Quello che
sto per scrivere abbisognerebbe di un disclaimer, anzi di un disclaimer doppio,
sia per la possibilità di fraintendimento sia per il mestiere di libraio svolto
dal sottoscritto nella precedente esistenza, ma tutto sommato mi risparmio questo
mettere avanti le mani e lo risparmio all’ipotetico lettore.
Senza preamboli, adunque, tutta la mia solidarietà, ovviamente, alla libreria romana La pecora elettrica.
Ma a cosa
serve una solidarietà così espressa? Certo, molto più sensata è una raccolta di
fondi, utile a risollevare il morale dei gestori e a risarcirli, almeno in
parte, dei loro esborsi date le fiamme. Che ben vengano gesti di aiuto e di
concreta solidarietà. Ma non è questo il punto.
Non volevo
fare nessuna premessa, ma mi accorgo che alla fine l’ho fatta. Le mani avanti
le ho messe.
Immagino una
libreria che sia un covo di sovversivi, di gente losca ma molto colta, non la
vittima innocente ed inerme di atti di intimidazione, di matrice vuoi mafiosa
vuoi squadristica.
Immagino una libreria che incuta timore agli spacciatori, perché è essa stessa un fiorente centro si spaccio, e non solo di droghe.
Immagino una libreria che abbia decine di plotoni di giovani eruditi pronti ad entrare in azione, a sequestrare i vigliacchi, legarli alla sedia e torturarli con l’ascolto integrale de Il Libro copto dei morti, ma poi non lo fanno, e non perché ciò sia illegale, ma perché è una perdita di tempo. Hanno cose più urgenti ed essenziali da fare.
Immagino una libreria malfamata, come se fossimo a Tangeri negli anni ‘50 e tutti i beat vi stazionassero fuori, una libreria pullulante di balordi, drogati più strafatti di Philip K. Dick e William Borroughs, intellettuali debosciati e immensamente autorevoli, pessimi individui che conoscono Rimbaud a memoria, premi Nobel in pectore ed esponenti delle avanguardie di shit-art.
Immagino non una libreria che miagola perché le istituzioni sono assenti, ma una libreria che ruggisce perché è essa stessa un’istituzione ed è pronta a trasformare la sala del consiglio comunale in un bivacco di suoi dottissimi manipoli.
Sogno – ma qui slitto nel retorico – androidi che tuonano contro una libreria scomoda e ne invocano la chiusura (come è accaduto nei secoli gloriosi del pericolo, che ha costituito il nostro onore), non androidi che deprecano con la lacrimuccia e promettono, e poi, con cupidigia, rilasciano licenze a nuove, nuovissime, grandi, grandiose superfici di vendita, asfaltando e cementificando anche l’ultimo lembo di terreno vago rimasto ai confini della contea.
Immagino una libreria che, oltre a dotarsi di un ottimo impianto anti-intrusione e anti-incendio, installi anche un impianto di videosorveglianza a largo spettro di ultimissima generazione, che sia in grado di tracciare i veri teppisti, quelli che non frequentano le librerie o che le hanno disertate, le immense mandrie di pecore elettroniche che pascolano gli sconti nei supermercati reali o virtuali.
P. s. Le famose, famigerate e famigerrime istituzioni, come no? Una di queste, che riveste un ruolo apicale di garanzia della libertà del mercato e della concorrenza, ha recentemente statuito che la moria delle librerie, il monopolio nell’industria editoriale, le strategie aziendali volte a favorire surrettiziamente il commercio on-line a scapito di quello territoriale sarebbero questioni che «restano confinate all’interno di dinamiche contrattuali tra le parti». Non ha voluto dare un’occhiatina per strada, l’istituzione. Ma qui sembra che Cicero parli pro domo sua, se ancora ne avesse una, Cicero, di libreria sua.
[Antonio Moresco è un eretico della letteratura. Le considerazioni che seguono sono chiose a Lettere a nessuno e a Gli esordi]
Se Moresco ha commesso un errore, questo è di aver preso sul serio la letteratura. Ha bussato per anni, con la pazienza di un’ape operaia, alle porte girevoli dell’editoria, sebbene essa producesse principalmente merda e lasciasse transitare, da quelle porte scorrevoli ma non soccorrevoli, le mosche cocchiere, le api con il miele, no.
Ha bussato per anni, Moresco, con la pazienza, dicevamo, di un’ape industriosa e infaticabile. Di un’ape operaia che, ostinatamente, scambia per un’arnia un cesso pieno di merda.
Se un errore di Moresco vi è stato, l’errore è stato di aver
preso sul serio, troppo sul serio, la letteratura, al punto di scambiare un
merdificio per un mielificio. Un maleficio per un mielificio, anche.
Se c’è un errore di Moresco, l’errore è quello di non aver
preso sul serio la letteratura. La letteratura è una cosa seria, Moresco: la
letteratura sono cravatte, bonifici bancari, viaggi in Pappagonia pagati per
scrivere un reportaggio, il conto delle pompe funebri per il funerale dell’anziano
padre odiato e poi rimpianto, l’asilo nido dei figli a € 700,00 al mese fino
alle 15.45, la letteratura sono i pannolini, i rimborsi spese, il gettone di
presenza, il mutuo per la casa, il mac su cui scrivere il nuovo romanzo. Vai a
fare il frate in convento, Moresco, vai a fare il mendicante scalzo in Africa,
frate Moresco del cazzo.
La letteratura è una cosa seria. La letteratura enno soldi.
Moresco e la
rivoluzione 1.
Se una colpa ha Moresco, è quella di aver preso sul serio la rivoluzione. Quando tutti la abbandonavano, lui, come Enea con l’anziano padre Anchise, se l’è caricata sulle spalle, e l’ha portata in salvo attraverso gli incendi dell’ideologia e l’ha nascosta, per proteggerla, sotto il velo di parole come oltranza, radiante, inarreso, prefigurazione, ecc. Naturalmente i veri rivoluzionari irriducibili non la presero bene, non ci misero molto ad additare un altro traditore, un altro reazionario, un altro disertore.
Se Moresco ha una colpa, questa è di non aver preso sul
serio la rivoluzione. Mentre la nave della rivoluzione si fracassava sugli
scogli, Moresco si è illuso che non solo i marinai, ma anche gli ufficiali di
vascello, i nostromi e financo gli ammiragli si buttassero a mare e buttassero
a mare le loro uniformi, i loro gradi e le loro spalline, le loro dottrine e le
loro mappe di navigazione.
Si è sbagliato, Moresco, perché la rivoluzione è una cosa seria, e quantunque la nave sia affondata gli ufficiali, i nostromi e l’ammiraglio continuano ad emanare direttive ai naufraghi dalle tolde immateriali, ma ben remunerate, delle università e delle case editrici.
La rivoluzione, Moresco, è una cosa seria.
Moresco e la
rivoluzione 2.
Moresco non smette di girarle attorno, le cambia solo il nome: sostantivi come ferita, lacerazione, collasso seguiti da disseminazione, irradiazione, binomi come lacerazione-moltiplicazione, ma anche aggettivi sostantivati come impensato, incalcolato, inconciliato, inarreso.
Moresco e la
conoscenza del mondo
Uno scrittore, per essere tale, credo che fondi il suo
essere tale su due pilastri: una grande sventura e una vasta conoscenza di un
ambiente umano. La sventura può essere
tanto esterna quanto interiore, poco cambia. Quanto alla conoscenza degli
uomini, invece, una lunga esperienza in qualunque umano consorzio, vuoi il
salotto per Proust, vuoi il seminario per Joyce, sono basilari. Per Moresco,
senza che ciò dia adito a inutili equipollenze, la lunga esperienza in un’organizzazione
della sinistra extra-parlamentare è decisiva. Da lì vengono il pullulare dei
caratteri, da lì vengono le storie.
Moresco e la metrica
Leggendo Gli esordi penso di aver scoperto una cosa. Si tratta di una scoperta talmente evidente che ai critici sarà sfuggita. Gli esordi non è un romanzo ma è un poema costruito in larghissima parte su uno schema metrico composto di due settenari o di un quinario e un endecasillabo. Quasi tutti i periodi terminano con un endecasillabo. Mi sono accorto di ciò perché notavo che mi distraevo dall’immagine ma venivo comunque trascinato ad andare avanti nella lettura da un qualcosa di meccanico, che poi ho individuato essere pura e semplice metrica.
Moresco e la musica
Sarà allora per quanto detto sopra che Moresco scrive (Lettere a nessuno) che durante la stesura, durata quasi quindici anni, de Gli esordi non poteva ascoltare la musica, l’ascolto della musica lo disturbava, lo distoglieva, interferiva con la sua musica.
Moresco è un pesce?
Moresco è un pesce fuori dell’acquaio letterario italiano.
Sta fuori dal vetro, guarda fisso, non si sa come respiri, ma non muore.
Moresco e i vip
Una cosa che si è poco rimarcata nella poetica di Moresco
sono le non rare agnizioni di scrittori famosi o di critici rinomati. Sono
apparizioni improvvise, così «impensate» da risultare decontestualizzate, dove
emerge, principalmente, un disallineamento tra lo scrittore celebre e quello in
carne ed ossa che Moresco vede apparire dinnanzi ai propri occhi. Si tratta di
disincontri sempre deludenti, dove solo una cosa si rafforza, la convinzione
che per uno scrittore la celebrità e la fama non è una fortuna, ma una
sciagura. Il riconoscimento di Abraham Yehoshua a Milano, in viale Hoepli, di
fronte all’Hotel de la Ville… (Lettere a
nessuno, p. 618). Moresco non manca, più in generale, di registrare il
riconoscimento per strada di personaggi famosi, come nel caso del sindaco
Pillitteri, per esempio…
Moresco e il papa
… e la visione o apparizione di Woityla, visto di scorcio, incorniciato in una finestra aperta della diocesi di Milano, nel retro dell’edificio, in una notte afosa d’estate, un ritratto tra l’ultimo Tiziano e Francis Bacon, colto mentre prende congedo dai pochi privilegiati fedeli rimasti a salutarlo prima che si corichi…
Moresco davanti all’obiettivo
Non so quanti critici, di quelli che si sono occupati di
lui, avranno notato che nelle foto che lo ritraggono Antonio Moresco non guarda
mai in camera, i suoi occhi sono abbassati, in un atto di autoprotezione, si
direbbe, di smarrimento lievemente circospetto, di infinita mestizia,
soprattutto, che contiene la verecondia, l’imbarazzo, la timidezza e la
compassione, virtù negative e oppositive alla sfrontatezza dei selfie di
oggidì.
Ma il punto non è solo questo, non è questo il problema.
Se si guardano bene queste foto, si nota che dietro le due
lenti rotonde i due occhi prendono direzioni ed espressioni non convergenti. Un
occhio è decisamente semichiuso, la palpebra essendo calata di un 75%, si
direbbe quasi un qualcosa di congenito; l’altro occhio sembra un po’ più all’erta,
sebbene sia spalancato solo come una fessura, al 35% delle sue possibilità. Si
tratta di un’allerta non meno vigile sebbene non proclamata. Lo sguardo di
Moresco non è unidirezionale. Il padre Priore de Gli esordi ha due teste, due facce. Ecco, si potrebbe dire che la
figura del Priore, più che grottesca, sia un autoritratto. Normalmente, e
ipocritamente, l’integrità dell’io abbisogna, per consistere in se stessa,
della deformazione grottesca del non-io, dell’altro. È solo un’idea, forse
sbagliata, ma è probabile che i veri scrittori siano coloro che riescono a
lavorare di sbalzo con le deformità non degli altri, ma con quelle di se
stessi.
Essere o non-essere
Nella mischia tra l’essere e il non-essere, in cui, che lo
voglia o che non lo voglia, si trova invischiato ogni scrittore, e forse ogni
essere umano, la posizione di Moresco è singolare. Egli, come molti scrittori
aspiranti alla pubblicazione, ha dovuto incassare, come è noto, una sfilza di
rifiuti editoriali. A differenza di molti scrittori, anche di quei pochi che
alla fine hanno incassato un contratto, Moresco ha fatto, della sua odissea editoriale
durata quindici anni e forse più, materia della sua scrittura.
Nell’altalena tra l’essere e il non-essere Moresco non ha molta scelta: il suo stato, la sua posizione è inchiodata al non-essere, all’altalena in posizione statica, rimuginativa, rammemorativa, ebetudinaria. Per spiccare i folli voli della fantasia, l’altalena di Moresco deve restare in posizione di riposo, orizzontale (solo così per lui è possibile sprofondare nella verticalità). Moresco sembra come un bambino imbronciato, che occupa l’altalena, la sequestra ad altri bambini che fremono per librarsi avanti e indietro, ma resta fermo.
È naturale, normale, che l’editore diffidi di uno scrittore
come Moresco.
Perché però Moresco sta fermo su quell’altalena? Se scrivi e
lo fai in vista della pubblicazione, è evidente che accetti l’altalena, il suo
oscillare vertiginoso tra il non-essere della stasi e l’essere dello slancio (e
del lancio commerciale). Moresco, come ogni innamorato deluso, si nasconde al
parco e medita sulla sua sventura seduto fermo sull’altalena. Lui aveva dell’editoria
un’idea salvifica, gloriosa ed eccelsa, propulsore lei dell’incalcolato, dell’impensato,
dell’inarreso, della moltiplicazione, e invece si è dovuto amaramente
ricredere. Pensava, Moresco, che essere pubblicati fosse davvero prendere lo
slancio e librarsi sul firmamento dell’Inconciliato, qualunque cosa ciò possa
significare. Ha atteso, Moresco, quasi venti anni per questo lancio, ma quando
alla fine, sulla soglia dei quaranta anni di età ciò è avvenuto, è stata una
catastrofe, in senso etimologico. Pensava, Moresco, che all’apice dell’oscillazione
dell’altalena vi fosse la pienezza del non-essere, della disseminazione al suo
grado più esteso, l’irradiazione, un principio di r […]; e invece ha dovuto
constatare, Moresco, che lassù non c’è tutta quella vista che si pensa, che con
la stessa velocità alla quale si ascende si ridiscende, e che i salotti, le
cene, i festival, i convegni non sono tutta questa goduria e pienezza del non-essere…
Eppure Moresco, e non vuole essere un paradosso questo, è il cantore più puro che l’editoria, l’industria editoriale contemporanea abbia mai avuto. Lettere a nessuno sono lettere d’amore, dichiarazioni d’amore verso l’editoria, gli editori e gli editors. Più si allontanano da lui e più lui, come l’utopia di Galeano, si mette in cammino. Mai l’editoria era stata cantata, prima di Moresco, per quello che davvero è: la terra promessa. Quando poi esausto, stremato è approdato a tale terra promessa, come ogni innamorato finalmente appagato e corrisposto, è rimasto deluso, Moresco.
In cima all’altalena, Moresco sperava, segretamente lo sperava, ma era stata, questa, la sua speranza più grande, Moresco sperava che il mondo, il parco pubblico, si mettesse anche lui a girare, si inclinasse paurosamente, come paurosamente inclinato è spesso il mondo delle sue visioni. Che in cima all’altalena il non-essere, in quel punto immobile ed eterno della stasi aerea, riprendesse i suoi inalienabili diritti. Macché, niente da fare. Il mondo, il parco, il giardino dell’eden dell’editoria restava fermo, tetragono, inconcusso. Non si spostava di un millimetro. Allora capì, Moresco, che non era quella la cosa che aveva tanto desiderato in cuor suo. Capì che l’editoria lo aveva truffato, che lo aveva sì pubblicato ma non lo aveva seguito, che il non-essere era appannaggio esclusivo di essa; non aveva, Moresco, per anni e anni, per notti e notti battuto sulla macchina da scrivere per vedersi sottrarre quel privilegio di immobilità, quella sospensione dell’essere che aduna tutte le tempeste.
____
Foto di copertina Antonio Moresco, 2019, by L’Errore di Kafka.
«I ragazzi seduti sui gradini di santa Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, l’ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza, la squadra di giovani partigiani della Divisione comunista “Potente”, armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo.
I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli di Masaccio negli affreschi del Carmine. »
Sfrontati, pallidi di terrore ma sostenuti da quella insolenza incosciente tipica degli adolescenti quando sono in branco, sbeffeggianti l’ufficiale partigiano che decide la loro morte, sprezzanti della morte che pure hanno ai loro piedi, fedeli a una loro assurda fedeltà, questi giovani che vengono freddamente e sommariamente giustiziati senza processo sul sagrato di Santa Maria Novella[1]stanno proteggendo la loro integrità psichica.
Se analizziamo il problema del fascismo e dell’antifascismo dal punto di vista dell’integrità psichica davanti alla scelta, coloro che, dopo l’8 settembre, restarono fascisti lo fecero perché cambiare casacca dall’oggi al domani minaccia l’integrità psichica.
È vero che il fascismo aveva fallito, e nell’episodio riportato sopra il suo fallimento è ormai conclamato (siamo alla «liberazione» di Firenze), e che le sue promesse di grandezza e di benessere erano un cumulo di macerie. Però la psiche umana ha tempi di reazione non collimanti con i tempi esterni della storia. Talvolta sono più rapidi, talaltra più lenti.
Se analizziamo il problema sotto questa angolatura, che non è però parziale, è indubbio che coloro che erano stati fascisti e poi divennero dal giorno alla sera antifascisti[2] spaccarono in due l’integrità della propria psiche. L’antifascismo lampo è schizofrenico.
Da questo punto di vista, sdrucciolevole ma non arbitrario, il comportamento dell’occupante tedesco fu razionale, e l’accusa di tradimento scagliata conto il re e il popolo italiano ha avuto una base giuridica, e nella legittimazione giuridica possiamo rinvenire una salvaguardia dell’integrità psichica. Non riconoscere i partigiani come combattenti legittimi ma come banditen ne fu la logica conseguenza (per quello che poteva valere una simile distinzione per i nazisti e per la Wehrmacht).
C’è chi sostiene che Mussolini, creando a Salò la Repubblica sociale, abbia eretto una sorta di cordone di protezione e di contenimento della furia vendicativa dei tedeschi. Se non ci fosse stata la Repubblica di Salò l’eccidio del popolo italiano avrebbe assunto dimensioni ancora più tragiche.
Ma quello che, in questo abbozzo di ragionamento, è forse più interessante è il comportamento schizoide degli italiani.
Fu, quella repentina conversione, quel subitaneo passaggio dalla camicia nera al fazzoletto rosso, un atto molto moderno, simile, si passi l’immagine, a un cambio di foggia del soprabito alla moda o a un cambio repentino di gusti musicali o, ancora, all’introduzione di un nuovo ballo.
Il novecento, il moderno, che cosa è stato se non un addestramento al cambiamento, a una fede debole, a uno stare in equilibrio sul tagadà della storia, a rialzarsi quando si cade tanto è tutto un gioco?
I fascisti, e soprattutto i fascisti giovanissimi, che restano fascisti e muoiono per questo non vogliono salire su quel tagadà, temono di perdere la propria anima. Da questo deriva lo sprezzo della morte del corpo. «Ho pietà per i giovani fascisti», scrive Pasolini (Poesia in forma di rosa, 21 giugno 1962).
Gli antifascisti dell’ultima ora ci salgono sul tagadà, felici anche, perché hanno capito, e prontamente accettato, che la loro anima non è unitaria, ma scissa.
Da un lato i vecchi valori di tenuta psichica (dio, patria, famiglia), dall’altro il valore moderno dei non valori, un surfare con la tavoletta sui flutti del disastro.
Certo, la scissione si paga prima o poi, e ecco allora il giovane guerriero sessantottesco scisso che interiorizza il conflitto, la lotta si trasla all’interno di se stessi, nascono tutte le forme e i rituali di liberazione interiore e di anestesia, il jazz (che era già nato), il rock, la protesta, le droghe, il sesso libero, l’irrisone dell’integrità psichica, di chi non balla lo shake e non salta sul tagadà.
[2] Quegli stessi che avevano sputato addosso a Curzio Malaparte quando era stato arrestato per antifascismo, e che «nascosti nelle cantine, aspettavano tremando il momento di poter, passato il pericolo, correre in piazza con le coccarde tricolori al petto e i fazzoletti rossi al collo e gridar “Viva la libertà!”» (La pelle, cit., ibidem); i «topi della libertà», li chiama Malaparte.
Non è vero che Lenin sia finito
in soffitta a far compagnia a Marx, ha solo traslocato nelle pagine dei
romanzi, non necessariamente «storici».
In Italia si registrano, solo
nell’ultimo anno, ben due epifanie leniniane (non leniniste). La prima nel
«romanzo documentario», questo sì storico-biografico, M di Antonio Scurati. A stretto giro di stampa, Lenin riappare nel
romanzo Lo stradone di Francesco
Pecoraro. In questo romanzo, impegolato com’è nella attualissima e postmoderna deriva
urbanistico-morale-esistenziale di un quartiere dell’Urbe e di un suo
rassegnato abitante, tutto ci si attenderebbe tranne che di imbattersi nel capo
dei bolscevichi.
Ma l’apparizione di Lenin più
sconcertante si ha, come vedremo, nel romanzo Gli esordi di Antonio Moresco, libro pubblicato da Feltrinelli nel
1998, ventun anni orsono, frutto di una gestazione durata quindici anni.
