattura lo sguardo pusillanime del maschio che si dà per ciò stesso alla fuga giù per i fianchi passando rapidamente per il punto vita e scendendo fino alle caviglie per poi risalire guardingo e occhiuto ai glutei, al seno e alle spalle. Anche se ciò può apparire un rovesciamento della realtà, l’occhio allupato del maschio, che si tuffa nelle tette o che si insinua fra le cosce ben tornite, è una distrazione, una sottrazione, una fuga dello sguardo mascolino dal quel centro incandescente e ustionante che è il volto della donna. Nella fierezza, nella dolcezza, nella purezza dello sguardo femminile abita, agli occhi del maschio, una insostenibile responsabilità, incisa sulla fronte tra le due orbite oculari: la responsabilità di aver accettato di detenere quei micidiali e sconvolgenti ordigni di seduzione e di lussuria, inconciliabili con quegli occhi e quello sguardo puro, che scatenano, come una reazione atomica, la furia del desiderio del maschio.

Il maschio impazzisce non per la fica, ma per l’incredibile, insopportabile idea che quello sguardo così puro possa essere responsabile di un organo del desiderio così turpe. Tra purezza e contaminazione il maschio non ci si raccapezza più, e va in tilt. Ecco.

Non si vuole ripetere ancora una volta, come è stato detto, che immondi siano i lombi di donna.

Si sta dicendo di quanto santa, buona, naturale, timida, ritrosa sia la fica, e con essa il culo, e le tette, e di quanta insopportabile, ambigua e turpe energia si racchiuda invece, agli occhi del maschio, nello sguardo limpido della donna, come l’energia che si racchiude in un atomo di uranio.[1]

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[1] La riflessione che hai letto si colloca nell’alveo delle esplorazioni condotte da varie parti sulla insostenibile pesantezza dell’essere maschio, ampiamente registrata anche da Edoardo Albinati nel suo romanzo-saggio La scuola cattolica. Per fare solo un esempio, Albinati giunge, dopo pagine e pagine di peripezie narrativo-saggistiche, a rovesciare un assunto dato per assodato come è assodato che la pioggia bagna: l’invidia del pene. Egli sostiene che avere il pene è peggio che non averlo, e che quindi non c’è nessuna invidia (p. 301). Sulla impreparazione del maschio a fronteggiare il sesso femminile si rimanda alle pagine 920 passim e 980 (Il culto del fallo), passim.

Sulla santità di tute le parti del corpo umano, sia esso maschile che femminile, non escluse quelle genitali, il riferimento ad Allen Ginsberg è ineludibile.

Il tema di Perseo e Medusa è il motore mitologico di questa riflessione. Se guardiamo bene alla celebre scultura di Benvenuto Cellini non è difficile constatare che gli occhi di Perseo sono rivolti verso il basso, non c’è aria di trionfo nel suo sguardo: è già orbo di ciò che ha estirpato, e cioè dello sguardo, spento, di Medusa. Hanno perso tutti e due.

«[…] il fascino per noi Occidentali, eredi incurabili del “manicheismo” agostiniano, risiede appunto nella sembianza austera del volto quando dissimula – ed ecco quel che conta – delle grazie proprio per questo più esuberanti.[…]» (Pierre Klossowski, La revoca dell’editto di Nantes: le leggi dell’ospitalità, p. 18).

Infine: il titolo di questo post è una giocosa parodia del titolo di una celebre raccolta di racconti di Raymond Carver. Gli uomini vorrebbero parlare d’amore, ma parlano di fica. Perché?

Che uomo sei

Ci sono uomini che dichiarano di essere innamorati nello stesso modo in cui si dice al medico di sentirsi male, ci sono uomini che dichiarano il proprio amore con lo stesso pentimento (preventivo) con cui si confessano i peccati al proprio confessore, ci sono uomini che annunciano il proprio desiderio con la stessa baldanza con la quale si annuncia un trionfo, ci sono uomini che hanno un’aria di vaga minaccia quando confessano il loro amore, ci sono uomini che dicono di sentirsi tanto innamorati con la stessa aria felice ed ebete di chi proclama di essere finalmente guarito da una  lunga malattia,

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Che cos’è (oggi) la letteratura

Il paesologo della Rete oggi se la prende con la Rete. Dice, più o meno, che la letteratura è finita intrappolata nella rete, come un’orata. Ti capisco, Franco, ma suvvia! La Letteratura è scomparsa da un pezzo, e forse non è mai esistita come qualcosa di segno positivo. È stata sempre un’eccezione. Secondo te ai tempi di Omero tutti perdevano tempo ad ascoltare gli aedi? Eccome no. Sì, ok, c’era tanto silenzio, allora, si poteva ascoltare la risacca dei flutti egei, mentre oggi tutto questo chiasso… Bernard Malamud, grandissimo narratore, imputava alla televisione la colpa dello scarso successo dei suoi ultimi romanzi. Dopo Malamud è arrivato D. Foster Wallace, al quale la televisone, detto tra noi, fa una ricca sega. Insomma, con la letteratura come fai sbagli. Lei si acquatta dietro la porta e quando meno te lo aspetti ti pugnala alle spalle, ti lascia stupefatto. Tranquillo, Franco, la letteratura non muore mai. Anche perché non è mai nata. È un paesaggio che non si lascia irretire.

Che cos’è oggi la letteratura / Franco Arminio / Doppiozero