Nelle tarda narrativa italiana
recente Lenin fa capolino almeno tre volte.
Tre volte Lenin.
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Nel corso del novecento, e dopo
il rapporto Krusciov, si è operata una damnatio dello stalinismo ripristinando con
ciò il valore primigenio, immacolato e potenzialmente valido di Lenin e della
sua politica. Se Lenin non fosse morto troppo presto…[1]
Nelle celebrazioni del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, due anni orsono,
la storiografia ha fatto un piccolo passetto in avanti: pur nelle diversità di
valutazione, trattandosi di un evento che ha spaccato il mondo in due e che non
finisce di finire[2], la
storiografia sembra concordare su di un punto: Lenin ha avuto culo. Dopo la
catastrofe della rivoluzione del 1905, l’ipotesi di una rivoluzione socialista
dentro i confini zaristi veniva esclusa da tutti, Lenin incluso. Poi l’attentato
di Sarajevo, poi la guerra (questa sì prevista da Lenin, profezia non difficile
da formulare, peraltro), poi la disfatta russa e la popolazione russa ridotta
allo stremo, le madri e le operaie di Mosca che scendono in piazza reclamando
la cosa più semplice e ovvia, «pane e pace» e quindi la fine della guerra. I
dieci giorni che sconvolsero il mondo sconvolsero anche Lenin, precipitosamente
di rientro dalla Svizzera nel famoso vagone blindato. La presa del Palazzo
d’Inverno non è l’esito matematico di una previsione. Quello di cui la
storiografia più accreditata non dubita più è che i bolscevichi, più che
accendere il fuoco, furono abili nel soffiarci nella direzione a loro più
favorevole. Culo + abilità tattica.
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Nel romanzo storico M di Antonio Scurati, dedicato a
Mussolini, il «figlio del secolo», nel decisivo segmento temporale 1918-1924
(la presa del potere), Lenin appare più come un’emanazione plotiniana che come
uti singulus. Molteplici sono, ovviamente, i riferimenti indiretti a Lenin, ai
bolscevichi e al bolscevismo[3];
solo una volta però Lenin appare di persona. Siamo a Mosca, alla fine di
ottobre 1922. Una delegazione di comunisti italiani è presente al IV congresso dell’Internazionale
comunista. Ci sono Nicola Bombacci, un saccente Amadeo Bordiga, Camilla Ravera
e un molto infermo Antonio Gramsci.
«Anche Lenin, – scrive Scurati – il
più grande uomo del secolo, purtroppo, è malato. Quando riceve i compagni
italiani, è già stato colpito da un colpo apoplettico ma li accoglie
sorridente, rivolgendosi a Bordiga e a Camilla Ravera in italiano, memore della
sua giovinezza di esule a Capri. Bordiga gli manifesta l’apprensione di tutti
per la sua salute:
“Sto bene,” risponde con prontezza, “devo però obbedire a tiranniche prescrizioni dei medici. Per non riammalarmi…” Poi, lasciato in sospeso il suo breve futuro, chiede notizie sugli avvenimenti in Italia.
Bordiga accenna alla questione
dei rapporti con il Partito socialista ma Lenin lo cassa. Non ha tempo per
queste diatribe. Vuole sapere cosa accade con i fascisti in Italia.
Bordiga, ubbidiente, espone i
fatti, ripete analisi e giudizi già espressi. A un tratto, il grande uomo lo
interrompe e chiede cosa pensino operai e contadini di quegli avvenimenti[4].
Bordiga, il capo dei comunisti italiani, rimane interdetto, come lo studente
colto di sorpresa da una domanda fuori programma.»
Un Lenin colpito dall’ictus ma
perfettamente lucido, che umilia il capo dei comunisti italiani e gli consiglia
di non sottovalutare le derive a destra del proletariato. Qui, in Scurati,
rifulge ancora, nonostante la malattia, lo stratega, il profondo conoscitore
delle masse.
___
Nel romanzo Lo stradone di Francesco Pecoraro, dove un ex professore
universitario in pensione mena i suoi malmostosi giorni in un quartiere della
Città di Dio, Roma, adulterato dalla moderna, ma eterna, cafonaggine romanesca
e italica, quartiere di già nobili ascendenti operai nel settore del laterizio,
luminosa e trascendente appare la figura di un Lenin ancora giovane di
passaggio a Roma, proveniente da Capri e diretto verso nord. Avendo a
disposizione alcune ore prima che il suo convoglio riparta, Lenin si concede
una passeggiata per i Fori Imperiali, ammira e riflette sulla cupola di
Michelangelo e acconsente ad incontrare gli operai del forno Hoffman,
sindacalizzati ma di evidenti tendenze anarchico-rudimentali.
___
Nel romanzo Gli esordi di Antonio Moresco, parte seconda «Scena della storia»,
l’io narrante pochisciente raccoglie, in capitulo mortis, l’inaffidabile testimonianza
di un vecchio comunista sui generis, il Gagà, un bellimbusto più incline alle
balere e alle cravatte che non alle riunioni di partito. Una figura del genere
mancava probabilmente nella tarda letteratura italiana. Il Lenin che vediamo
qui rappresentato è un Lenin malato terminale, prossimo alla defunzione.
Acquattato, insieme ad un ineffabile professore, esperto imbalsamatore, in un
vano segreto ricavato dietro il camino della camera da letto e di agonia del
capo dei bolscevichi nonché patriarca della rivoluzione e dell’U.R.S.S., il
Gagà spia il momento propizio dell’ultimo spiro del capo per prontamente
intervenire e procedere alla perfetta imbalsamazione.
Attraverso lo stretto pertugio
tra due assi di legno il Gagà racconta di aver visto il moribondo Vladimir
Il’ič leccare, talora con dedizione, talaltra con furia la fica della compagna
camerierina Anastasia Nicolaevna Romanova. Nome coincidente con la figlia dello
zar Nicola II, messa a morte dai bolscevichi assieme agli altri membri della
famiglia imperiale il 17 luglio 1918. Quel giorno del 1918 Anastasia aveva
compiuto da poco diciassette anni.
L’impiego della locuzione
«leccare la fica» è qui deliberato sebbene ciò cui il Gagà assista da dietro lo
spioncino sia, più che un atto sessuale, un gioco di spettri ad ombre
divaricate, alimentate dalla fiamma del camino. E tuttavia la scelta è voluta
per non dover ricorrere a circonlocuzioni che introducano anche di poco
l’ammiccamento pruriginoso e bofonchiante o che sottraggano anche di poco il coraggio
della visione, o scalfiscano anche di poco la doppia dissacrazione del potere
sovrano, e la sua inconcepibile riconsacrazione. Ciò premesso, la locuzione
impiegata è inesatta perché quello che la compagna camerierina offre al capo
pelato del capo moribondo non è un’elargizione licenziosa, qui niente Mirbeau,
ma un atto di nutrizione, di alimentazione assistita, diremmo oggi.
«[…] “Guarda cos’ho preparato per
te…” gli sussurrava Anastasia, “vieni qui a mangiare…”»
______
Senza dilagare in considerazioni
sul ruolo che nella letteratura e nel cinema riveste il dittatore sul letto di
morte, l’animale morente che pur egli diviene come tutti, qui è da evocare,
perché non è possibile evitarlo, il film Taurus
di Aleksandr Sokurov sugli ultimi giorni di Lenin. Il film è uscito nel 2001 e
si ha ragione quindi di escludere che Antonio Moresco possa aver preso
ispirazione dal film. Con altrettanta ragione si può escludere che il regista
russo abbia potuto leggere il libro di Moresco prima della lavorazione del film.
Mentre, infine non è da escludere che Moresco abbia poi visto il film di
Sokurov, sarebbe interessante sapere se il regista russo abbia avuto occasione
di leggere il libro di Moresco, ed in particolare il capitolo della parte
seconda di cui stiamo parlando.
Taurus, Aleksandr Sokurov
Nel film c’è, ad un certo punto,
Shura, una camerierina che fa la spiritosetta con Lenin, si intrufola nella sua
camera e gli si stende accanto, si suppone con il beneplacito della Krupskaja,
la moglie del capo.
Torneremo sul film.
______
Un Lenin preso di scorcio, quello
di Scurati, nell’esercizio sì del suo potere ma in un momento collaterale, durante
una conversazione nei corridoi del congresso, ed un Lenin per di più già
toccato dal male; un Lenin che mette in guardia i comunisti italiani sul fascismo.
Scurati qui si ferma, non retrodata, forse perché ha pronto un libro sul
giovane Mussolini. Però l’uscita del libro di Scurati ha aperto la via anche
alla ricostruzione di possibili incontri o contatti tra Lenin e il giovane
Mussolini in Svizzera, a Ginevra. Non è
da escludere che i due si siano incontrati e conosciuti. Forse Lenin non ha dimenticato quel giovane
socialista, quell’oratore brillante, di cui aveva intuito l’energia politica.
Forse hanno anche trescato con la medesima, affascinante, compagna socialista
rivoluzionaria. Questo quando Mussolini era ancora giovane, e ancora
socialista.
Un Lenin che passeggia per Via
dei Fori Imperiali, in bombetta, «sempre meditabondo» (p. 110), ben prima di
diventare lui imperatore, quello di Pecoraro.
Un Lenin boccheggiante nelle ore
dell’agonia a termine corsa, quello di Moresco.
Sembra che la letteratura non
possa, o non voglia, inquadrare in piena luce, nel momento della sua massima
gloria, il sovrano destituente e costituente. La letteratura sembra obbedire ad
una sorta di avvertimento, di warning, simile a quello dei cartelli che
venivano messi una volta sui tralicci dell’alta tensione: CHI TOCCA QUESTI FILI
MUORE. Chi inquadra il sovrano in piena luce, in pieno volto, in piena gloria,
fallisce. Sembra che in tutti e tre i libri in cui Lenin si manifesta questa
regola di salvaguardia sia rispettata. Non possiamo non notare, però, che in
Scurati e in Pecoraro abbiamo un Lenin abbastanza solitario, sia che metta in
guardia i compagni italiani ingenui sia che ascolti poco partecipe, nel borgo
operaio di Roma, i discorsi dei lavoratori del laterizio con la mente avanti
rispetto a chi gli sta dinnanzi sia che cammini cogitabondo per le vie
dell’antica Roma solo con se medesimo, con le sue riflessioni e con i suoi
dubbi (pochi); in Moresco, invece, Lenin non è solo. Moresco infrange un tabù
letterario, l’eroe va ritratto nella sua solitudine, se lo circondi di
cameriere, attendenti, badanti e fantesche, che eroe è? Moresco destituisce il
personaggio, come fa Sokurov.
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Scrive Lenin da
qualche parte: «Non posso ascoltare spesso la musica – essa mi scuote i nervi.
Ho voglia di dire amabili sciocchezze, di carezzare la testa della gente che,
vivendo in quest’inferno di fango, può gridare tanta bellezza. Ma oggi non
bisogna carezzare la testa di nessuno – per non buscarsi un morso alla mano;
bisogna colpire, colpire le teste, senza pietà»
Se vogliamo individuare un minimo
comun denominatore dell’umanesimo, questo è da rinvenirsi nell’umanità del
sovrano, nell’umanità del disumano. Nell’uomo che ha firmato migliaia di
condanne a morte[5], tra cui
sei, scoprire alfine che anche egli era un uomo, che apprezzasse Mussolini agli
esordi, o che passeggiasse cogitabondo sullo stradone di Valle Aurelia o che
leccasse la fica della santa zarina, poco cambia.
La mano del sovrano è grondante
di sangue ed è per ciò stesso sacra. La storia del potere in Occidente si
cristallizza per la prima volta, e forse per sempre, nel gesto di Priamo che
bacia la mano assassina di Achille, per ottenere il riscatto del cadavere del
figlio Ettore. Priamo non può fare a meno, nella tenda di Achille, di
considerare quanto appaia mirabile l’aspetto di Achille. È un pensiero
vertiginoso, che almeno il nostro sicario sia un re, la morte che sparge
attorno è così meno insensata. La baciamo allora, la imbalsamiamo.
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Eppure nella terza visione,
quella di Moresco, vi è un’anomalia. Abbiamo detto che il sovrano morente non è
solo. È nutrito dalla fica della giovinetta imperiale che è stata assassinata
per suo ordine. Un fantasma shakespeariano? Moresco schiva con rapidità
narrativa lo scoglio. «Chi può mai dire – replica il professore incalzato dal
Gagà, entrambi intenti a scrutare da dietro il pertugio – se con questa davvero
straordinaria attività della sua lingua non stia operando uno di quei suoi
passaggi furiosamente sfalzati, anticipati…?»
Uno scrittore, se è bravo, sa
piazzare un aggettivo o un avverbio come una mina – una mina che fa saltare in
aria non gli arti inferiori ma i luoghi comuni superiori. A nessuno prima di
Moresco era venuto in mente, c’è da scommetterci, di utilizzare un aggettivo,
«anticipati», e un avverbio, «furiosamente», per illustrare una condizione
terminale.
Moribondo, accasciato su una
carrozzella, la compagna infermierina che si allunga come un’ombra gigantesca
tra l’armadio e la finestra, spalancante le gambe all’inverosimile, Lenin
anticipa- ancora – il futuro, meglio,
opera uno dei suoi celebri passaggi anticipati. Dato che Lenin è prossimo
all’ultimo spiro, questo «passaggio anticipato» che altro sarebbe se non un
assaggio anticipato di morte? Lenin lecca la morte che lui stesso ha inferto,
ricevendone una destituzione, e la scena fondamentale è riconsacrata.
Coerente fino in fondo al
movimento sovvertitore che ha messo in azione (per Moresco, come per Scurati e
Pecoraro; ma, come abbiamo detto, l’azione sovvertitrice era cominciata e Lenin
ci si è tuffato dentro), Lenin non si sottrae ad esso, si sottomette al suo
stesso potere e si fa servo della sua stessa idea, e di fronte al Che fare non c’è possibilità o spazio al
dubbio: retrocedere verso la vita. Leccare la fica materna, l’alma genetrix.
Morendo, Lenin anticipa la vita al suo sorgere, sole nero che spunta al
crepuscolo.
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Ricapitolando: il Lenin di
Scurati è un Lenin preso di scorcio, figura di eroe in quei tempi eroici,
investito di un fascio di luce, come in un dipinto caravaggesco, ma tenuto a
debita distanza, per non togliere la scena al suo personaggio principale.
Il Lenin di Pecoraro è un Lenin
in pieno sole, un generale tracio che si aggira, antico tra gli antichi, tra le
rovine dei fori e la maestà rinascimentale del cupolone. Un Lenin neoclassico.
Il Lenin di Pecoraro è un Lenin ante–effigiem,
ma che tutto la lascia presagire; il Lenin di Scurati è un Lenin in-effigie, ma che tutto ne lascia
prefigurare lo sfacelo; il Lenin di Moresco è un Lenin post-effigiem, un Lenin come lo potrebbe dilatare e scontornare un
pittore novecentesco come Lucian Freud, un Lenin su cui è passato sopra il
post-espressionismo, un Lenin la cui effigie si squaglia come cera e diventa
pura lingua e puro linguaggio, fa avanzare la lingua e il linguaggio laddove
non ci eravamo mai avventurati prima.
Nel Lenin di Pecoraro c’è il
martello ma non ancora la falce; nel Lenin di Scurati c’è la falce e il
martello; nel Lenin di Moresco c’è la falce, ma non c’è più il martello.
E mi spiego.
Sebbene sia universalmente noto
che la falce e il martello simboleggino l’unione dei contadini e degli operai,
è altrettanto vero che universalmente la falce è conosciuta come simbolo della
morte, non ne sono sicuro ma il simbolo potrebbe avere un’ascendenza biblica,
se non classica. Il martello rappresenta invece, inequivocabilmente, il potere
di trasformazione del mondo attraverso l’uso intelligente e finalizzato della
forza.
In questa cornice è chiaro che il
Lenin di Scurati e di Pecoraro è un Lenin del martello, quello di Moresco è un
Lenin della falce. Nella storia del comunismo, e massimamente in quello
surreale sovietico, si è ampiamente avuto modo di capire come i contadini non
siano stati considerati una risorsa, ma un problema. I contadini, legati e attaccati
alla terra, sono per loro natura atavica reazionari, avversi alla
modernizzazione, legati alla chiesa. I contadini vanno sterminati e/o deportati
e sostituiti con operai della terra, roboti, direbbe Pecoraro. Il comunismo è
il movimento operaio, è il martello; la falce serve, se serve, a falciare i
contadini. Nel simbolo del comunismo campeggia la morte.
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Taurus, Aleksandr Sokurov
Il Lenin di Scurati è un Lenin
per disseminazione. Forse che la soggettiva su Mussolini preclude di ritrarre direttamente
Lenin? Non è da credere. Si tratta, quella di Scurati, di una scelta
deliberata. Possibile che il futuro duce non abbia mai parlato, conversato, a
tavola o in qualunque altra occasione privata o pubblica, magari anche in
qualche alcova, di Lenin, del primo rivoluzionario socialista ad aver avuto
successo e quindi ragione, ad aver preso il potere? Scurati si discosta quando
gli pare dal romanzo documentario, visto che in non rare occasioni ci porta in
camera da letto, o ci mette a parte delle furiose cupidigie sessuali del futuro
duce; non nel caso di Lenin.
In un romanzo «documentario» sul
capo di un movimento politico uscito come una majonese impazzita dal socialismo,
ci si attenderebbe legittimamente una epifania diretta di Lenin, un colloquio
immaginario, un sogno di Mussolini sul capo dei nemici giurati, i bolscevichi,
cose così. Sebbene i pregressi socialisti del duce del fascismo appartengano ad
una fase della vita precedente al segmento temporale che abbraccia il romanzo
di Scurati, come è possibile stralciare una figura così gigantesca come quella
di Lenin, di colui che lo stesso Mussolini appella, dalle colonne de Il Popolo d’Italia, «il più grande uomo
del secolo», in una sorta di onore delle armi in occasione della notizia della
sua morte nel gennaio 1924?
Abbiamo ipotizzato che Scurati,
come tra l’altro sembrerebbe annunciato anche dallo stesso autore, abbia in
serbo un prequel (oltre che un sequel, nonché, va da sé, il progetto di una
serie tv). In quel prossimo libro sulla giovinezza scapestrata e socialista di
Mussolini non mancherà di raccontare il periodo svizzero del futuro duce, il
possibile contatto a Ginevra con Lenin, e la frequentazione comune di una
affascinante socialista rivoluzionaria. Che entrambi abbiano concupito la
stessa donna? La cartuccia di Scurati forse è già pronta in canna.
Però intanto non possiamo nascondere un senso di insoddisfazione. Si dice che, all’indomani della notte dei lunghi coltelli, nella quale per ordine di Hitler fu decimato lo stato maggiore delle SA e spazzata via qualunque ipotesi di rovesciamento del regime hitleriano, Stalin abbia esclamato: «Un genio!»[6] Non che Stalin avesse bisogno di insegnamenti in materia di epurazioni, ma non è escluso che abbia trovato, come dire, ispirazione dalla mossa a sorpresa di Hitler. I nemici si spiano e si imitano più di quanto non si pensi. E allora? Possibile che Mussolini non abbia pensato e ripensato mille volte a come cavolo aveva fatto quell’uomo visto a Ginevra a diventare il nuovo zar di tutte le Russie? Se noi siamo visitati in sogno dall’isterico capo ufficio, possibile, e senza incomodare Shakespeare, che Mussolini non abbia mai sognato Lenin? Non è possibile, ed infatti la strategia di contenzione della figura antagonista lascia una falla aperta. Siamo nel marzo 1921, il 5 di marzo. Mussolini è a letto per un incidente aereo, Margherita Sarfatti, non senza una dose di spudoratezza, lo va a trovare a casa. Porta regali per i figli. La moglie Rachele non è entusiasta della visita. «[…] la donna di mondo si dà un contegno. Gli parla di politica europea. Gli riferisce di aver saputo di un giudizio molto lusinghiero del grande Georges Sorel, il teorico del mito della violenza. Pare che a un suo amico Sorel abbia detto: “Mussolini non è un uomo meno straordinario di Lenin. Ha inventato qualcosa che non è nei miei libri: l’unione del nazionale e del sociale.”[7]
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Il Lenin di Pecoraro, il giovane Lenin ante-effigiem è sotto una forte luce, così forte che dal neoclassicismo apparente si slitta verso una sorta di iperrealismo contemporaneo. La strategia di Pecoraro per aggirare la «sovradeterminazione» storica (vediamo un giovane signore dai tratti caucasici in bombetta camminare per le vie del centro di Roma, nessuno sa che un giorno diventerà lo zar di tutte le Russie, io solo, narratore onnisciente lo so, e te lo sussurro a te, lettore complice di questo voyerismo retrodatato) è quella di lasciar trasparire già un’immensa delusione dell’uomo pur tenace e votato al successo: non solo perché ha perso una partita a scacchi a Capri contro un russo riformista, ma perché il proletariato romano che incontra a Valle Aurelia è anarcoide e troppo ciarliero. Il Lenin di Pecoraro è un Lenin che torna a Roma oggi, gli operai con cui si incontra sono «roboti», è un Lenin già conscio dell’immane sconfitta. È un Lenin, sia detto come postilla nostra, già consapevole che l’unica cosa che piace ai Russi sono i nomi corti: Stalin, Putin. Stanco di storia, il narratore de Lo stradone trasmette anche al giovane Lenin tutta la sua stanchezza e tutta la sua disillusione, con effetto retroattivo.
Scrivendo il suo libro, Pecoraro
non era al corrente che Lenin comparisse nel romanzo Gli esordi di Moresco, pur avendolo letto e apprezzato.[8]
____
Ulteriormente ricapitolando: il
Lenin di Scurati è il più grande uomo del secolo, e la sua grandezza fa
rifulgere il genio politico di chi ha osato opporsi, e trionfare, in Italia, e
primo dei ribelli in Europa, sulle emanazioni di quel portento; il Lenin di
Pecoraro è un Lenin cogitabondo e monitorio, il suo incedere per le vie romane
serve a Pecoraro a misurare l’entità dello sprofondo ideale in cui, con e nella
Città di Dio, siamo finiti; il Lenin di Moresco è un Lenin che oltraggia la sua stessa memoria e la
mummia che egli stesso è divenuto, va oltre
l’apologetica novecentesca della galassia leninista e accede al martirologio,
alla mistica. Sarebbe banale ridurre il Lenin di Moresco a una decapitazione
del culto della personalità mediante un allupamento sessuale terminale; così
come sarebbe banale ridurlo a una grottesca e parodistica lotta shakespeariana
con i suoi fantasmi, una sorta di Macbeth che viene visitato dal fantasma della
zarina trucidata.
Lenin è non solo «il più grande
uomo del secolo», ma è anche la prima grande icona pop del secolo. È la prima
star mondiale dell’epoca della comunicazione di massa. Certo, siamo agli esordi
dell’icona pop nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e tuttavia le premesse
sono già state gettate: il gadget c’è, il merchandising di bandiere e magliette
che incoronerà Che Guevara ne è solo la logica conseguenza su più vasta scala.
Se così stanno le cose, il Lenin
di Moresco è un lavoro artistico sull’icona pop, un’installazione analoga a
quelle di un Maurizio Cattelan su Hitler o Woytila. Il Lenin di Moresco è un
lavoro sulle miriadi di statue di Lenin disseminate in ogni sperduto pago dell’URSS,
sui milioni di busti in metallo che si trovano ancor oggi in vendita nei mercatini
dei russi, tra i cimeli dell’Armata Rossa, e, in definitiva, un lavoro sulla
mummia Lenin e sulle sue innumerabili emanazioni. Al cospetto del volume di
fuoco di tale rappresentazione, l’iconografia dell’italico duce e della sua
mascella squadrata quasi impallidiscono.
Taurus, Aleksandr Sokurov
Come Moresco, anche Sokurov si
installa nella stanza della malattia di Lenin. E come il lavoro di Moresco,
anche quello di Sokurov è un lavoro sull’immagine, sull’icona, sull’effigie. È
un’operazione artistica di sottrazione alla incipiente imbalsamazione, è una
riflessione sull’immagine del sovrano, sui due corpi del re; è uno studio di
interni, una sospensione del tempo politico e direi anche umano, un fluire di
lunghi silenzi, scanditi da un misterioso rintocco di campana[9]
e da interminabili sequenze sulla nebbia che sale lenta attorno alla villa
neoclassica in cui si è ritirato, o è stato isolato, il capo. Sono quadri di un’esposizione,
sembra veder sfilare la storia dell’arte, non solo russa. L’attendente che apre
l’uscio della porta è una citazione da Franz Hals. L’apparizione di Stalin in
visita al malato, trasfigurato e quasi goffo in un vestito bianco che gli sta
troppo grande è un dipinto iperrealista.
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La rivoluzione è un sacrificio, è
il moderno, e collettivo olocausto. I
padri sacrificano i propri figli. E allora se nel Lenin di Moresco vi fosse il
sacrificio di Ifigenia nei panni della zarina Anastasia, della figlia che lo
zar Agamennone-Lenin non ha mai avuto?
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Un ricordo personale: a casa di
mia sorella, il giorno del suo quarantesimo compleanno, si era nel 2009, essendo
tutti abbastanza alticci dopo il pranzo, ballavamo piuttosto sguaiati e
qualcuno, certo per burla, tirò giù dagli scaffali più alti della libreria i
tomi di tutte le opere di Marx e di Lenin, volumoni rossi della Sansoni, e
cominciò a passarli a ritmo di musica, in una sorta di ritmico passa-mano. Il
volumone di Lenin arrivò ad un ragazzo rumeno invitato alla festa, fidanzato di
un condomino di mia sorella. Questo giovane ragazzo si rifiuta di prendere in
mano il volume, con la scritta Lenin in oro su coperta in similpelle rossa.
Pensammo ad uno scherzo. Il suo volto cambiò espressione. Per noi, che avevamo sì
e no conosciuto il comunismo di Berlinguer e di Occhetto e che ci era sembrato
una minestrina tiepida, quel gesto dovette apparirci eccessivo, sproporzionato,
o forse frutto naturale dell’anticomunismo maturato in quei paesi dove Lenin
avevano dovuto impararlo a memoria, come da noi il catechismo. Ma negli occhi
di quel ragazzo gay, molto bello, balenò un’ombra, il nostro ballo mi apparve
improvvisamente osceno.
_____
Conclusione.
Quanto progresso e giustizia ha
introdotto Lenin nel mondo? E quanto dolore ha introdotto?
E come fa un singolo essere umano
a caricarsi sulle spalle il peso di tutto questo immane portato?
Scurati e Pecoraro non se lo sono
domandato.
Moresco sì.
Lenin non esiste.
Esistono molti Lenin mancati,
falliti, fucilati, comprati, scambiati, deportati, trucidati, torturati,
eliminati.
Per un Lenin che trionfa ce ne
sono tre, tredici, trecentodieci, tremilatrecendodieci che non ce l’hanno
fatta.
Lenin è un individuo multiplo,
uno dei milioni di busti.
La rivoluzione, il rovesciamento
e la conquista del potere sono sotto il regime del caso.
Dovremmo qui introdurre il
concetto di sacerdote/profeta come scommettitore fortunato sulla roulette delle
possibilità, ma dovremmo aprire una lunga digressione.
Le ascese al potere sono tutte
resistibili. Valga qui, e senza che ciò sia scambiato per banale equivalenza
tra nazismo e comunismo, quanto scrive nelle sue memorie Stefan Zweig, e cioè che
Hitler all’inizio fu uno dei tanti agitatori di cui pullulava la Germania.[10]
Né Scurati né Pecoraro sembrano avvedersene, sebbene soggiacciano anche loro a quello warning di cui abbiano detto. È chiaro che per ciascuno di loro Lenin, declinato come da ciascuno è declinato, non è sottratto alla «necessità storica», all’ «inevitabilità storica», anzi resta pur sempre un uomo del destino o della provvidenza. Non un sobillatore fortunato, non il principale artefice di una «lugubre buffonata», come Simone Weil definisce il bolscevismo in una lettera ad un’amica.
Per Scurati lo è anche Mussolini, uomo del destino e figlio del secolo. Ed ora sono, Lenin e Mussolini, mummie.
Per Moresco Lenin, il suo Lenin, continua
ad agire, anticipandoci tutti. Perché non esiste.
[1] Alla
notizia della morte di Lenin sembra che lo stesso Winston Churchill abbia
dichiarato: «La Russia ha avuto due grandi disgrazie: la nascita di Lenin, e
ora la sua morte».
[2] Basti qui riferire il detto di
Vladimir Putin riguardo al comunismo: «Chi non lo rispetta non ha cuore, chi lo
rimpiange non ha cervello.»
[3]
Riferimento alla Terza Internazionale comunista (p. 12); ad un «ex scaricatore
di carbone leninista (Giacinto Menotti Serrati, p. 34); a Eugen Levine, il
«Lenin tedesco» (ibidem); ad una manifestazione del 19 aprile 1919 a Milano,
dove ad aprire il corteo ci sono «ancora una volta le donne con alto il
ritratto di Lenin e la bandiera rossa» (p. 36); al conseguente pestaggio dei
manifestanti da parte di ufficiali dell’esercito ed Arditi, che li
sbeffeggiando: «Grida viva Lenin, adesso. Grida viva Lenin!» (p. 37); ad un
oratore socialista che, nel comizio, urla il suo rituale “Viva Lenin (p. 38);
all’assalto alla sede milanese dell’Avanti, quando «migliaia di foto
litografate di Lenin, pronte a essere spedite in tutta Italia, volano dalla
finestra» (p. 39); alle «armate rosse si Lenin» (p. 68); alla «Russia di Lenin»
(p. 72); al «Lenin di Romagna», epiteto con cui viene chiamato Nicola Bombacci
(p. 78); a «Degott e Lenin per suo tramite», cioè al rappresentante
dell’Internazionale comunista in Italia (p. 136); a Maksim Litvinov e Leonid
Krasin, incontrati da Nicola Bombacci a Copenaghen, «emissari di Lenin»; «Lenin
stesso – dice Mussolini a Marinetti – in Russia, si è arrestato di fronte all’autorità
del Santo Sinodo. La religione va rispettata» (p. 207); al senatore Giovanni
Agnelli che, dopo l’occupazione della FIAT, trova nel suo ufficio il ritratto
di Lenin appeso al muro (p. 203); al ritratto di Lenin, stavolta adibito a
sputacchiera in una sede del Fascio (p.235). Si potrebbe proseguire nell’elencazione, ma
quanto indicato è sufficiente a suffragare il nostro assunto.
[4] Siamo nei giorni immediatamente precedenti la Marcia su Roma. Scurati termina questo capitolo con un riferimento alla clamorosa sottovalutazione dei leader socialisti. «In Italia, intanto (mentre cioè i leader comunisti sono già a Mosca, ndr) nelle stesse ore in cui decine di migliaia di camicie nere urlano “A Roma! A Roma” sulla piazza del Plebiscito di Napoli, a Milano i principali leader del Partito socialista, concordi nel non prendere sul serio quel proposito e nel valutare irrealistica quella minaccia, scortati dall’assoluta certezza che non stia accadendo nulla di importante, salgono sul treno per Mosca. »
[5] Non solo
Lenin ha firmato di suo pugno sentenze di morte, ma è stato sufficiente un suo
cenno mal interpretato per mettere a morte 1.500 controrivoluzionari. «Durante
le conferenze e le riunioni, Lenin aveva l’abitudine di scrivere delle domande
a lapis, e passarle ai compagni. Una volta ne passò una a Zerijnski, e chiedeva
quanti controrivoluzionari esistessero nelle prigioni della capitale. L’appunto
fu ritornato a Lenin con questa cifra: «circa 1500». Lenin lesse la risposta e
vi segnò a margine alcune parole illeggibili e facendo una crocetta sul
biglietto lo restituì a Zerijnski.
Costui lasciò la sala, senza salutare nessuno, com’era
sua abitudine ma attirando l’attenzione generale. Fu solo la mattina dopo che
l’incidente ebbe una spiegazione nelle sfere comuniste. Era successo che nella
stessa notte i mille cinquecento controrivoluzionari erano stati fucilati.
Zerijnski aveva interpretato il segno di croce di Lenin come un ordine a quello
scopo. Ma era un errore; Lenin non aveva affatto inteso dare un tal ordine e
Zerijnski aveva semplicemente commesso uno sbaglio. Lenin infatti soleva spesso
mettere una crocetta sulle note che gli erano pórte, per indicare che le aveva
lette e considerato il contenuto.» Ennio Flaiano, L’occhiale indiscreto, «Souvenir», Adelphi, 2019. Ringrazio per la
segnalazione di questo passo Roberto Lazzerini.
[6] Questo
aneddoto è riferito da Luigi Zoja in Paranoia,
La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri, 2011.
[8] Così Francesco
Pecoraro ha risposto alla domanda del sottoscritto, posta al termine della
presentazione del suo romanzo a Perugia, Umbria Libri, sabato 5 ottobre 2019.
Pecoraro ha aggiunto di aver letto il libro, di considerarlo un grande libro,
ha inquadrato Moresco come ex militante di Servire il popolo, il cui capo è poi
traslocato in Forza Italia. Ha dichiarato di non ricordarsi dell’apparizione di
Lenin.
[9] Difficile non pensare alla campana del film Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij. Le propagazioni simboliche di quel rintocco nel film di Sokurov sono così profonde che occorrerebbe un saggio a parte.
[10] «[…]
C’era soprattutto un fanatico agitatore di nome Hitler, che teneva adunate a
base di risse selvagge e aizzava il pubblico nel modo più volgare contro la
repubblica e contro gli ebrei. Il nome cadde dentro di me senza peso e non mi
occupò oltre. Quanti nomi oggi del tutto dimenticati di sobillatori e di
rivoltosi venivano allora a galla in Germania, per sparire poi altrettanto
presto! C’erano il capitano Ehrhardt con le sue truppe baltiche, il generale
Kapp, la setta degli assassini della Santa Feme, quella dei comunisti bavaresi,
dei separatisti renani, ecc. ecc. Nel fermento generale si formavano a
centinaia queste bollicine che scoppiando non lasciavano dietro di sé altro che
un po’ di cattivo odore, il quale rivelava chiaramente il processo di
putrefazione nelle ferite ancora aperte della Germania. […]» Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Incipit Hitler.
Domenica scorsa mi sono commosso. Mi sono commosso nel luogo forse meno deputato e certamente più inappropriato ai sottili moti dell’animo, uno stadio di calcio, e precisamente lo Stadio Olimpico di Roma. Ma mi sono commosso per l’unica ragione per la quale, venendomi qua incontro lo scrittore Roberto Bolaño, è inutile impedirsi di bagnarsi gli occhi di lacrime, e cioè per i propri figli.[1]
Mio figlio, sette anni, si è appassionato, come molti suoi coetanei di oggi e di ieri, al calcio. È iscritto ai pulcini di una società di calcio e tifa per la Juventus, come il nonno e lo zio materni. Sogna, vagheggia, programma di andare all’Allianz Stadium di Torino. Ha avuto una esaltazione per CR7, presto rientrata. Quando gioca con i suoi pupazzetti o omini sento nominare Dybala, Bernardeschi e ora Higuain, mai Ronaldo. Imperscrutabili vie del gradimento infantile, meno eterodiretto di quanto si sia soliti pensare.
Chi scrive
non ama né segue il calcio, guarda qualche partita dei Mondiali ogni quattro
anni.
La passione
di mio figlio per il calcio non proviene dal padre.
Un vecchio
zio, ex giornalista sportivo, mi ha gentilmente procurato due biglietti in
tribuna d’onore per una partita della Lazio. Noi siamo in Umbria, e Roma è lo
stadio di serie A più vicino e più agevole da raggiungere. Perché proprio la
Lazio? Perché, ha detto il vecchio zio, sono partite più tranquille quando
gioca con squadre minori. Quelle della Roma sono più incasinate. In primavera
abbiamo assistito a Lazio-Parma, 4-1. Mio figlio si è emozionato, certo lo
stadio è la cosa più spazialmente grandiosa in cui si possa accedere. Al primo
goal della Lazio, al primo boato che si è levato dalla curva si è spaventato
per l’onda sonora; nel prosieguo ho notato che si portava le mani a tappo sulle
orecchie ogniqualvolta un’azione si faceva pericolosa.
Domenica
scorsa, 29 settembre, era la seconda volta. Lazio-Genoa. Noto che mio figlio mi
chiede se so fischiare. E noto che questa volta ripete gli slogan della curva
laziale. Questa volta siamo in Tribuna Tevere, lato curva laziale, appunto.
Siamo circondati da tifosi laziali, certo meno scalmanati di quelli della
curva, più seri, concentrati, preoccupati, forse. Siamo attorniati da magliette
bianco-celesti, da sciarpe ugualmente bianco-celesti, ci sono anche bambini e
bambine, ragazzine con il piercing, una con la bretella della salopette calata,
giovani donne, ormai il calcio è un fenomeno transgender, diciamo così. Nessun
segno della mala fama cui l’immaginario associa la tifoseria laziale.
Entrando allo stadio, ai varchi, mio figlio ha dichiarato che tifava la Lazio. Non l’ho preso sul serio, anche perché lui è juventino. Io stesso, estraneo come sono al calcio, ho difficoltà a concepire che si possa tifare per due squadre contemporaneamente. La fede è una.
– E tu, mi
ha chiesto?
– Io non
tifo, che vinca il migliore.
La Lazio va
in rete dopo pochi minuti dal fischio d’inizio; lo stadio esplode; attorno a
noi tutti all’istante in piedi; mio figlio eccolo tapparsi le orecchie.
Non passano
neanche quindici minuti che la Lazio scatta in contropiede e raddoppia. Solo
che, dopo il boato e il tutti-in-piedi (mio figlio non si è tappato le
orecchie), avviene una cosa strana. La palla non viene riposizionata, come di
consueto, sul dischetto a metà campo, e si vede l’arbitro, o meglio il giallo
fluo della maglietta arbitrale, confabulare con il giallo fluo della maglietta
di uno dei due guardalinee. Poi il giallo fluo arbitrale esce dal rettangolo
verde a va a consultare l’oracolo, il VAR. A questo punto sale rapidamente e si
installa un fischio assordante. Sembra che un aereo immenso sia fermo da
qualche parte in attesa del rullaggio. Dico a mio figlio che forse era
fuori-gioco, sebbene io non me ne sia accorto, e neppure lui. Al fischio
assordante, che non accenna a calare, si assommano ora sia un buio e
minacciosissimo buuu, sia, alle mie spalle, una sequela di a
‘mbecille, a scemo, a ‘n’ vedi che pezzo de mmerda,
presumibilmente indirizzati al direttore di gara. E qui la commozione. Mentre
l’arbitro convoca i due capitani discosti dal resto delle rispettive truppe e
spiega loro qualcosa, mi avvedo che mio figlio si è unito al coro dei buuu
(lui non sa ancora fischiare) e fa il gesto del pollice verso.
Ah, ecco, mi
dico, è così dunque, è così che si aderisce, che si prende parte, che si rompe
la neutralità e si spazza la sua coscienza infelice.
Adesso che
scrivo penso che in quel momento ho perso mio figlio. Ah, è così che funziona,
allora, il bisogno di aderire come che sia, di prendere parte qualunque essa
sia, precede le ragioni, che sono successive, per cui si sta da questa o da
quella parte, con la Lazio o con il (povero) Genoa.
Al principio
della partita, dopo il fischio d’inizio, avevo notato che mio figlio mi stava
quasi seduto sulle ginocchia, tutto spostato verso di me, fuori dal suo sedile.
Dopo la sua adesione alla causa laziale constato che non si appoggia più alle
mie ginocchia, è sceso dal grembo.
Il primo
tempo si chiude sul 2-0. Da spettatore neutrale mi auguro che il Genoa faccia
almeno un goal, per riaprire i giochi. E invece no. Ora la Lazio attacca sotto
il settore dove noi siamo, e fa altri due goal. Il secondo, spettacolare,
magistrale, lo mette a segno dal centro dell’area di rigore Ciro Immobile, il
centravanti, il beniamino della tifoseria laziale. Che cognome meraviglioso,
tra parentesi, per un attaccante di punta! Lo stadio esplode, tutti-in-piedi, e
parte lo slogan «Alééééé – alé alé alé – Ci ro – Ci ro»… Mio figlio si unisce
al coro. E qui mi viene da piangere.
Ah ecco, è
così, dunque. Vai, figlio mio, allora, entra nella vita, nella mischia e nella
battaglia, schiérati, e voi, bandiere, striscioni e urla di stadio accogliete
questa nuova recluta. La proteggerete, vero? E non so se sono stato grato, per
questo rito di iniziazione. Chi ha insegnato a mio figlio di sette anni l’urlo
di guerra? Certo non io, i bambini imparano da soli le cose fondamentali.
Getto
l’occhio dall’altra parte dell’immenso anfiteatro, alla curva opposta, dove sono
confinati gli sparuti tifosi del Genoa. Sono quattro gatti, tutti raccolti in
un settore inferiore della curva, addossati ai pannelli di contenimento in
plexiglas. Il resto della curva è vuoto, sembrano naufraghi attaccati alla
zattera in mezzo a un mare di sedili blu. Mi fanno pena. E mi fa rabbia
che quando, la partita ormai prossima alla conclusione schiacciante sul 4-0, lo
speaker annuncia che la tifoseria ospite è invitata a restare nel proprio
settore e sarà accompagnata fuori dalle forze dell’ordine (annuncio di rito),
si levi un fischio di dileggio dalla curva, cui si unisce anche mio figlio,
sebbene non sappia fischiare.
– Almeno non infieriamo! gli dico.
Che bisogno
c’è di umiliare l’avversario quando è a terra?
«La mia esperienza come giocatore di calcio – scrive Bolaño in Diccionario autorreferencial – non è mai stata compresa del tutto né dagli spettatori né dai miei stessi compagni. A me è sempre sembrato più interessante segnare un autogol che un gol. Un gol, a meno che uno non si chiami Pelé, è qualcosa di eminentemente volgare, e oltremodo scortese nei riguardi del portiere avversario, che non conosci e che non ti ha fatto niente, mentre un autogol è un gesto di indipendenza.»
Da ragazzino
ho giocato a pallacanestro. Partita di campionato. Al lancio di inizio della
palla un mio compagno di squadra si ritrova del tutto inaspettatamente la palla
in mano, parte sparato verso il canestro. Si sentono urla, che lui accoglie
come incitamento, raddoppia la velocità e arriva al canestro in terzo tempo da
solo, seminando qualunque avversario. Fa canestro, cosa non scontata dato che
non era proprio un gigante del basket. Si gira, esulta. Il canestro era quello
sbagliato, era il nostro, le urla non erano di incitamento ma di disperazione.
Fu il primo, e forse l’ultimo auto-canestro della storia di questo sport.
Ora, senza aspirare a raggiungere le prodezze calcistiche e letterarie di Bolaño, che aprono certamente la breccia al comico, all’insubordinazione e al teppismo, e volendomi mantenere nella neutralità svizzera della coscienza infelice, e consapevole altresì che se un padre porta un figlio di sette anni allo stadio e non gli indica l’avversario da abbattere è un padre del cazzo, come sarebbe un padre del cazzo un padre che porta suo figlio alla messa e gli dice che dio non esiste, penso che oggi sia nato un mostro, un tifoso, un guerriero, un partigiano, e che a concepirlo non sia stato io ma il tifo, a partorirlo sia stata questa immensa vulva gradonata, io non lo riconosco mio figlio, è un estraneo, e sono grato a questa religione basica di avermelo portato via, di avermelo battezzato e immunizzato contro i tormenti della coscienza neutrale, inquieta ed infelice, lui si è divertito un mondo quando la curva è esplosa nel chi non salta – della Roma è – è ed io gli ho detto, perché lui non capiva, qui bisogna saltare per forza, siamo circondati da laziali, altrimenti ci fanno fuori, e in effetti gli ho preso la mano e siamo saltati come due scemi, io soprattutto, ma più per gusto dell’autogol che per altro, e poi siamo tornati alla macchina e poco dopo si è addormentato sul seggiolino, e io, guidando per Roma, lo guardavo nello specchietto retrovisore e non lo riconoscevo, quel piccolo mostro, quell’estraneo, quel cucciolo della specie, naufrago anche lui come tutti, che ha fiutato il pericolo della coscienza neutrale e infelice e ha chiesto asilo alla zattera più sicura degli spalti.
[1] Roberto Bolaño non è uno scrittore sentimentale, su questo posso farmi garante. Ecco quello che egli dice, rispondendo alla seguente domanda:
Sei d’accordo
con chi dice che per un padre il momento più felice, ma anche il più
drammatico, è quando il figlio se ne va?
«Non sono d’accordo. Se fosse per me, mi piacerebbe
vivere cent’anni ed essere sempre lì a proteggere mio figlio. Credo che la
ragione non c’entri per nulla nel rapporto padre-figlio. Forse nella prospettiva
del figlio la ragione prevale, grazie a Dio, ma nella prospettiva del padre è
molto difficile che possa prevalere. Uno reagisce in modo viscerale, reagisce a
seconda di come si accumulano le paure e le angosce. Per esempio, finché non
sono diventato padre era molto difficile ferirmi. Credevo di aver raggiunto una
certa invulnerabilità. Dal momento in cui ho avuto il mio primo figlio, è
finita; voglio dire, tutti i terrori e le paure di cui ho sofferto nell’adolescenza
sono tornati raddoppiati, moltiplicati per cento, perché io posso sopportarli,
ma non voglio che li debba sopportare mio figlio. È una cosa spaventosa, e ora
per di più ho anche una figlia, e non ti dico, mi metterei a piangere. L’unica
spiegazione che potrei darti è mettermi a piangere. È intollerabile.»
Intervista di Eliseo Álvarez a Roberto Bolaño, in L’ultima conversazione, sur, 2012, Le posizioni sono le posizioni e il sesso è
il sesso.
In quell’epoca, come in ogni epoca, ma più ancora in quell’epoca le persone normali non volevano sentir parlare di poesia, e soprattutto non volevano sentire né, tantomeno, leggere poesie.
Se qualcuno, ad un pranzo, per esempio, e dopo la frutta proponeva
di leggere una poesia, si levava unanime un coro di ironici «anche no», di
annoiati «te prego», di sarcastici «rieccolo», «aridaje», di commiserevoli «’mo
anche questo».
Il più culturalmente scafato, sornionamente scorretto, citava il noto detto di un ministro della cultura, adattandolo all’occasione: «Quando sento parlare di poesia, tiro fuori la rivoltella.»
La conversazione attorno alla tavola ancora apparecchiata riprendeva
il suo placido corso, come una nave da crociera che avvista uno scoglio ma poi
si capisce che è solo un ammasso di alghe e di plastica.
La poesia, in quell’epoca, come in ogni epoca, ma in ispecial modo in quell’epoca, era considerata una molestia. E non, si badi bene, perché le persone normali non fossero sensibili alla poesia, tutt’altro! È che le persone normali erano connesse, ciascuna per conto suo, come se portasse alle orecchie invisibili cuffie bluetooth, alla superpoesia, alla vera sorgente della poesia, cosicché ogni singola proposta di poesia non poteva apparire che un intralcio, un disturbo della frequenza superpoetica, ed ogni presuntuoso poeta (o lettore di poesie, che è, quest’ultimo, un subdolo poeta in incognito che procede larvato per poi, quando meno te lo aspetti, assestarti alla schiena una poesia sua, come una pugnalata) apparire un molestatore, uno che mentre ti godi il silenzio della superpoesia ti viene a rompere l’anima con una sua poesiola del cazzo che parla delle sue gioie e dei suoi fallimenti, e te li vuole vomitare addosso, e tutto questo perché non vuole spendere € 200,00 al mese per farsi dare una guardatina.
Sebbene le persone normali si intrattenessero in lunghe conversazioni sui gossip più succulenti dell’epoca, sulle tariffe e sulle offerte telefoniche più vantaggiose dell’epoca, sulle nuove stagioni delle serie tv e su alcuni video epocali, nonché su ricette vegane, quella era solo l’apparenza. Senza darlo a vedere ciascuna delle persone normali ascoltava ininterrottamente la voce eterna della superpoesia; senza quella universale armonia nessuno di loro sarebbe sopravvissuto fino al caffè e fino alla fine dei conversari; però quell’armonia era una risorsa segreta che ciascuno, in cuor suo, reputava di avere in esclusiva, e non ne aveva mai fatto cenno ad alcuno, perché ciò avrebbe automaticamente condotto alla petizione di principio, vale a dire a parlare di poesia, e con ciò, inesorabilmente, ad autoesiliarsi nella sventurata, sfigata schiera dei poeti molestatori.
Ognuno, a quell’epoca, come in ogni epoca, ma massimamente in quell’epoca stava solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di superpoesia, e non lo veniva certo a dire o a rivelare a nessuno, nemmeno quando scendeva la sera e i volti delle persone normali, sedute attorno alla tavola apparecchiata, si illuminavano del riverbero degli schermi dei cellulari non ancora dimmati, ai quali sorridevano nel buio (si vedevano i denti bianchi, i pollici intenti a scrollare ad elevatissime velocità). Sembravano le persone normali tutte rapite da qualcosa di alieno, mentre in realtà stavano connesse, tutte, seppur singolarmente, alla superpoesia, e questo segreto le rendeva forti, ognuna per conto suo, ognuna con la mente orbitante nella propria traiettoria superpoetica, e solo la voce che, quando già era caduta la notte, si levava e proponeva la lettura di una poesia faceva sì che le persone normali si coalizzassero all’istante, fulmineo ciascuna facendo ritorno dal proprio trasognato orbitale sulla terra, attorno alla tavola imbandita per la cena, per fare schiera compatta contro il fracassatore, contro il molestatore, contro l’importuno violatore di segreti.
Si potrebbe parafrasare, guardando oggi il cielo striato dal passaggio degli aerei, quanto scrive Franz Kafka da qualche parte.
Dice, Franz Kafka, e lo dice con altre parole, e mi scuso di questa approssimazione, ma vado a memoria, dice che i corvi non possono demolire il cielo. Non lo possono demolire proprio in quanto il cielo è assenza di corvi.
Questa osservazione, senza dubbio eterna, può oggi essere trasposta, applicata, per così dire, alle strisce nel cielo, alle scie? Potremmo davvero dire che le scie non demoliscono il cielo, perché il cielo è appunto assenza di scie?
Non saprei, certo è che l’immagine subisce una degradazione ontologica nel passaggio dall’eternità atemporale dei corvi alla contingenza moderna delle scie.
A sistemare le cose ci pensa l’arte contemporanea, questo sistema fraudolento che ricuce ogni lacerazione.
Il cielo striato dalle scie è un’opera d’arte, sub specie installationis.
Che il cielo fosse una tavolozza da disegnare o da incidere lo teorizzarono, un secolo fa, i futuristi. L’esortazione a sparare al chiaro di luna ne fu il logico corollario. Lo scrittore cileno Roberto Bolaño ha narrato le immaginarie imprese di un aviatore-artista-performer, filofascista e, probabilmente, sicario dei colonnelli argentini. Il perfomer compie delle acrobazie aeree, traccia segni nel cielo, un po’ come le feccie tricolori. C’è qualcosa di intrinsecamente fascista nella volontà di colonizzare il cielo. Fino ad ora il fascismo è stato associato al nomos della terra, sangue e zolla. E invece no, dovremmo rivedere le categorie. Mi sto perdendo. Ah sì, l’arte novecentesca. Il cielo striato dalle scie, anzi da una sola scia, non è un’opera di Fontana? I tagli, gli squarci, le fenditure, le lacerazioni, le ferite, le bruciature, le suture non sono segnacoli certi della presenza del contemporaneo?
Può restare il cielo in una condizione non aggiornata, non al passo con i tempi moderni? Finalmente c’è qualcosa che è in grado di demolire il cielo, questo retrogrado fondale inconcusso, che non merita di essere ospitato ed esposto in nessuna biennale. Questo qualcosa è l’arte contemporanea.
“Untitled” (waves breaking on shore), 2018, Lilian Sylvia Argüelles, courtesy the artist
Si pensa che le lacerazioni del cosmo siano un’invenzione moderna. C’è chi non a torto sostiene che dopo Hiroshima il cielo è crollato. L’assottigliarsi della stratosfera elargisce insperate prospettive, e ospitalità in biennali, agli artisti più intrepidi ed estremi.
L’arroganza dei moderni non ha limiti. I limiti dei moderni sono arroganti.
Gli antichi sapevano bene che il cielo è un teatro di guerra. L’attributo principe del dio supremo, Zeus, è il fulmine.
E il mito non ci narra forse del carro del dio sole maldestramente condotto da suo figlio privo di patente che sbanda paurosamente ed avvicinandosi troppo al pianeta terra crea i deserti, discostandosene troppo creai i poli con i loro perenni (almeno allora) ghiacciai, crea incendi nei tramonti, macchie solari, immani disastri celesti….?
Il carro del sole era invisibile, noumenico, benché tutte le mattine, all’alba, uscisse dalle buie rimesse della notte trainato da destrieri di fuoco. Gli aeroplani, invece, si vedono; per quanto piccolissimi sono oggetti fenomenici, lassù a 10.000 mt di quota. Di notte sembrano astri, se non avessero quella luce rossa intermittente e se non si muovessero sul posto troppo velocemente. Di notte non si vedono le scie, il cielo è demolito ab imis fundamentis.
Talvolta si sentono passare jet militari, echi di guerra. Si ode il tuono, ma i caccia non si vedono, chissà perché. Per il resto il cielo è placido, ben costrutto, scie a parte.
Se vogliamo davvero figurarci il disastro del cielo dobbiamo chiudere gli occhi sotto il sole e assistere, davanti o dentro o dietro le palpebre, alle rosse esplosioni nucleari che sono all’origine e alla fine del cielo, quegli incendi e quei bagliori di materiale incandescente, quella sì vera demolizione del cielo, come avevano visto, chiudendo gli occhi, gli antichi, sempre più contemporanei di ogni contemporaneo.
Il sogno simbolico («che veste di metafore, come una specie
di indovinello, un significato che è incomprensibile senza la spiegazione»,
Eric Dodds, I greci e l’irrazionale,
Rizzoli bur, 154) costituisce una prova per inferenza della natura «duplice»
della psiche umana. I sogni parlano un linguaggio cifrato per non farsi capire
da qualcuno o per non offenderlo, ed evitare così una sua reazione. Chi sarebbe
questo qualcuno? Una parte, una funzione della psiche del sognatore. Qui si
divaricano (in apparenza) due possibilità alternative: 1. Questo qualcuno è supero; 2. Questo qualcuno è infero. Questo qualcuno non deve capire
il significato del sogno perché è più forte di noi (supero) e se lo capisse si
adonterebbe e ci potrebbe far male; questo qualcuno è più debole di noi
(infero) e se comprendesse il sogno si offenderebbe e ci incolperebbe. Finora
mi sembra prevalente che la censura nel sogno sia concepita come una protezione
da una minaccia che incombe possente (il sogno simbolico è scritto in un codice
criptato, come quello dei congiurati che non devono farsi scoprire dalla
polizia segreta del tiranno); meno studiata mi sembra la seconda ipotesi,
quella per cui la crittografia/censura sarebbe posta a protezione di una
fragilità che rischierebbe di andare in frantumi qualora accedesse al vero
significato onirico (la cifratura del sogno, in questo secondo caso, sarebbe
equivalente a due adulti – genitori? – che parlano tra di loro alla presenza di
un bambino, o di due persone sane che parlano alla presenza di un malato, o di
due persone normali che parlano alla presenza di un handicappato o di un
demente, usando un linguaggio
inaccessibile al terzo presente.
[2]
Note sull’umano
«Umano», «umanissimo» indica una qualità residuale, ma
resistente, resiliente si direbbe oggi, e alla fine trionfante su ogni altra
meno mite e meno tollerante qualità.
Definire cosa sia «umano» non può farsi se non a contrariis, individuando ciò che
«umano» non è.
Inizialmente la fiera, la belva, la bestia, l’animale.
Poi il dèmone, il diavolo, il demonio, la tentazione, la
possessione, ciò che incombe sull’umano essendo però da esso distinto, entità
separata.
(Sarà un caso se anche un papa come Bergoglio, pur con tutta
l’apertura al moderno e le spallate alla parte più polverosa della dottrina,
abbia recentemente riaffermato l’esistenza del diavolo?).
Infine la macchina, la tèchne, il fucile, il cannone, il
carrarmato, il caccia bombardiere, la bomba atomica, il computer, internet, la
robotizzazione, l’intelligenza artificiale.
Dagli giù a delimitare un giardinetto ben curato, anche se
nascosto, dove alla fine dei giochi tutti, chi prima chi poi, tornano, il
violento (la belva), il malvagio (il diavolo), l’alieno (la tèchne).
Come se la belva, il diavolo e la tèchne non fossero
elementi costitutivi dell’umano, come
se, poretto, l’uomo, e con lui l’«umano», l’«umanesimo», l’«umanissimo» fosse
quel brandello di carne superstite dopo che le tre furie inumane e disumane, la
belva, il diavolo e la tèchne se lo sono sbranato, e non fosse invece l’entità
trifauce che divora se stessa.
[3]
Ulisse di Joyce e il coro tragico
Nella intro alla sua traduzione italiana (Newton & Compton) Enrico Terrinoni parla di quella voce fuori campo che viene a interferire nella narrazione, e richiama il concetto di orchestratore e più avanti di inconscio testuale. La paternità del famoso flusso di coscienza viene fatta invece risalire ai monologhi shakespeariani. È evidente che invece la genealogia di quella voce «esterna» sia più semplicemente da riconnettere, come una sua filiazione, al coro tragico. Il coro si pone a metà strada tra quello che pensa il personaggio e quello che pensa il lettore (il pubblico, la polis). E a questo punto si può anche sostenere con qualche argomento che il coro tragico, la funzione di esso, sia anche alla base del flusso di coscienza (e perché no, anche del monologo shakespeariano). In fondo nel flusso di coscienza non è più il solo personaggio che pensa come soggetto, ma chi parla è un soggetto dilatato, pluripersonale, co-individuale. Se proprio la vogliamo dire tutta, il coro tragico sta anche alla base dell’inconscio collettivo junghiano. Sotto questa prospettiva si possono spiegare agevolmente sia una certa oscurità del flusso di coscienza sia la sua procedura ellittica e per frammenti. Il coro tragico, erede a sua volta della funzione oracolare, non raramente è oscuro. L’ellitticità e la frammentarietà sono, oltre che la condizione filologica nella quale ci sono giunti i materiali del coro tragico, sono appunto le modalità attraverso cui si estrinsecano le oscurità e le voci plurali dell’io.
2.8.19 – XXXIX
anniversario strage stazione Bologna
Dell’eroismo e dell’erotismo
Per secoli, per millenni, certamente dal cominciamento
dell’Australopiteco, essere uomo ha significato principalmente saper uccidere
un altro uomo, oltre ovviamente a saper uccidere le fiere. Questo è durato
ininterrottamente da allora fino, direi, alla riforma del diritto di famiglia e
all’abolizione del delitto d’onore, fino all’altro ieri. In molte parti del
mondo essere uomo significa ancor oggi saper uccidere un altro uomo. Non
importa se con il pugnale o con un arma da fuoco. Io non sono capace di
uccidere un altro uomo. Non saprei come fare, non so come si affonda il pugnale
o come si strangola o come si spara.
Da quando in alcune, poche aree del mondo, essere uomo non coincide più con la capacità omicida è avvenuto questo: la rinuncia alla vendetta, la rinuncia al delitto passionale, la rinuncia alla scarica liberatoria della violenza ha operato una traslazione di questa energia compressa ed inesplosa all’interno della psiche, dove esplode: sono insorte lotte e guerre interiori, dove i nemici assumono le sembianze dell’ansia e dell’angoscia. Talvolta alcuni di noi, sopraffatti, usano malamente un coltello da cucina, o una bottiglia di vetro spaccata, o una corda, ma dopo vengono sottoposti a trattamento e sedati.
Faccio una breve digressione letteraria – ma cos’è la letteratura se non una lunghissima digressione dallo statuto ferino dell’essere uomo? Quello che qui sopra ho tentato di dire lo ha detto, e con il suo consueto mirabile dono di sintesi, Vladimir Nabokov. Da qualche parte il solito io narrante racconta di come avesse dovuto abbozzare, per non sembrare antiquato e demodé, di fronte alle «amicizie» della sua giovane moglie con altri uomini, in particolare con un altro uomo. Quando capitava di incontrare l’altro uomo alle feste, feste sofisticate, beninteso, l’io narrante ci parlava come se nulla fosse, nascondeva con i sorrisi e le battute la sua folle gelosia, ma in cuor suo avrebbe voluto prendere a bastonate il rivale, come un qualsiasi rude plebeo.
La rinuncia al rude plebeo che è dentro ognuno di noi ci è
costata, e ci costa, cara.
La stragrande maggioranza degli uomini – degli umani
maschi – vive ancor oggi su questo pianeta identificando il proprio status di
uomo con la capacità di uccidere un altro uomo. E non penso solo ai Talebani, o
ai Ceceni, o ai terroristi del Califfato. Il recente delitto di Roma, dove un
giovane statunitense ha pugnalato, uccidendolo, un carabiniere, conferma che
questo assunto non riguarda soltanto i paesi e i popoli meno sviluppati
economicamente e meno democratici.
Noi inadatti all’omicidio siamo minoranza. E siamo bastonati due volte, perché non solo ci sobbarchiamo il fardello di reprimere l’impulso omicida, con tutto ciò che come si è detto ne consegue; ma dobbiamo pure percepire una sorta di sorda derisione da parte delle moltitudini avvezze alla strage. Siamo tornati ad essere gli imbelli, i froci della nonviolenza, le femminucce pacifiste. Ci cachiamo sotto se ci troviamo nei paraggi di una sassaiola, fuori dallo stadio. È, come sempre, una questione di eroismo (e di erotismo). In rari momenti della storia della fiera umana, in certe civiltà all’apice della raffinatezza, l’eroismo è di chi non si lascia travolgere dalla pulsione omicida, di chi si dedica alla filosofia e alla musica, di chi eccelle nell’arte della conversazione non in chi trionfa nelle risse. Purtroppo queste epoche non solo sono rare, ma durano poco. Camminano sul crinale sottile di un precarissimo equilibrio, e basta un nonnulla (mi viene in mente la Repubblica di Weimar, ma è solo un esempio) perché tutto riprecipiti nella concezione australopiteca dell’eroismo (e dell’erotismo), perché l’eroe non sia più quello che sa maneggiare una penna o suonare una chitarra ma quello che sa come si impugna, e si affonda, il coltello.
Tutta questa immane goduria, tutto il tripudio tecnologico
che ci consente alfine di vivere il sogno che l’umanità ha sognato dalle palafitte
e dalla caverne, tutto il benessere delle nostre società affluenti se non
opulente, l’accesso alla rete globale, le infinite opportunità odierne, e
future, i voli low cost, le terapie laser, tutta questa immane, inedita
felicità genera un’esclusione, anzi ne genera due.
Questa immane goduria estromette violentemente dal banchetto
i depressi, i quali, al cospetto di cotanta felicità e di cotanto fasto e di
cotanto giubilo, si sentono ancor più falliti e più inutili e perciò ancor più meritevoli
della propria disperata condizione. Più aumentano le promesse di felicità e di
benessere, più si squarcia l’abisso della disperazione dei falliti.
La depressione è un’epidemia di questo nostro tempo non perché essa non sia esistita anche in passato, ma perché in passato la felicità era merce rara e il depresso non si sentiva così tanto una merda a restare la sera in silenzio accanto al focolare mentre la nonna faceva i lavori a maglia e gli uomini giocavano a briscola. Aleggiava un’aria di depressione generale, e nessuno aveva l’arroganza di puntare l’indice verso il depresso.
Ma – ed eccoci alla seconda esclusione – più aumentano le promesse di benessere e più si relegano in un aldilà irrilevante i morti, che non possono condividere tutto questo darsi da fare per massimizzare le occasioni di felicità, per farsi ciascuno una bella abbuffata di benessere. E così neppure i morti tornano più, non vengono più a farci visita, perché nessuno ha più tempo per loro, per la loro trasognata lentezza, per la loro inutile giagulatoria, non stiamo più le sere davanti al focolare, non facciamo più l’uncinetto, non giochiamo più a carte e i morti non restano più con noi, si vanno ad impiccare in garage.
I morti allora provano a venire a farci visita nel sogno. Ma
data l’enorme eccitazione che ci dà la continua, incessante, insonne promessa
di felicità andiamo a dormire tardissimo e per prendere sonno mettiamo sotto la
lingua una pastiglia, e la pastiglia ci induce un sonno neutro, senza sogni, e
i morti restano fuori dal sogno, come un innamorato resta fuori dalla porta serrata.
*
Quelli che dovevano essere i mezzi e gli strumenti di
distruzione della solitudine umana, i mezzi di comunicazione ovvero i vettori
della goduria e della jouissance, dal telefono alla tv ai social, si sono
invece rivelati i produttori della più immane solitudine che l’umanità abbia
vissuto e sperimentato nella sua oramai non brevissima parabola.
Io questa cosa l’ho capita ma forse dovrei dire che l’ho
vissuta quando ero ancora bambino, quando tutta la mia numerosa famiglia era
inchiodata dopo cena davanti a «Portobello», che pure, se paragonato
all’intrattenimento che di là a poco sarebbe venuto, era un programma più che
lodevole, a ripensarci. Volevo parlare con qualcuno della mia numerosa
famiglia, ma tutti loro erano come rapiti, come drogati, come trasportati o
teletrasportati altrove, non stavano lì, lì c’erano solo i loro corpi, a me
veniva sonno e una non ancora identificata noia o malinconia, me ne andavo a
letto da solo prima di tutti.
Ora che sono diventato vecchio mi rendo conto che il male che mi ha fatto la televisione e che mi ha fatto l’innocuo Enzo Tortora non solo ha radicalizzato il mio odio ma lo ha deviato verso l’obiettivo sbagliato. Invece di solidarizzare con coloro, e sono ancora molti, che guardano la televisione e vanno sui social e poi magari leggono anche un libro, ho eletto loro a miei nemici irriducibili. Mentre le folle e le plebi drogate di visioni non mi interessano e non sono degne del mio disprezzo, anzi costituiscono un interessante terreno antropologico sul quale eseguo i miei esercizi di stile orientati alla catastrofe, i pochi che ancora un po’ leggono sono i veri destinatari del mio odio puro, perché essi sono i traditori, gli apostati, sono coloro che hanno scelto la via mediana, coloro che, pur potendo, non hanno voluto abbracciare la fede fino in fondo, mi hanno lasciato andare a letto da solo, senza letture, senza preghiere.
Dicono che non crediamo più a dio. Non è vero. Vi crediamo non meno di quanto crediamo che l’acqua che beviamo dalla bottiglia di plastica sia proprio l’acqua della sorgente altissima e purissima che vediamo raffigurata sull’etichetta. Non crediamo meno a dio di quanto crediamo a Messner. Se non credessimo a dio non vivremmo, non ce la faremmo, dovremmo avere negli occhi la mattanza dei tonni e il mare rosso di sangue mentre mangiamo l’insalata di tonno e guardiamo l’etichetta che ci rappresenta ancora dio, in veste stavolta non di esploratore ma di nostromo, di capitanfindus, con la faccia cotta dal sole e lavorata dal cerone e dalle intemperie.
Senza dio non ce la faremmo, perché quando compriamo una
macchina nuova, anzi quando compravamo
una macchina nuova, giacché oggi le macchine non le compriamo più ma le prendiamo
in leasing, indebitandoci, quando prendiamo una macchina abbiamo in mente
paesaggi mozzafiato, rossi canyons rocciosi, altipiani con nuvole messicane
sullo sfondo, verdissime praterie scozzesi, in cui, suggeriti dalla pubblicità,
ci recheremo, e non paurosi ingorghi stradali e grovigli di lamiere e sangue e
arti sull’asfalto e ambulanze che tardano ad arrivare.
Però ci sono gli atei, i senza dio, gli agnostici, i quali,
in nome della laicità dello stato e del mercato, hanno voluto imporre, pur essendo
minoranza, un severo limite legale alla rappresentazione di dio. Sono una
minoranza di intellettuali che ci tiranneggia, detto per inciso. Ogni etichetta
del paradiso deve obbligatoriamente recare la dicitura «l’immagine è puramente
evocativa e non rappresenta la realtà del prodotto.»
Ma come, allora quella bella lattuga sulla quale si adagiano
filetti di tonno accanto a pomodorini ancora stillanti goccioline d’acqua, è
tutta un’illusione?
Che gusto ci provano, questi atei, questi zelatori della
nuda realtà, a toglierci financo questa semplice consolazione?
Ci rechiamo nei templi commerciali, facciamo code pazzesche prima di poter parcheggiare, poi finalmente entriamo nel paradiso dell’aria condizionata, e possiamo acquistare un pinguino. L’etichetta sulla scatola lo fa vedere bene il polo, i suoi immensi e perenni ghiacciai. I senza dio hanno fatto scrivere che quell’immagine è puramente evocativa e non rappresentativa. I senza dio dicono pure un’altra cosa brutta, che quei ghiacciai a breve non ci saranno più, che si stanno squagliando perché noi vogliamo stare freschi l’estate.
Come fanno a vivere senza dio, senza pinguino, questi jettatori, questi invidiosi, questi propalatori di dubbio e di odio? Bevessero loro l’acqua del sindaco piena di cloro e di schifezze, andassero a sfracellarsi loro sulle strade con le auto accartocciate, andassero al polo nord loro e trovassero solo scorpioni e serpenti del deserto, mangiassero tonno insanguinato e ci lasciassero in pace, ci lasciassero adorare il dio delle acque fresche, dei tonni selvaggi, delle auto potenti e dei pinguini.
L’immagine, la sequenza di immagini drammatiche del rogo del super jet dell’Aeroflot ha qualcosa di agghiacciante. Mentre la parte posteriore è in fiamme e dentro stanno bruciando vivi più di quaranta esseri umani, tra cui due bambini, si vedono alcuni passeggeri superstiti che si allontanano a piedi dal velivolo.
5 maggio 2019. Mosca, aeroporto di Sheremetyevo
I media internazionale hanno messo in risalto come il comportamento di alcuni passeggeri, che al momento dell’evacuazione si sarebbero attardati a ritirare dalle cappelliere il loro bagaglio a mano, avrebbe ostacolato l’esodo e determinato la morte di alcuni altri passeggeri che avrebbero diversamente potuto scampare al rogo.
Nell’immagine i bagagli a mano dei passeggeri superstiti che
si allontanano dall’aereo in fiamme sono cerchiati in rosso.
Ciò che però, di questa immagine, risulta agghiacciante, è
un’altra cosa. I passeggeri superstiti, benché ormai abbondantemente fuori dall’area
di rischio, non si fermano, non si voltano indietro. Non si riuniscono in
capannello. Non si abbracciano. Se non ci fosse, alle loro spalle, il rogo dell’aeromobile,
si direbbe che quei passeggeri si stiano dirigendo, con i loro trolley, a prendere
il prossimo volo.
Non intendo giudicare, perché io sto qui a scrivere sulla
tastiera e quelle persone hanno certamente vissuto momenti di panico. Sicuramente
sono sotto shock. Ma, appunto, se uno è scioccato, non gliene importa niente
del trolley, cerca un aiuto, urla, si dispera, piange di quel pianto speciale
che è il pianto dei salvati ancora increduli. Non intendo quindi giudicare.
Questa immagine è tragicamente indicativa. A me è sembrata e sembra una metafora della
nostra condizione umana globale. Mentre la maggioranza dei passeggeri resta
intrappolata tra il fumo e le fiamme, la minoranza si mette in salvo, e nemmeno
si prende la briga non dico di aiutare, che non lo potrebbe, ma di guardare.
Il super jet dell’Aeroflot è come il nostro mondo, il nostro pianeta terra, tranciato in due tronconi: il primo in fiamme, il secondo illeso. A incendio domato sembrano due entità distinte e incomunicanti, non le due parti di un medesimo oggetto.
Siamo ad un’apocalissi, ad un disvelamento. Se ci facciamo caso, i passeggeri superstiti non si girano neppure per fare un video con il proprio telefonino. Si è molto detto su come la società dello spettacolo abbia esteso a dismisura, all’epoca dei social, lo spettacolo del dolore. Qui sembrerebbe che siamo in presenza di una clamorosa smentita. E invece no. Questi passeggeri non si riuniscono, non si abbracciano, non piangono, ma da video che si possono guardare in rete si vede che poi, singolarmente, mentre il rogo continua alto a levarsi, hanno il telefonino all’orecchio, fanno chiamate, probabilmente a casa, e forse scattano anche qualche foto. Fortunatamente c’è un altro video, di fonte russa, Первые минуты после эвакуации с аварийного SSJ-100 (https://www.youtube.com/watch?v=Q3w4_9CoOIA ), che mostra una hostess con il suo intatto abito rosso sulla pista che soccorre un’anziana donna intossicata. Colonna sonora parte, questa è un’immagine di epica contemporanea.
Nel suo nuovo libro Lo stradone (Ponte alle Grazie, 2019), Francesco Pecoraro parla dell’incidente di moto che ha avuto il narratore. Scrive: «Chi non ha mai avuto un incidente di moto, non solo non ha testato la durezza ruvida dell’asfalto quando ti viene dato su una spalla o in testa o sulla gamba, quando ti colpisce la caviglia e te la spezza, ma non sa della bontà premurosa del civis che subito accorre, come non conosce davvero la sanguinaria ferocia del traffico urbano, che in quegli attimi si svela in tutto il suo essere forza bruta in movimento dotata di accelerazione, di velocità e soprattutto di massa: un peso in movimento che non guarda in faccia nessuno pur di procedere verso gli scopi individuali, quasi sempre futili, che lo compongono.»
La bontà premurosa del civis
è quella del pedone, ipotizzo, di uno che stava fermo al semaforo e ha visto l’incidente.
Il pedone condivide una condizione di vulnerabilità stradale, e pertanto
solidarizza con l’incidentato, sospendendo il suo moto verso gli scopi individuali
del sugo o dei figli o della palestra, e prestando soccorso e conforto.
Il traffico è, invece, un dio infero che ci trascende. Nell’immagine
da cui siamo partiti sembra che i superstiti facciano parte di quel traffico,
di quella massa dotata di una accelerazione einsteniana. Non possono fermarsi,
non possono abbracciarsi, non guardano in faccia nessuno, gli scopi individuali
li trascinano via.
Per comprendere la distinzione tra «civiltà della vergogna» e «civiltà della colpa» ripresa da Dodds nel suo libro sull’irrazionale nel mondo greco antico[1] o, meglio, per capire che cosa possa intendersi per «civiltà della vergogna» atteso che per noi cristiani è fin troppo facile capire cosa sia la colpa, mentre ci risulta più sfuggente afferrare nel suo insieme fondativo il concetto di vergogna, potremmo forse utilmente riferirci al funerale, ai riti funebri, alla liturgia del trapasso.
Nella civiltà della vergogna non ci si vergogna di allestire un suntuoso banchetto funebre per onorare il morto e la sua famiglia. Nel momento in cui si presenta il segno meno, la cultura della vergogna reagisce con un segno più; laddove qualcosa viene sottratto occorre che da un’altra parte ci sia sovrabbondanza. Sarebbe vergognoso celebrare il trapasso di un membro della comunità con una cerimonia misera, anzi ciò equivarrebbe a non celebrare alcunché. La civiltà della vergogna con la pompa e lo sfarzo, si noti il termine pompa, per inciso, sembra voler dire innanzitutto alla comunità: guardate che abbondanza, essa è la misura della potenza e della gloria di chi ci lascia; in secondo luogo con tale apparecchiamento e con tale esibizione di opulenza, la comunità sembra inviare un monito alla morte stessa e sembra dirgli: guarda chi arriva nel tuo tenebroso regno, abbi riguardo di lui.[2]
I funerali della civiltà della colpa sono tutt’altra cosa. La civiltà della colpa reagisce al segno meno con un doppio segno meno. Laddove qualcosa viene sottratto, occorre che pure un’altra cosa venga sottratta. Nell’apparente rispetto del defunto, il silenzio, l’espressione lugubre, il vestire di nero, gli occhiali da sole scuri, lo scarso desinare servono in realtà a placare il senso di colpa della comunità per essere sopravvissuta, per abbandonare il povero morto al suo nero destino. C’è, in questo ripiegamento nella tristezza, un (momentaneo) ritirare le ‘recchie, un (momentaneo) abbassare le creste (financo gli uomini politici si mostrano afflitti ai funerali di stato), un (momentaneo) occultamento degli appetiti vitali. In questa mestizia è come se tra i partecipanti alle esequie si aggirasse la morte in persona la quale, come un trucido caporalaccio, stesse a scrutare chi la prende per il culo, chi non si mostra addolorato e sconsolato, chi pensa di farla franca. Più che per rispetto del morto, nella civiltà della colpa si mostra allora afflizione per paura della morte propria. Nella civiltà della colpa ognuno sta solo di fronte alla morte.
Se la distinzione di cui discorriamo ha un senso, diversa è anche la natura di dio che ciascuna delle due «civiltà» sottende.
Il dio cui giunge il morto nella civiltà della vergogna è un gran signore, un gran visir dell’aldilà, attorniato dal lusso e dallo sfarzo, circondato di giovani e discinte odalische, e di giovani efebi. Presentarsi al cospetto di un tale dio come un miserabile e un pezzente che non ha nulla equivale a farsi prendere subito a calci dai suoi pretoriani prima di arrivare alla sala del trono; se poi il miserabile morto dovesse farcela a raggiungere il trono del sire, Egli lo farebbe scacciare dalla sua presenza con un gesto simile a quando si scaccia una mosca dalla guancia: il miserabile che avesse osato tanto verrebbe preso di peso, fatto a pezzi e gettato in pasto ai cani. Al cospetto di un simile dio si giunge al top delle possibilità, proprie e comunitarie (non c’è ancora una netta distinzione tra individuo e comunità): ecco spiegate l’abbondanza del banchetto, la musica della fanfara e lo sfarzo del cocchio funebre. Il mito di Orfeo, che con la sua musica vince i guardiani inferi, non avrebbe senso in una visione lugubre e privativa dell’aldilà.
Una traccia residuale di questo sfoggio permane nella civiltà della colpa odierna: si tratta delle vetture (che ancora chiamiamo carri) che le agenzie di onoranze e pompe funebri mettono a disposizione per l’ultimo trasporto, Rolls Royce, Mercedes, berline e limousine nelle quali mai prima è salito il 99,9% della popolazione mortuaria. Tracce di civiltà della vergogna possono permanere anche nella civiltà della colpa. La cultura rom conserva, certamente nel rito funebre, tracce della cultura della vergogna. Come le conservano le comunità dominate da organizzazioni criminali: l’area della Magna Grecia in Itala meridionale, con le sue storiche organizzazioni mafiose e camorristiche (l’antropologia culturale parla allo stesso modo di honor-shame culture), ne è un esempio che giunge fino ai nostri colpevolissimi giorni. Quando Papa Francesco scaglia l’anatema verso i parroci che fanno passare le processioni sotto le case dei capi mafia, i mafiosi non riescono a comprendere perché.
Carrozza funebre di Vittorio Casamonica, il boss del clan omonimo, chiamato “Re di Roma”. “Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso” recitava un manifesto all’entrata della chiesa.
Diverso è invece il dio sotteso alla civiltà della colpa. Qui abbiamo non un sire circondato dai lussi orientali ma un essere arcigno, macilento, ossuto, cadaverico, misantropo, vendicativo. Un essere solitario, senza nessun gusto per i piaceri mondani. Più che a Dante, penso a Ingmar Bergam.
Qui il morto deve fare attenzione, perché ogni minima sbruffonata, ogni minimo accenno ai godimenti terrestri e alla trascorsa felicità farà infuriare il dio degli scheletri. Questo dio dell’astinenza e del digiuno vorrà vedere al suo cospetto solo volti mesti e occhi rivolti verso il basso. Quando si arriva al suo cospetto i morti si fanno piccoli piccoli, pensano che rendendosi invisibili il dio della tremenda maestà non li veda e li lasci passare senza bastonarli. Ma questo trucchetto, va detto, è quello che maggiormente fa imbestialire il dio delle livide dimore, il quale sospetta (Lui è il Sospettoso numero uno) che quel farsi piccoli piccoli sia solo una finta diabolica per occultare la forza e la potenza vitale che si vuole contrabbandare nella sua valle stigia. E allora Ade, il dio bastonatore, si accanisce ancora di più sui morti che si fanno piccoli, perché Lui non vuole essere portato per il culo da nessuno. Qui il cerchio si chiude giacché sembra che abbia alfine ragione la civiltà della vergogna, o, se non ragione, almeno conosca meglio la mente capricciosa e contorta di Ade. Nella civiltà della colpa l’apparenza è sempre sospetta, sia che assuma le vesti dello sfarzo sia che si stracci le vesti, perché la colpa è insita, seppur nascosta, in ogni uomo e il Dio della colpa, che ben lo sa, non ha nemmeno la scelta se scacciare la mosca o lasciarla svolazzare ancora per un po’.
[1] Eric R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Rizzoli. Il traduttore italiano sottolinea che più correttamente dovrebbe parlarsi di cultura della vergogna (shame culture) e della colpa (guilt culture), provenendo tale partizione dall’ambito dell’antropologia culturale e dovendosi all’antropologa statunitense Ruth Benedict la prima enunciazione del concetto di shame culture. Per Dodds quella omerica è una tipica civiltà (o cultura) della vergogna.
[2] In questa riflessione ci concentriamo principalmente sul banchetto funebre, ma l’uso risalente, che parte dagli antichi Egizi, di dotare il morto sia di bevande e di viveri, sia di gioielli e cose di valore, ma anche di unguenti e profumi, va nella direzione qui suggerita. Finora gli antropologi e gli storici (vedi per tutti Erwin Panofsky, La scultura funeraria dall’ Antico Egitto a Bernini, Einaudi) hanno puntato più sull’utilitas di queste dotazioni per sostenere il morto nel suo viaggio nell’aldilà, ma questo vale per i viveri, meno per i gioielli e gli unguenti. Qui si prova invece a sostenere che le dotazioni funerarie fossero finalizzate a fare bella figura al cospetto di Ade, del re della notte eterna.
Immagine di copertina: Banchetto funebre. Particolare. Tomba dei Leopardi, circa 480 a.C. Necropoli di Monterozzi, Tarquinia.
Giovanni Guidi è un noto musicista jazz. Si è candidato per le prossime elezioni (26 maggio 2019) del Parlamento Europeo nel collegio Italia centrale
Caro Giovanni, carissimo Giovanni,
ritratto di ministro con mitra
ho visto il tuo post sul ministro con il mitra. A parte che nell’immagine il ministro denota di non saper tenere in mano un mitra, dato che lo tiene con la punta rivolta verso l’alto, contro il muso di un’altra persona, non so chi sia, mentre in verità tutti sanno, e lo vediamo anche nelle nostre strade pattugliate dai drappelli anti terrorismo, che i mitra si tengono puntati verso il basso… Condivido il tuo rilievo: un ministro è una altissima funzione civile, ed anche in qualità di ministro degli interni ed anche e soprattutto in pubbliche occasioni di celebrazioni poliziesche farsi fotografare con un mitra in mano ci rimanda ad atmosfere sudamericane, golpiste, dittatoriali. Che il ministro sia o non sia consapevole di questo, il messaggio non cambia. Il mitra è il messaggio.
due vecchi burloni
Tuttavia messaggi violenti si possono inviare anche senza imbracciare fisicamente un mezzo d’arma. Sebbene tu sia giovane, non lo sei così tanto per non ricordare quando Berlusconi, nell’esercizio delle funzioni di primo ministro, fece il gesto del mitra alla Maddalena, suo illustre ospite essendo Vladimir Putin. Il bersaglio simbolico era una giornalista russa, che aveva posto una domanda scomoda a Putin sulla sua vita privata, così mi sembra di ricordare. Nell’immagine Putin sogghigna a labbra serrate della buffonata del suo amicone italiano, come due compagnoni al bar. Se non fosse che il sogghignante è il capo di una nazione dove i giornalisti e, senza riguardi per il gentil sesso, pure le giornaliste vengono eliminati fisicamente, e se non fosse che il detto sogghignate è il capo di una potenza nucleare, l’immagine sarebbe anche burlesca.
il cantico delle creature e aldo capitini
Prodotto da Leonardo Finmeccanica (ex Augusta, Alenia-Aermacchi, ecc.), società controllata dal Ministero dell’economia e delle finanze, che ne è il principale azionista
Ho visto anche il tuo post in cui dai il benvenuto al ministro in visita oggi nella nostra città, un benvenuto certo ironico ed antifrastico ma anche a suo modo accorato e sincero, come solo un artista forse sa fare. Gli hai ricordato, tra le altre cose, che questa terra è la terra di San Francesco d’Assisi, che non sparava neppure agli uccellacci e agli uccellini ma ci parlava, e di Aldo Capitini, l’ideatore della Marcia della Pace Perugia-Assisi.
Giotto o bottega di Giotto, Museo del Louvre, Parigi
Quello che ora sto per dire richiede una premessa. Sebbene sono certo che sarò frainteso, non da te, è necessario che la faccia, trattandosi di una lettera aperta, nella quale, assumendomi delle responsabilità, necessito anche di circostanziarla e far capire all’eventuale lettore terzo da chi proviene questa missiva.
Dopo la Prima Guerra Punica Missilistica del 1991, allorquando «il cormorano con le ali ingrommate di bitume tentò inutilmente di levarsi in volo su tutte le emittenti del globo, generando nere onde di commozione»[1] feci una tesi di laurea in diritto costituzionale dal titolo «Il ripudio della guerra nella Costituzione italiana», relatore Massimo Luciani. In quella occasione studiai a fondo il pensiero nonviolento di Aldo Capitini, molto citato ma in verità poco studiato e soprattutto snobbato tanto dal pensiero idealista che dal pensiero marxista. Conobbi, e intervistai, anche uno dei seguaci di Capitini ancora in vita nei primi anni ’90 dello scorso secolo, Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano, che si era fatto due anni di carcere per renitenza alla leva.
Mi occupo non da poco del tema della guerra e della violenza armata. Nel mio romaggio (metà romanzo e metà saggio) Operazione Marcuse, che ho pubblicato nello scorso mese di marzo in formato digitale (https://wordpress.com/view/erroredikafka.blog), il tema affiora a più riprese. Cito il mio romaggio non solo per farmi pubblicità, ma perché il protagonista principale, uno sconclusionato trotskista, universitario perennemente fuori corso, Marcuse appunto, ad un certo punto dice:
«Sai che è? – mi disse Marcuse a proposito dell’industria bellica.
– Viviamo in una cittadina dove è allocato un importante stabilimento di tecnologia aeronautica, civile e militare. Producono componenti. Bene. Nessuno osa sollevare la questione. Danno occupazione, e se non lo facessero loro lo farebbero altri. Certo. Questa azienda ha sostenuto la costruzione di una biblioteca pubblica per bambini e ragazzi. Con i soldi della vendita di componenti aereonautici di velivoli che forse hanno sganciato bombe su cittadine inermi, uccidendo alcuni o molti bambini.
Tutti sanno quando comincia la guerra. Ma quando comincia la vigilia della guerra?»
Prodotto da Leonardo Finmeccanica(ex Augusta, Alenia-Aermacchi, ecc.)
l’apparato militare-industriale
Oggi si parla moltissimo di emergenze umanitarie, di accoglienza dei migranti, e sembra che lo scontro politico sia tutto polarizzato, e forse semplificato, tra buoni e cattivi, tra solidali ed egoisti. Ma non si parla più, o solo pochissimo, di disarmo. Salvare vite umane è più immediato e, al contempo, più spettacolare che non stare a studiare complesse questioni giuridiche e tecniche per capire come funziona l’apparato militare –industriale, come avviene che i sistemi d’arma, aerei da guerra inclusi, finiscano nel mercato nero e poi vengano acquisiti da paesi che conducono guerre dichiarate illegittime dall’ONU.
Caro Giovanni, mi rivolgo a te come amico di vecchia data e come candidato al Parlamento Europeo. Rappresenti una nobilissima tradizione politica che dall’antifascismo è approdata alla nonviolenza, nel solco della nostra Costituzione Repubblicana. Per questo avrai il mio voto.
Vorrei però capire qual è il tuo programma circa la produzione e il commercio di armamenti. Trovandoti nella necessità di scegliere a Strasburgo se salvare posti di lavoro o chiudere o riconvertire fabbriche di armamenti, sceglierai per la prima opzione (che ha purtroppo un fondamento nella tradizione politica cui ti richiami) o la seconda, che è l’opzione, per me, del futuro dell’umanità, se vogliamo che essa abbia un futuro?
Saluti antifascisti, francescani e capitiniani, e in bocca al lupo.
Nel racconto di Cortazar che si svolge nella metropolitana di Parigi (Manoscritto trovato in una tasca) è all’opera uno stupore primario, lo stupore del letterato che ha trascorso anni sulle pagine dei libri, che ha usato la vista interiore molto più della vista esteriore e che nella fuggitiva bellezza che si presenta alla vista esteriore in un vagone della metropolitana avverte una fitta di dolore immensa, fitta di dolore che non può ricevere chi invece non abbia sospeso per lunghi anni la vista esteriore. La bellezza di una donna per un pittore o per un regista è una divina conferma, per il poeta, questo allupato visuale, una tragedia. Negli occhi di quella beltà germe l’uragane.
Rivolgere la parola a una giovane sconosciuta nel vagone della metropolitana significa infrangere un codice del silenzio, un codice non scritto in nessuna avvertenza, un imperativo invisibile la cui sanzione non è pecuniaria e non è elencata da nessuna parte. Nella metropolitana, come nelle cripte paleocristiane, sembra che il mistero della persona sia intangibile e inattingibile.
Manoscritto trovato in una tasca è uno dei racconti struggenti di Cortazar, una metafora della fragilità e della precarietà dell’incontro e del discorso amoroso. Il racconto presuppone una donna ancora giovane ma con una interiorità già sfibrata, una giovane donna sfinita dal lavoro e dalla vita che corre verso casa per riposarsi sul divano. Le donne di questo racconto escono dai film di Rohmer, più che di Antonioni. Non sono truccate, non sono scaltre e non sono scafate, sono trepidanti nell’amplesso, sono sole, non vengono o se vengono vengono per sfinimento. Sono romantiche, in un’epoca già poco romantica. Monna Lisa cyber punk è di là da venire. In questo racconto di Cortazar può trovare ricetto il maschio predatore metropolitano convertito a più miti consigli dopo una ferita (i ragni) che la vita gli ha inferto, dopo una delusione amorosa, una morte, un abbandono, una tragedia collettiva cui sia miracolosamente scampato. Nella metropolitana di Parigi si incrociano i destini (Cortazar e Calvino erano amici) e rischiano di non trovarsi. Questo è il nucleo del racconto, del manoscritto trovato in una tasca.
Oggi la metropolitana di Parigi non è quella degli anni Settanta. Non è una geometria di destini ma una foresta africana. L’anonimato c’è ancora, anzi, la sua invulnerabilità è ancora più assoluta. Le ragazze di Cortazar guardavano fuori dal finestrino (ma cosa, nella subway?) o incollavano gli occhi alla loro borsetta rossa; le ragazze di oggi hanno l’auricolare e tengono gli occhi incollati allo schermo dello smartphone. Sono tristi. Sono stanche e distrutte come le ragazze di Cortazar. Raramente sorridono allo smartphone.
Sto seduto su un sedile ribaltabile di un vagone della M7. Sono con mia figlia di otto anni, con mia sorella, suo marito e la loro figlia di due anni. Siamo saliti a Raspail, direzione nord, La Courneuve, dobbiamo scendere a Aubervilliers – Pantin – Quatre Chemin. Io sto leggendo qualche riga del libro Sull’Iliade di Rachel Bespaloff, e c’è l’immagine potente del dio Apollo. La trovo meravigliosa. Sotto terra il sole rifulge in maniera più plotiniana. Alla fermata di Gare de l’Est salgono due ragazzone nere. E mi si piazzano davanti, a pochi centimetri dal libro che ho in mano. Sono corpulente, la coscia di una, insaccata nei blue jeans, prossimi al cedimento strutturale, è qualcosa di portentoso. Penso al volo che, anche con tutta la buona volontà, non riuscirei a scoparmerla. E penso che io sono abbondantemente fuori dall’agone della caccia sessuale. Immagino per un istante un energumeno negro che la possiede, come un domatore di circo. Alzo gli occhi da Apollo: non ci siamo proprio. Sono massicce, pienotte, non agili pantere nere. Indossano entrambe una giacca bianca. Prostitute? Non sembrerebbe. Una è riccia, a guardarla meglio non è neppure brutta. L’altra è più feroce. Sono lontane le ragazze diafane di Cortazar. Quando il vagone si libera un po’, alla fermata di Stalingrad, vanno a sedersi su un sedile alle mie spalle. Torno sulla Bespaloff. Dopo poco sento mio cognato che dice qualcosa a mia sorella. Mi sembra allarmato. Torno su Bespaloff. Sento che anche mia figlia, che siede vicino a loro, fa una domanda allarmata. Allora chiedo che succede. Sento la parola serpenti. Cosa? Sì, quelle due ragazze nere hanno un serpente al polso. Ma sarà finto, dico. No, replica mio cognato, ho visto la lingua muoversi. Ma come, dico io, mi sono state a due centimetri dal naso! Ruoto di centottanta gradi. In effetti quella riccia ha un serpente al polso sinistro. È un colubride. Sento mio cognato che dice velenoso. La lingua comunque si muove, questo è innegabile. Penso a Cleopatra. Alle aspidi. A Plutarco. Il mio sguardo è irrimediabilmente fuori dal mito greco. Incredulo scruto questo serpente che fa capolino sul polso della riccia. Noto che un viaggiatore che siede di fronte alla nera cattiva sta facendo un video con il suo cellulare, con il placido avallo della riccia. Sono fiere di essere riprese. Quindi non sono cattive, non vogliono compiere un atto ostile di terrorismo con mezzi atti a seminare il panico. Mio cognato in effetti sta parlando di panico. Io resto incantato dal serpente. Si sente un annuncio dall’altoparlante. Il treno si ferma. Strano. Ci fanno scendere. Aspettiamo sulla banchina l’arrivo di un altro convoglio. Le due nere vestite di bianco si dileguano. Poco prima erano saliti i controllori: chissà cosa avrebbero fatto i controllori vestiti di verde quando le nere di bianco vestite gli avessero porto il biglietto, sempre che lo avessero fatto. Fuori dalla metro mio cognato mi dice che anche l’altra aveva il serpente al polso.
La voce narrante di Cortazar dice di essere roso dai ragni. Le ragazze hanno i serpenti. Qui finisce l’analogia zoologica metropolitana. Le ragazze di Cortazar sono prede isolate. Queste girano in coppia e non sono prede. Hanno i serpenti al polso, un monile pregiato, un talismano, un simbolo per la loro religione, chissà. Non si sa dove vadano, non le seguo. Noi risaliamo sul convoglio sostitutivo che nel frattempo è arrivato e abbiamo solo un’ultima fermata. Fortuna che erano brutte, penso. Se fossero state belle, nonostante la figlia al seguito, nonostante una relazione a casa, i ragni mi avrebbero lasciato in pace o avrebbero cominciato a mordere dentro? E quanto sarebbe stato difficile non mettermi a seguire quelle giacche bianche, quei polsi inanellati? Quanto difficile sarebbe stato tornare al dio Apollo?
La lettera con la quale la
Presidente della Regione Umbria ha annunciato le proprie dimissioni[1]
merita di essere analizzata come documento letterario. Benché meditata
probabilmente da giorni, da quando, con gli arresti domiciliari dell’assessore
alla sanità e del direttore generale dell’Ospedale, nonché del segretario
regionale del Partito Democratico, era stata resa pubblica la sua posizione di
indagata nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria sulla manipolazione di pubblici
concorsi, questo tipo di lettera, scritta sull’onda emotiva dell’accavallarsi
delle notizie del cedimento della struttura pattizia, e nel franare improvviso
di terreni, fino ad allora ritenuti solidi legami politici, di amicizie, di relazioni,
mette a nudo qualcosa che normalmente il linguaggio politico ed istituzionale
meticolosamente e statutariamente occulta.
Un fine studioso perugino, J. M.,
disse una volta in un’assemblea studentesca che il linguaggio dei politici va
letto al contrario, con una semplice inversione del segno positivo o negativo
della frase: se è un affermazione, va letta come una negazione, se è una
negazione come un’affermazione.
Questo credo sia vero in generale, ma non è vero quando il politico dismette i propri panni e, per quanto gli sia possibile, dismette il proprio linguaggio nell’annunciare il proprio ritorno allo stato laicale. In questo caso la verità si nasconde, certo, ma non nella maniera schematica descritta dal fine studioso perugino.
Se applicassimo il criterio
ermeneutico rovesciato, la frase con la quale la Presidente esordisce «Io sono
una persona perbene», dovrebbe essere decifrata nel suo opposto, «Io non sono una persona perbene.» Ma questo
è un esito paradossale, buono per le barzellette del Corriere dei piccoli.
Qui il lavoro che occorre fare è
diverso. È più vicino al lavoro del cercatore di tartufi. Occorre scavare sotto
la superficie. Quando il politico sente cedere il terreno su cui saldamente
incedeva, smette di fare il funambolo sulla fune del ragionamento rovesciato e
nasconde il suo pensiero sottoterra, sotto o dietro le parole.
Normalmente una cosa si nasconde
mettendo davanti ad essa una cosa più grande, che le fa da schermo.
Proviamo con questo metodo e torniamo alla frase iniziale: «Io sono una persona perbene». Quello che tutti vedono è il qualificativo perbene[2]. La parola persona scompare, è in ombra, oserei dire nascosta. Eppure è questa la parola chiave. Il Presidente afferma: io sono una persona. Anzi questo non lo dice, lo urla (sottoterra, a denti stretti). Una persona è due cose: 1. Una persona è un essere fallibile. Come nella Chiesa cattolica si distingue il sacerdote dalla sua funzione, così nella politica si distingue la persona dall’istituzione. La presidente vuol dire: se ho sbagliato come persona, ciò non invalida la mia funzione di Istituzione, che resta valida ed efficace e mi mantiene nell’empireo degli immortali (le istituzioni sono immortali, come la Chiesa). 2. Una persona è il nucleo più intimo al quale ritorna anche il più fiero eroe e combattente, oggi il politico. Il politico è come se dicesse: sono anche io un bambino. Basta, c’è un limite a tutto. C’è un limite agli intrighi, ai tradimenti, ai giochi di potere, c’è un limite a tutto. E questo limite si chiama persona. La Presidente dice sono una persona, non un apparato burocratico. Ho dei sentimenti. Ho una famiglia.
Seguiamo la scaletta gerarchica
della lettera della Presidente, perché questo ragionamento trova ivi conferma.
La prima cosa che la Presidente scrive è il ringraziamento ai colleghi dell’Assemblea regionale e al personale amministrativo della Regione. Il ringraziamento va alla Chiesa nel suo insieme. L’eventuale errore della Presidente come persona non travolge il valore e l’eternità dell’Istituzione e la salvezza dell’anima di ogni appartenente ad essa, ed in special modo di colei che si è intronizzata sullo scranno più alto, seppur ora dimissionaria. Anzi, forse la Presidente dice ancora qualcosa di più, dice: non parlerò, non spiffererò nulla, non mi vendicherò, non tirerò fuori tutte le bassezze, tutte le porcate, tutte le vigliaccherie, tutte le ruberie, tutte le meschinità, tutti i reati, tutte le violazioni di cui sono al corrente e che se parlassi farebbero venire giù come un fondale di cartongesso tutta quanta l’Istituzione regionale, tutta quanta la Chiesa, con tutti i santi e tutto l’ordine sacerdotale.
Dopo una serie di frasi di rito,
che sarebbe interessante analizzare perché ci offrirebbero numerose conferme
alla nostra lettura, il secondo nucleo tematico nascosto è la famiglia.
Scrive la Presidente: So così di fare la
cosa più giusta e più coerente con i miei valori, quelli della mia famiglia […].
Qui si annunzia il ritorno all’altra istituzione eterna, l’unica che preceda la
politica: la famiglia. Il ritorno a casa deve essere onorevole, e quindi anche
qui se di errore si è trattato, questo errore non travolge la sacertà dell’istituzione
familiare dalla quale provengo. La mia famiglia è una famiglia perbene, mi ha
allevata nei sani principi del socialismo ed io ho allevato i miei figli alla
stessa maniera, quindi non toccate questa dimensione o allora sì che vi faccio fuori
tutti.
Il terzo nucleo tematico nascosto,
che ai più sarà sfuggito, è il terremoto.
Qui si invocano le popolazioni
colpite dal sisma e le si chiamano a testimoni dell’abnegazione con la quale la
Presidente, come istituzione e come persona, è venuta loro in soccorso, ma, e
si faccia qui attenzione, si invoca al tempo stesso, seppure implicitamente, un
dio, il terremoto, una potenza tellurica che, nel firmamento privo di divinità,
laico e socialista, di questa Presidente, sovrasta l’umano[3],
una potenza demonica, etrusca, centro italica, che è ciò che alla fine governa le
fragili, mutevoli, alterne vicissitudini umane del potere. E al cospetto di
tale nume arcipossente la Presidente invoca la propria salvezza in quanto ha
servito con abnegazione («umanamente») le popolazioni da esso dio toccate e
colpite.
[2]Perbene indica una condizione anteriore
al giuridico. Ha a che fare con l’educazione ricevuta, con la famiglia e con la
cerchia originaria, indica una inclinazione del carattere al bene e al rispetto
che precede qualunque dimensione premiale o penale connessa alle regole dello
jus. Essere perbene significa voler bene ai propri genitori, non mandarli
all’ospizio quando sono vecchi, non dire parolacce, non prendersela con i più
deboli. Spesso è associata in endiadi alla parola pulito. Credo che grosso modo il nostro perbene equivalga al termine latino pius.
[3] Le
popolazioni della Valnerina, colpite dal terremoto del 2016, sono quelle «con
le quali ho condiviso le fasi più difficili, ma umanamente più intense, del mio
mandato istituzionale.» Non sfuggirà l’avverbio, che si oppone a ciò che
appunto non è umano, perché divino o demonico.
[…] talvolta basta una lettera (in questo caso una vocale) a mutare i destini ultimi o primi del mondo. Così è accaduto a monsieur Donatien-Alphonse-François, marchese di Sade nel suo viaggio in Italia negli anni a cavallo 1775-1776. Nel suo itinerario di ritorno in Provenza, procedendo da Roma verso Loreto, come era costume del Grand Tour, si imbatte, nei pressi di Foligno, uscendo dalla sua incantevole e attraente pianura per raggiungere l’altopiano, in un villaggio, chiamato Pole (sic), che per noi da lungo tempo è Pale, checcé ne dica l’abate Richard, il bersaglio polemico del giovane marchese (aveva allora 35 anni e si protendeva verso i suoi 36). Ebbene, sia come sia, al marchese sfugge per una vocale soltanto l’essenza stessa del luogo, che rimanda ad ogni luogo: ci si trova al cospetto non tanto dell’axis mundi (pole, nel Cambridge English Dictionary, significa palo, asta, pertica, ancor prima che polo in senso astronomico e geografico), come avrebbe potuto congetturare e non fa, preso com’è dagli sguardi panoramici, ma assai più in intimità, dell’origine du monde, con la dea Pale, da cui ruscellano le acque vivificatrici del Menotre. Eppure l’amenità del luogo non lo avrebbe dovuto sviare: in quel principio di delicatezza pittoriale del paesaggio, che lo sguardo coglieva, nella lieve fantasia che produceva nell’incantato viaggiatore, avrebbe dovuto scorgere, non oscurata dall’errore ortografico, la natura, soltanto la natura con il suo correlato mitico invece del bastone che la fa vorticare.
Nessuna interpretazione di questo celebre passo dantesco sì è basata su un’osservazione panoramica molto semplice. Le considerazioni che seguono, lavorando esclusivamente sull’ermeneutica del testo, intendono dimostrare che l’associazione che Dante fa tra Francesco d’Assisi e il sole non sia frutto di una speculazione metaforica astratta, ma l’effetto, appunto, di un’osservazione panoramica diretta. Questa interpretazione implica che Dante Alighieri abbia visitato Assisi[1]. E presuppone che all’epoca in cui Dante visse (nei decenni a cavallo del 1300 d.c.) gli edifici religiosi fossero già dotati di vetrate, come appare certo, ma soprattutto che vi fossero i vetri alle finestre dei palagi nobiliari e delle torri, ed in particolare che vi fossero nella città di Assisi.[2]
Come è noto, nel Paradiso della Commedia gira una gran luce. Tanta è la tenebra che ristagna nell’Inferno, quanta è la luce che inonda il Paradiso. (Il Purgatorio ha una luce incerta, aurorale o crepuscolare, incostante – e forse è lì che si rispecchia la vita.) Si potrebbe senz’altro affermare che la Commedia di Dante si incardina sull’opposizione tenebra/luce.
Nel canto XI del Paradiso Francesco è associato al sole, e la città che gli dette i natali, Assisi, è associata all’Oriente. La nascita di Francesco è associata al sorgere del sole sul fiume Gange. Perché?
Il tramonto dell’Occidente
Sebbene ciò possa sembrare in aperto contrasto con il suo ruolo originario di padre della letteratura italiana, Dante è il poeta del tramonto, della decadenza, della fine. L’architettura della salvezza della cattedrale dantesca poggia su pilastri di esacerbazione, privata e pubblica. Alle origini della nostra letteratura volgare c’è un poeta disgustato. Disgustato dell’arrivismo degli intellettuali, disgustato della corruzione del clero, disgustato degli intrighi del potere, disgustato delle ruberie e degli affari, disgustato dell’indecenza dei costumi sessuali. Non è necessario addurre prove a ciò, ma, per quello che concerne la presente indagine, vale la pena riportare le terzine che aprono il canto dell’alba del nuovo sole.
Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare, e chi civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s’affaticava, e chi si dava all’ozio
(Paradiso, XI, 4-9)
L’alba del nuovo sole
Francesco è, per Dante, innanzitutto un riformatore, una speranza. In questo letamaio occiduo, dice Dante, è sorto un sole.
Oggi, a quasi ottocento anni dalla sua morte, associamo Francesco d’Assisi a qualcosa di assai diverso dalla radianza luminosa dell’astro principale del firmamento. Nella stratificazione plurisecolare ma più ancora nella vigenza dei miti d’oggi, e dopo i molti film su di lui e i molti libri, Francesco ci appare oggi come un santo barbone ispirato, un rivoluzionario anoressico, un hippy che ha disertato il consiglio di amministrazione della spa di famiglia[3] e si è ritirato in un casolare in campagna, o è andato a finire in India o in Nepal, un figlio dei fiori vegano e animalista, un guru; non certo un sole che viene a contraddire l’odierno crepuscolo della civiltà. Francesco non è (più) percepito come il capostipite di uno degli ordini più potenti e ramificati della storia della Chiesa, e ben presto degenerato, ma un attivista gandiano nonviolento. Il padre Pietro Bernardone ha ripreso in mano la guida della spa di famiglia, Francesco è un diseredato, una vergogna. In questo senso l’appropriazione del nome di Francesco da parte dell’odierno capo della Chiesa appare un travisamento, se non un’usurpazione. Che cosa direbbe oggi Dante di questa mistificazione?
Il tramonto ad Assisi
Assisi è adagiata a mezza costa ed è esposta ad occidente, all’occaso, e al tramonto, soprattutto d’inverno, i vetri delle finestre delle case e dei palazzi, e le vetrate delle chiese, si accendono. Questa luccicanza è ciò che deve aver colpito lo sguardo di Dante, quando si avvicinava ad Assisi, sia che provenisse da nord, da Perugia, che da sud, dalla valle spoletana.
Dante arriva in prossimità di Assisi al calar del sole. Resta impressionato da questa doppia sorgente di luce: il sole al tramonto, alle sue spalle, e i riflessi abbaglianti dalle finestre di Assisi, davanti a sé. In una canzone dei Pink Floyd, The final cut, si parla di sue soli, che compaiono simultaneamente il primo dallo specchietto retrovisore e il secondo da quello laterale dell’automobile («tow suns in the sunset»). Anche in Dante i soli sono due, anzi sono uno e una miriade di sue rifrazioni, in opposizione. Guardando alle finestre incendiate di Assisi Dante pensa al miracolo di un alba che sorge al tramonto e cerca un’immagine.
Geografie
Ho parlato con Marica Spina al telefono. Marica vive a Spoleto, è un’insegnante di liceo in pensione. Continua a studiare, anche Dante. Le chiedo se a sua conoscenza Dante abbia mai visitato Assisi. Mi risponde che la presenza di Dante a Perugia è quasi documentata. E aggiunge che se Dante è arrivato a Perugia, sarebbe strano che non sia andato ad Assisi. Mi consiglia di consultare l’Enciclopedia Dantesca. E tra gli studiosi di Dante più accreditati oggi in Italia mi fa il nome di Enrico Malato. Un mio anziano zio lo conosce, magari posso arrivarci.
Le dico della mia ipotesi: Dante ha visto la luccicanza delle finestre di Assisi al tramonto e ha pensato al sole che sorge sul Gange, che si rifrange in una vasta luccicanza distesa sulle acque placide del fiume.
Marica mi dice che Dante potrebbe aver visto Assisi da Perugia, da Porta Sole. Le dico che ho la prova che Dante sia stato fisicamente sotto Assisi:
[…] e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo
L’interpretazione politica oggi è minoritaria. La maggioranza degli interpreti propende per una lettura geografica. Nocera e Gualdo sono dietro al Subasio solo se il Subasio, ed Assisi che giace alle sue pendici, si osservavo dalla pianura sottostante. Se Assisi la si guarda da Perugia, Nocera e Gualdo sono a lato, ad est, non dietro.
Dante, questo possiamo dirlo, è sempre molto preciso nel dettaglio geografico. Possiamo fare affidamento su questo. Dante è stato ad Assisi. Non si è fermato a Perugia, ha ragione Marica Spina.
I fiumi
Perché questo abbondare di fiumi, tre, in questo passo dantesco? Anzi, cinque fiumi nel solo canto XI, se si considera anche il passo ai successivi versi 106-107, in cui Dante ricorda le stimmate ricevute da Francesco «sulla cima aspra e rocciosa della Verna, che si erge sopra Bibbiena, tra l’alta valle dell’Arno e la valle tiberina»[4], quando cioè nel crudo sasso intra Tevero e Arno // da Cristo prese l’ultimo sigillo.
La giustapposizione, a distanza di soli sette versi, di due corsi d’acqua minori, quali sono il Topino e il Chiascio da un lato, e il Gange dall’altro, un fiume immenso, il quarantesimo per lunghezza sul nostro pianeta, appare spropositata e francamente dissonante quando non iperbolica, al limite quasi comica, se non intervenissero prontamente i commentatori a dire che quella che Dante usa è una perifrasi per significare l’equinozio di primavera, il solo momento dell’anno nel quale il sole sorge esattamente da est (dove trovasi il fiume Gange), e che in definitiva Dante vuol dire che «ad Assisi è nato il nuovo sole dell’umanità»[5], usando, contrariamente al suo solito, un’immagine avulsa dal contesto geografico specifico.
L’interpretazione canonica di questo passo ha qualcosa che non mi convince. Dante, come osserva Borges nel prologo ai sui Saggi danteschi (Jorge Luis Borges, Saggi danteschi, in Tutte le opere, Mondadori, collana Meridiani Collezione, Volume secondo, p. 1264), non usa iperboli. La topografia dell’Inferno e delle altre cantiche è «severa» e lontana dalla «vaga sublimità» e dalle «magnifiche generalità». Stando all’interpretazione dominante, Dante avrebbe derogato qui al suo abituale metodo antiperbolico, e lo avrebbe fatto in un passo dove il contesto geografico è minuziosamente circostanziato e identificato. La precisione di Dante non è un «artificio retorico», prosegue Borges nel citato prologo, ma è «un’affermazione dell’onestà e della pienezza con cui ogni incidente del poema è stato immaginato». A differenza di Petrarca e Góngora, che procedono per iperboli, e per i quali «ogni capello è oro e ogni acqua è cristallo» a tal punto che «questo meccanico e grossolano alfabeto di simboli svigorisce il vigore delle parole e sembra fondato sull’indifferenza dell’osservazione imperfetta […] Dante si vieta questo errore; nel suo libro non c’è una parola priva di giustificazione».
L’interpretazione canonica ovvero l’equazione Francesco : Sole = Assisi : Oriente si fonda sull’«indifferenza dell’osservazione imperfetta». Presuppone un’operazione a tavolino, aliena dal procedimento poetico dantesco. L’errore non è di Dante, ma dei suoi interpreti.
Facciamo una diversa, opposta ipotesi. Che Dante, mentre si avvicinava ad Assisi percorrendo all’alba la valle umbra, abbia assistito al sorgere del sole esattamente da dietro il monte Subasio la mattina di un equinozio di primavera? E che sia rimasto impressionato da un simile spettacolo, simile al diadema sulla fronte di un re avvolto in uno scuro mantello?
Questa ipotesi à da scartare per due motivi. Innanzitutto, se così fosse, Dante avrebbe impiegato un’immagine diversa, giocando, è solo una congettura tra le molte che possano farsi, sul contrasto tra lo splendore del disco che spunta da dietro il crinale del monte Subasio e l’oscurità che, all’alba, ristagna ancora sulla cittadina adagiata alle sue pendici. In secondo luogo, l’ipotesi è da scartare perché il sole che sorge da dietro il Subasio, da est, contrasta con l’immagine precedente che vede relegate in un retro derelitto, e non certo ridente di luce, Nocera e Gualdo, dalla cui parte invece verrebbe a levarsi il sole, cioè Francesco.
Dante non è arrivato ad Assisi all’alba.
Non resta che tornare all’ipotesi tramonto. Possiamo ipotizzare che in quel tramonto luminoso e riverberante Dante, attraversando il modestissimo fiume Chiascio in un punto qualsiasi tra Pianello, contrada del territorio di Assisi, e Bastia Umbra, abbia dapprima notato il riverbero della luce del sole sulle acque del fiume, la luccicanza sulle acque, e poi, avvicinandosi alla cittadina di Assisi, sia rimasto folgorato da questo fenomeno abbastanza impressionante, che abbiamo descritto sopra, della luccicanza dei vetri di Assisi. Dante si trova dinnanzi a due riverberi, uno prossimo, l’altro in lontananza. A questo punto non è infondato ipotizzare che abbia pensato ad Assisi come ad un altro, più splendente fiume, inondato dalla luce del sole. Quale fiume se non il Gange?
Il Gange sta ad oriente, come ad oriente è posto Assisi in perfetta opposizione all’occidente dove tramonta il sole.
Un’etica dell’estetica
Dante non butta lì un’immagine a caso, per quanto bella essa sia. Credo che in Dante ci sia un freno, che è anche una forza. Il freno è il radicamento dell’immagine nell’esperienza. Dante non usa immagini che non siano sotto il suo diretto controllo empirico. Se c’è una cosa che si può dire di Dante è che, pur essendo un grande letterato, non si fida della letteratura. Toglierei il pur. Dante non è Petrarca, insomma.
Che c’entra dunque il Gange con Assisi?
Possiamo risparmiarci fiumi di inchiostro versati su questa immagine dantesca, che farebbe di Assisi una sorta di Mecca della rinata cristianità. Un Oriente da cui risorgere.
Non dico che il concetto sia sbagliato, dico però che Dante arriva normalmente al concetto attraverso un’immagine cui l’esperienza diretta o un suo valido surrogato annetta il suggello della incontrovertibilità.
L’autocensura
Dante non può esplicitare però l’immagine. Un sole che sorge al tramonto è un’immagine debole, vicaria, riflessa. La luce che promana da Francesco è invece radiante, originaria, primigenia, rinnovellatrice. Dante secreta l’immagine. E ne rimuove l’origine paradossalmente vespertina, occidua.
Ma il rimosso, come ben si sa, ritorna. E ritorna nel canto successivo, il canto XII, quello in cui si ribaltano le posizioni, e un francescano, Bonaventura da Bagnoregio, tesse le lodi di San Domenico e dell’ordine da lui creato, lamentando la decadenza dell’ordine creato da Francesco.
All’inizio di questo successivo canto (7-10) Dante dice che il suono della voce dei beati, che ruotano in doppia corona, supera di tanto quello delle nostre Muse e delle nostre Sirene di quanto la luce diretta supera la luce riflessa.[6]
canto che tanto vince nostre muse
nostre serene in quelle dolci tube
quanto primo splendor quel ch’ e’ refuse.
La mente del poeta sta ancora lavorando sul primo splendore (il raggio che si muove da una sorgente luminosa) e sul raggio derivato da quel primo, riflesso (refuse = riflette)[7]. Sta ancora elaborando la luccicanza di Assisi?
Ma vi è di più. Se nel canto precedente vi era l’alba (dell’umanità?), in questo XII vi è il tramonto. Specularità e simmetrie dantesche? Certo, come nella visione di Assisi.
Per descrivere il luogo natale di san Domenico, nella penisola iberica, nella vecchia Castiglia, Dante dice (49-51) laggiù, a non grande distanza dal litorale Atlantico, dietro le cui onde, tal volta, nel solstizio d’estate, si nasconde tramontando il sole, quasi affaticato per la lunga foga del suo corso diurno.
Non molto lungi al percuoter dell’onde
Dietro alle quali, per lunga foga,
lo sol tal volta ad ogni uom si nasconde
Quindi nel canto successivo all’alba sul Gange Dante, come Pollicino, sparge delle molliche, sparge un riflesso e un tramonto. Proprio ciò che aveva visto ad Assisi. E sparge anche un altro fiume. Al verso 99 troviamo ancora un’immagine fluviale, «quasi torrente ch’alta vena preme», immagine che, seppure impiegata ad altro effetto, totalizza la presenza delle acque fluviali in questi due canti ad un punto tale che ci induce a pensare, come abbiamo fatto, che vi sia alla base una visione unitaria.
Il cantico di frate sole
È certo, benché nei principali commentarii non lo si dica, che Dante, nell’associare Francesco d’Assisi al sole abbia avuto in mente l’incipit del cantico delle creature, la celebre lauda alle origini della nostra letteratura volgare.
Messer lo frate sole è la prima delle creazioni dell’altissimo onnipotente e bon signore ad essere lodata da Francesco poeta.
Quando si era messo in cammino verso Assisi, Dante aveva in mente questa cosa. E quale deve essere stata la meraviglia nel constatare, in vista di Assisi, che messer lo frate sole lo stava circondando, gli risplendeva dalle acque del torrente Chiascio, gli dardeggiava alle spalle, gli risplendeva sui vetri delle finestre di Assisi, ad oriente. Nel tramonto c’è un’alba.
___________________________
Note
[1] Non esistono, allo stato degli atti, prove certe di una visita di Dante Alighieri ad Assisi. Il ritratto di Dante che si troverebbe in uno degli affreschi della Basilica inferiore di Assisi, raffigurante un miracolo di san Francesco e univocamente attribuito allo stesso Giotto, vale come indizio della presenza del poeta ad Assisi, non come prova certa: Giotto potrebbe aver utilizzato schizzi preparatori della figura di Dante, eseguiti altrove alla presenza del poeta stesso. D’altra parte è pur vero che, non trattandosi di un ritratto ufficiale, ma di un ritratto libero, sulla cui attribuzione non vi è unanimità degli studiosi, ben potrebbe Giotto aver lavorato a mano libera o a memoria.
[2] Circa la diffusione delle vetrate negli edifici religiosi (non solo chiese, ma anche conventi e monasteri), a partire dall’alto medioevo, vi sono studi affidabili (Francesca Dell’Acqua, Illuminando colorat. La vetrata tra l’età tardo-imperiale e l’alto medioevo: le fonti, l’archeologia, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 2003; Enrico Castelnuovo, Vetrate medievali. Officine, tecniche, maestri, Torino, 1994). Per quanto concerne invece l’impiego del vetro alle finestre degli edifici non religiosi, occorre distinguere tra gli edifici militari e quelli del potere civile da un lato, e gli edifici di civile abitazione. Non è improbabile che gli edifici del potere civile si fossero dotati di vetri ai piani alti, se non altro per competere in splendore con la magnificenza delle vetrate religiose. La tecnologia non difettava. Torri civiche, edifici pubblici, che erano quelli che occupavano lo sky line, avevano vetri alle finestre all’inizio del XIV secolo, quando Dante Alighieri fa presumibilmente visita ad Assisi. Quanto agli edifici di civile abitazione, bisogna sottodistinguere tra quelli delle famiglie gentilizie, normalmente a tre o più piani e quelle del popolo, a un solo piano rialzato. Le finestre ai pian bassi erano poco più che stretti pertugi o feritoie o bocche di lupo, con una «luce» aperta lo stretto indispensabile per arieggiare. Le esigenze di protezione facevano premio su quelle della salubrità degli ambienti e della loro luminosità diurna. Diverso è il discorso per i piani nobili dei palagi gentilizi. Qui valgono le medesime considerazioni che fanno propendere per l’utilizzo del vetro alle finestre dei piani secondo e terzo. I palazzi gentilizi vanno a comporre lo sky line assieme alle chiese, alle torri campanarie, alle torri civiche e ai pubblici edifici (e alle fortificazioni militari). Se prendiamo in esame Le Storie di San Francesco, il ciclo degli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi, notiamo che gli edifici civili non hanno quasi mai imposte di legno alle finestre, siano esse a campata unica o a bifora. Si dirà che le protezioni di legno di giorno venivano rimosse e rimesse la sera e Giotto dipinge sempre scene diurne. Potrebbe essere, ma un’assenza così massiva delle imposte fa propendere per l’ipotesi dei vetri. Giotto, come Dante, non trascura il minimo dettaglio. Quando vuole mettere le inferriate alle finestre lo fa, come per esempio nell’affresco Apparizione di san Francesco su un carro di fuoco. Se non mette mai le imposte di legno una ragione ci sarà. Se non possiamo trarre da Giotto una prova certa dell’esistenza del vetro alle finestre di Assisi e delle altre cittadine rappresentate, possiamo però con certezza affermare: 1. Giotto ritrae l’aspetto urbano come era al tempo in cui dipingeva (e cioè al tempo di Dante) e non come doveva essere cento anni prima, quando era vissuto San Francesco: 2. Giotto fotografa una città meno barricata e asserragliata di quanto nel nostro immaginario non vorremmo che fosse la città medievale. Una città matura per i vetri alle finestre.
Sebbene nella Commedia non vi siano occorrenze esplicite che parlino di vetri alle finestre, Dante parla in varie occasioni di vetro e vetri. Ecco le ricorrenze:
«S’i’ fossi di piombato vetro» (Inf., XX, 25). Sta per specchio.
«e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante» (Inf., XXXII, 23-24)
«e trasparien come festuca in vetro» (Inf., XXXIV, 12)
«Si` com’fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi» (Pur., XXVII, 49-50)
«cosi` come color torna per vetro
lo qual di retro a se’ piombo nasconde» (Par., II, 89-90)
«E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
li` quasi vetro a lo color ch’el veste» (Par., XX, 79-80)
«e se’ rivolge per veder se ‘l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
con esso come nota con suo metro» (Par., XXVIII, 7-9)
«E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende si`, che dal venire
a l’esser tutto non e` intervallo» (Par., XXIX, 25-27)
«e gia` mai non si videro in fornace
vetri o metalli si` lucenti e rossi» (Pur., XXIV, 137-138)
«Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non si` profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili si`, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille» (Par. III, 10-15)
[3] Una suggestione del genere si ritrova in José Saramago, La seconda vita di Francesco d’Assisi.
[4] Natalino Sapegno, Dante Alighieri, La divina commedia, Vol. III, Paradiso, La Nova Italia editrice, p. 151.
[5] Attilio Momigliano, Dante Alighieri, La divina commedia, vol. III, Paradiso, Sansoni editore, 1960, p. 638
[1. L’appartenenza/disappartenenza dell’intellettuale alla classe di
riferimento]
Lasciamo perdere la constatazione, divenuta ormai rituale, secondo cui
gli Intellettuali oggi non ci sono più (normalmente la constatazione si innerva
di rimpianto per la perdita di padri eretici, Pasolini in primis). Andiamo qui
alla ricerca della «funzione intellettuale». E proviamo a definire che cosa si
può o si poteva intendere per intellettuale. Chi è o chi era un intellettuale?
Proviamo a avanzare un’ipotesi: l’intellettuale parla della e alla comunità
cui appartiene e ne parla non sull’onda dell’evento contingente ma in fase
riassuntiva e riflessiva. Non è un opinionista, siamo d’accordo. Manca qualcosa,
però. L’intellettuale parla da una certa distanza rispetto al suo pubblico di
riferimento. L’intellettuale non è un suscitatore di unità, almeno non nell’immediato,
non è un demagogo, non è un influencer.
Oggi assistiamo a quella che è stata definita una neo tribalizzazione
delle nostre società. Venuta meno la centralità dell’entità statale
unificatrice, e venuta meno l’importanza dei corpi c.d. intermedi, viviamo in
un nuovo medioevo in cui risorgono i particolarismi. Ogni particolarismo ha il
suo corifeo, una sorta di coach che incita la squadra che allena alla vittoria.
Identità e appartenenza sono le parole magiche del presente.
L’intellettuale non è il coach, non è l’allenatore di nessuna squadra,
questo possiamo intanto dirlo.
Ma andando un po’ avanti possiamo dire che l’intellettuale nel mentre
parla alla comunità cui egli stesso appartiene le disappartiene. È un disertore
parziale, un uomo a cui, per carità, piacciono anche i salotti e le serate con
bella gente dell’editoria e del cinema, o le feste dell’unità e le salsicciate,
o i sobborghi e i giretti malfamati, ma che poi si estranea dall’ambiente che
frequenta e, guardandolo un po’ dall’esterno, ne fa la diagnosi. La bella gente
dei salotti, i braciolari delle feste dell’unità e i borgatari lo stanno ad
ascoltare se non ammirati certo rispettosi.
Il novecento ha insegnato che gli intellettuali più sferzanti della
borghesia sono borghesi, quelli più sferzanti della nobiltà l’hanno frequentata
assiduamente, come Proust. Mi sembra che una cosa analoga la dica da qualche
parte anche Franco Fortini da Francoforte.
Per fare un intellettuale ci vuole una grande comunità, un partito di
massa, una chiesa, un’ideologia. Oggi che non esiste più nulla di ciò, chiesa a
parte, l’intellettuale sembra sparire, perché la sua disappartenenza svanisce
nell’insignificanza. Si disappartiene fragorosamente solo a una comunità
enorme.
[2. Il declino dell’intellettuale]
L’intellettuale non
interviene in «tempo reale» su nessuna questione. L’intellettuale ritorna sulla questione, e vi fa ritorno
solo quando l’opinione pubblica (=oggi, per semplicità, il sistema dei media)
ha già digerito e apparentemente evacuato la questione.
L’intellettuale ripensa la
questione nella fase intermedia tra la digestione e l’evacuazione. Questa
collocazione intestinale spiega al tempo stesso il declino dell’intellettuale e
il suo essere «scomodo».
I tempi della stampa prima, e quelli della connessione totale poi, conducono
alla sparizione dell’intellettuale, il quale (1) o si trasforma in opinionista
(Cacciari) o (2) si rifugia nello studio (Agamben).
L’espulsione o l’autoesclusione
dell’intellettuale dal circuito dell’informazione è ciò che costituisce
la sua «funzione» moderna. (Per incidens non si può non osservare che la
locuzione «intellettuale organico», ora caduta in miseria o oblio o
desuetudine, è una contradictio in terminis. Di detta locuzione si è dovuto
registrare, in un’epoca storica da poco passata, un certo incauto e massivo
utilizzo.) La «scomodità» dell’intellettuale è essenzialmente dovuta alla sua vocatio, al fatto che egli ritorna sulla questione che si vorrebbe
ormai digerita ed evacuata. Ciò lo vorrebbe massimamente la classe di
appartenenza dell’intellettuale, la quale comincia a sbuffare contro quella
«cariatide», contro quel «venerato maestro» un po’rincitrullito.
[3. Il paradosso dell’intellettuale]
Sebbene l’intellettuale, per come abbiamo cercato di delinearne il
profilo, si caratterizzi per il fatto di non scendere nella mischia del
dibattuto in tempo reale, a ridosso cioè dell’evento, è innegabile che all’intellettuale
venga richiesto di «stare sul pezzo», di intervenire quando la questione è
rovente e prima che detta questione o si raggeli o diventi un vasto incendio.
Si fa appello alla forza profetica dell’intellettuale o, se non a quella
profetica, a quella lucidamente anticipatoria.
Prenderemo in considerazione due intellettuali della prima metà del
novecento, Klaus Mann e Arthur Koestler (quest’ultimo resterà una voce
intellettuale, isolata e pertanto autorevole, anche per buona parte della seconda
metà del novecento). Klaus Mann pubblica nel 1936 ad Amsterdam Mephisto, una lucidissima anticipazione in
forma satirica di quello che sarà il vero volto del nazismo, che all’epoca (1936,
appunto) godeva ancora di rispettabilità e di non poche simpatie
internazionali. Arthur Koestler pubblica a Londra nel 1940 Buio a mezzogiorno (Darkness
at noon). Lo ha scritto nel 1940, in epoche non sospette, si direbbe oggi, quando
ancora le procedure staliniane non erano note alla vasta opinione pubblica
internazionale, come poi divennero. I due libri citati – i quali, dati i tempi editoriali
degli anni ’30 del secolo scorso, potrebbero essere definiti anche come instant
book – intervenendo in tempo reale costituirebbero una smentita dell’assunto
circa lo scarto temporale in cui interviene l’intellettuale. Ma in questi due libri
menzionati non è più all’opera il ruolo dell’intellettuale[1],
è all’opera un’altra forza, che è quella profetica o anticipatoria. La funzione
intellettuale è riflessiva e posteriore, quella profetica precede l’evento, è
rischiosissima, e genera quasi sempre fallimenti. Non nel caso di Klaus Mann e
di Arthur Koestler. Non nel caso, più generale, di Franz Kafka.
[4. Le fascette editoriali]
Il ruolo di appartenenza/disappartenenza dell’intellettuale alla
classe o comunità di riferimento, nel suo eclissarsi dallo scenario odierno, ha
lasciato una scia nelle fascette editoriali che promuovono i libri in uscita.
La legge che governa la comunicazione di dette fascette, usualmente
compendiate in un succinto slogan di pochissime parole, riecheggia il principio
di disappartenenza, ed è la seguente:
AUTORE (-Xⁿ) : COMUNITÀ = LIBRO → LETTORE
Xⁿ indica il gradiente di appartenenza dell’autore (intellettuale)
alla comunità (dei lettori di gialli, per esempio, degli «indignati» contro la
casta, dei golosi di storie di mafia o di camorra, dei solidali con i migranti,
ecc.). Il segno meno anteposto alla formula indica il grado di disappartenenza
dell’autore alla comunità.
La fascetta si rivolge non all’universalità del pubblico (perché in un
caso siffatto non vi sarebbe spazio di disappartenenza, nessuno appartenendo
totalmente alla comunità generale), ma ad una comunità particolare, per quanto
vasta ed al limite confinante con quella generale (questo avviene con la
letteratura crime, per esempio, ma più ancora nella letteratura impegnata contro
le mafie, giacché: chi è pro mafia?). La fascetta dice: caro membro della
comunità, ti presentiamo un libro destinato a te e alla comunità cui
appartieni, libro che estende e rinforza l’ambito di influenza della tua
comunità e di conseguenza di te stesso, in quanto è scritto da un autore che,
seppure appartenente alla comunità, se ne distacca (-X) di quanto (ⁿ) occorre
per non risultare conciliatorio o consolatorio, e di quanto è necessario per
fungere da pungolo per quella parte della comunità che troppo si adagia sul
canone acquisito e che reclama la mera ripetizione. Questo che ti stiamo
presentando ora è un libro «nuovo» perché nel mentre ti conferma nelle certezze
comunitarie di appartenenza non viene meno al suo doveroso ruolo di bacchettare
chi si adagia troppo (non tu, lettore, sia chiaro!). L’intellettuale si è
nascosto nelle redazioni delle case editrici.
[5. Sopravvivenze dell’intellettuale]
Oltre le fascette editoriali, la funzione intellettuale sopravvive oggi in una figura che, seppure non immune dall’intervenire in tempo reale sulle sciagure top trends, si caratterizza per assumere una certa distanza prospettica dal presente accadere dell’evento, riservandosi spazi di riflessione su questioni non battute dalla agenzie di stampa e mostrando altresì di disappartenere in parte alla comunità cui appartiene e che rappresenta al massimo grado di potere. Papa Francesco, sin dal nome che si è scelto, disappartiene alla Chiesa cattolica cui appartiene, alla comunità potenzialmente universale dei fedeli. Non solo non dorme negli appartamenti papali ma, come un normale sacerdote, in un monastero (Santa Marta). Andando contro le gerarchie e gli intrighi di palazzo fustiga i preti pedofili, rubrica i corrotti e i mafiosi come peccatori, annovera tra i peccati contro dio i reati ambientali, usa parole indulgenti verso gli omosessuali («chi sono io per…»).
Papa Francesco è un riformatore. Il doppio ruolo di intellettuale e capo
di una potente organizzazione mondiale è una sofisticatissima mistificazione,
sofisticata come la provenienza di Bergoglio, che è un gesuita. La
disappartenenza, nel caso di Bergoglio, è non solo quella alle gerarchie della
Chiesa, e agli intrighi di palazzo; ma è una disappartenenza alla comunità del
presente, il papa parla con una cantilena, con un tono salmodiante, che è una
traccia superstite della funzione fuori campo dell’intellettuale.
[1] Sebbene
sia Klaus Mann che Arthur Koestler siano accomunati dalla disappartenenza alla
classe di riferimento: Klaus Mann si dissocia dalla sua famiglia; Arthur
Koestler si dissocia dal comunismo, cui aveva aderito.
Antigone non solo parla «in nome e per conto» dei
(diritti dei) morti, Antigone parla da morta. È questo che le conferisce
l’assoluta libertà con la quale parla a Creonte.
Già dentro la morte, Antigone promulga le sue
disposizioni testamentarie, che sono di pari forza (Hegel) o superiori
(Kierkegaard) alle disposizioni regolamentari di Creonte.
Facciamo un passo avanti, o indietro.
Per capire da quale dimensione Antigone parla, basta
considerare la natura del testamento come atto di disposizione del mondo
futuro. Colui o colei che fa testamento, ed anche chi lo fa in limine mortis,
parla ancora da vivo, ed in fondo non crede alla morte, che sta sempre un po’
più oltre il presente. Chi fa testamento ha ancora davanti a sé un po’ di
futuro.[1]
Antigone non fa testamento, perché non ha futuro davanti a sé. Antigone
legifera sul passato, perché è già nel post-futuro (per distinguerlo dal
futuro).
Le lettere dei condannati a morte della Resistenza
antifascista, che per certi versi si trovano in una condizione analoga a quella
di Antigone, pensano in realtà al futuro, all’adorata moglie, agli amatissimi
figli, ai genitori, ai fratelli, e contengono la consapevolezza che il
sacrificio non sarà (futuro) vano, perché sono scritte dalla parte della
giustizia del futuro.
Antigone non sente di appartenere al futuro. La sua
famiglia è tutta nell’Ade, eccetto Ismene.
Per misurare la distanza che separa Antigone dal
nostro mondo moderno basta pensare al fatto che oggi non è più praticata
neppure quella forma debole di verità ultima che è il testamento. Oggi, per lo
più, si muore senza testamento. E non solo perché la legge si surroga a tutto,
e perché vi sia la quota legittima per i famigliari superstiti. La nostra
tragedia è l’assenza di tragedia. Il tragico presso di noi, scrive Friedrich
Hölderlin in una lettera,[2] è che
«… ce ne andiamo dal regno dei vivi del tutto silenziosamente, impacchettati in
qualche contenitore, e che non espiamo, divorati dalle fiamme, la fiamma che
non abbiamo saputo padroneggiare.»
Nel testamento giuridico la morte è sì un evento
futuro (incerto nel quando, non nell’ an, direbbero i latini), ma
pur sempre preso in carico dal disponente. La morte senza testamento è una non
presa in carico della morte. La morte diventa così un arrestarsi della macchina
biologica, nulla più.
Da questa odierna lontananza al quadrato dalla morte
noi oggi ascoltiamo, ma senza davvero comprenderla più, la voce di Antigone.
Neppure il suicidio, che potrebbe sembrare un atto
analogo alla scelta di Antigone, e che in effetti si avvicina molto ad
Antigone, neppure il suicidio replica la posizione di Antigone, perché il
suicida, quand’anche lasci un biglietto di spiegazioni, sceglie di non parlare
più, di affidare al rimbombante silenzio la promulgazione della propria
tragedia, mentre Antigone, da una posizione più arretrata e non più negoziabile
(a differenza della tormentosa auto negoziazione che normalmente accompagna il
suicidio), parla e legifera.
[2. ὕβϱις e νέμεσις ovvero la
nascita della coscienza. ὕβϱις come effetto
rebound del confronto. La nascita della divinità.]
Si è soliti affermare che il mortale che si è sentito,
che ha osato rendersi per statura e potere simile agli dei si sia macchiato
indelebilmente di ὕβϱις e che,
pertanto, prima o poi, verrà raggiunto e
castigato dalla νέμεσις. L’esempio classico è Capaneo, che sugli spalti di Tebe
sfida il potere di Zeus, e viene incenerito dalla folgore.
La felicità umana (quello che possiamo intendere con
tale locuzione) è intrinsecamente vincolata al confronto con la minore felicità
o con la maggiore infelicità altrui. Nella gloria del successo, nel momento del
trionfo e del massimo potere l’essere umano ha bisogno, per poter constatare e
misurare il proprio successo, trionfo e potere, del confronto con chi non ha o
con chi più non ha potere. Qualcosa di analogo al celebre rapporto
servo-padrone di hegeliana memoria è qui all’opera.
Gli dei c’entrano poco. O molto, come vedremo. Quando
il trionfatore trionfa non si accorge, ovviamente, di macchiarsi di ὕβϱις. Se qualche
indovino, qualche Tiresia, glielo sussurra all’orecchio, o il coro della tragedia glielo insinua con parole ambigue, il
trionfatore o non ascolta (Giulio Cesare, Shakespeare), o fa mettere a morte
l’indovino o chiude i teatri, o tutte e tre le cose insieme. Poi avviene che il
trionfatore cada in rovina. E allora quel confronto che era stato necessario
istituire per misurare l’estensione del dominio del proprio potere, ritorna,
non invitato, ospite sgradito, a fare altre misurazioni. È a questo punto, non
prima, che entra sul proscenio della coscienza sconfitta ὕβϱις, che al
momento della gloria era rimasta acquattata in silenzio in un angolino. Ora
prende la parola. E comincia a spuntare le unghie all’ex (ormai) trionfatore. Quel gusto dolce del successo proprio e dell’altrui sventura si cambia in un che di amaro. Un fuocherello si accende
nell’anima e l’anima inizia a bruciare di vergogna, quella stessa che devono
aver provato i soccombenti al momento, ormai un pallido ricordo, del successo
dell’ex trionfatore. Più grande fu allora la gioia, più sconfinata diviene ora
la disperazione. Il confronto si è rovesciato nel suo opposto, è tornato a casa
con effetto rebound. Lo sconfitto maledice ora il mondo, la vita e la coscienza
stessa che nasce per la prima volta come rimorso.
Che c’entrano gli dei in questa dialettica del potere
solo e soltanto umana?
Se non ci fossero queste entità para divine che si
impossessano del mortale traviandolo e dominandolo (ὕβϱις) e poi
punendolo (νέμεσις), il mortale
sarebbe gettato in una notte ancora più buia, più sconfinata. I Greci, che lo hanno
forse per primi capito, hanno partorito dalle loro profondità arcaiche dei
rimedi, che sono appunto degli dei.
Avendo essi compreso che ὕβϱις e νέμεσις sono connaturati alla felicità/infelicità umana, in altre parole al destino
umano, e non solo al singolo eroe malvagio e tracotante, hanno, con un rimedio
simbolico ma decisivo, contenuto entro limiti accettabili, benché tragici, lo
smarrimento dell’io nella deriva senza fine del confronto con l’altro.
[3. La legge della tragedia. La scomparsa della
tragedia.]
Nelle Note all’«Edipo»[3]Friedrich Hölderlin espone la «legge calcolabile» che governerebbe la
tragedia greca.
Questa legge garantisce l’equilibrio strutturale della
tragedia, come una legge della scienza delle costruzioni.
La legge è «ciò che in metrica si chiama cesura,
la parola pura, l’interruzione antiritmica […].»
La cesura viene a dividere la tragedia, il succedersi
delle rappresentazioni che la costituiscono, in due metà. La cosa interessante,
che rende straordinaria l’intuizione di Hölderlin, è che tale cesura non cade
al centro per così dire geometrico della tragedia, ma cade o più verso l’inizio
o più verso la fine. La cesura serve a riequilibrare uno squilibrio, serve a
«difendere» una parte della tragedia dall’altra, cioè a difendere la tragedia
da se stessa. È come quando una barca si inclina pericolosamente da un lato, e
rischia di ribaltarsi e il timoniere ordina ai naviganti di spostarsi
dall’altro lato. La cesura sarebbe questo «contrappeso», una misura di
salvaguardia per evitare alla tragedia di inabissarsi. Nell’Edipo la cesura,
secondo Hölderlin, si troverebbe quasi all’inizio, e sarebbe costituita dai
discorsi di Tiresia. Il «ritmo delle rappresentazioni è fatto in modo tale che,
in eccentrica rapidità, le prime sono più trascinate dalle seguenti, allora
la cesura o l’interruzione antiritmica deve ritrovarsi all’inizio, cosicché
la prima metà è, per così dire, difesa contro la seconda e l’equilibrio, dal
momento che la seconda metà è originariamente più rapida e pare pesare
maggiormente, grazie all’azione contrastante operata dalla cesura, s’inclinerà
di più dalla fine verso l’inizio.»
Nell’Antigone si avrebbe invece una inversione della
posizione della cesura, collocata più verso la fine, e segnata parimenti dai
discorsi di Tiresia
*
* *
Questa «legge calcolabile» della tragedia (al di là di
ciò che se ne possa pensare nel merito, è interessante che Hölderlin la esponga
con una sicurezza che, dovendo escludersi la boria del gradasso o del
dilettante, è spia di quella certezza ragionata tipica della
incontrovertibilità che accompagna uno scienziato quando rinviene una legge di
natura) mi stimola ad un saccheggio metodologico per esporre in breve (e con
una sicurezza infinitamente minore a quella di Hölderlin ) una legge che
riguarda il romanzo.
Nel romanzo la tragedia è un’eco lontana, una sorta di
rumore di fondo o di «frequenza cosmica». Il romanzo ha seppellito la tragedia,
ma senza ucciderla del tutto. Il romanzo ha fatto con la tragedia quello che i
nazisti fecero sovente con i loro prigionieri. Li fucilavano con un colpo alla
nuca sull’orlo di una fossa comune (fatta ovviamente scavare dai medesimi
morituri), dove cadevano dopo il colpo. Poi, a lavoro ultimato, i nazisti
facevano ricoprire di terra la fossa da altri prigionieri, prossimi morituri.
Non di rado accadeva che si vedesse il terreno «sobbollire», perché qualche
prigioniero cadeva nella fossa ferito ma non ancora morto, il colpo non essendo
andato a segno completamente.[4]
Ecco, poniamo che il rapporto tra il romanzo e la
tragedia stia in questi termini.
E il coro della tragedia? Che fine avrebbe fatto? Dove
è scomparso, dove si è nascosto? Dove sobbolle?
Sulle tracce del metodo di Hölderlin avanzo questa
legge: il coro si nasconde dietro gli incisi e le parentesi. La voce della
polis, la voce degli dei, la voce del mito e dei morti, la contro-voce del romanziere
si acquatta negli incisi, nelle apposizioni talvolta, nelle antifrasi, nelle
digressioni.
Il romanzo ha due voci e due pensieri: quello
dell’autore e quello del contro-autore (ciò che resta del coro).
L’univocità del romanzo attuale è, da questo punto di
vista, la fine del romanzo.
[1] Non sarà un caso se il tono dominante del testamento è
giuridico e lirico-conciliativo («vi ho voluto bene», «scusatemi se talvolta…»,
«cercate di volervi bene e di andare d’accordo…»), scevro di recriminazioni,
accuse, maledizioni, ecc. (chi scrive cose del genere nel testamento è messo in
un angolino di comprensione dai familiari superstiti, bisogna capirlo, lui era
così, però in fondo era buono o non era cattivo, [de mortuis nihil nisi bonum]…
Nei casi più estremi si mormorerà di follia, quindi di cose scritte ma non
degne di seria considerazione). Il testamento è sotto un auto-censura.
[2] Lettera di Hölderlin a Böhlendorff, citata in F. H. Hölderlin,
Sul tragico, Feltrinelli, 1980, Saggio
introduttivo di Remo Bodei, p. 39.
[3] Friderich
Hölderlin, Edipo il tiranno, Feltrinelli, UEF, introduzione Franco Rella,
traduzione e cura Tomaso Cavallo, pp. 193-201.
[4] Se non
ricordo male, vi sono testimonianze per le quali i nazisti lo facessero di
proposito, di lasciar cadere nella fossa prigionieri ancora vivi. Qui ci sono
due interpretazioni, anzi tre: secondo la prima si trattava di mero sadismo; la
seconda propende per un fatto di risparmio di munizioni; secondo la terza si
trattava invece di una precisa tecnica terroristica per far capire ai
«giustiziandi» che c’era poco da ribellarsi, e che c’era un grado ancora
peggiore della pallottola alla nuca, ed era quello di chi finiva vivo nella
fossa. La pallottola alla nuca era una fortuna, qualcosa cui anelare in quegli
istanti fatali, una benedizione.