L’errore di Moresco

[Antonio Moresco è un eretico della letteratura. Le considerazioni che seguono sono chiose a Lettere a nessuno e a Gli esordi]

Se Moresco ha commesso un errore, questo è di aver preso sul serio la letteratura. Ha bussato per anni, con la pazienza di un’ape operaia, alle porte girevoli dell’editoria, sebbene essa producesse principalmente merda e lasciasse transitare, da quelle porte scorrevoli ma non soccorrevoli, le mosche cocchiere, le api con il miele, no.

Ha bussato per anni, Moresco, con la pazienza, dicevamo, di un’ape industriosa e infaticabile. Di un’ape operaia che, ostinatamente, scambia per un’arnia un cesso pieno di merda.

Se un errore di Moresco vi è stato, l’errore è stato di aver preso sul serio, troppo sul serio, la letteratura, al punto di scambiare un merdificio per un mielificio. Un maleficio per un mielificio, anche.

Se c’è un errore di Moresco, l’errore è quello di non aver preso sul serio la letteratura. La letteratura è una cosa seria, Moresco: la letteratura sono cravatte, bonifici bancari, viaggi in Pappagonia pagati per scrivere un reportaggio, il conto delle pompe funebri per il funerale dell’anziano padre odiato e poi rimpianto, l’asilo nido dei figli a € 700,00 al mese fino alle 15.45, la letteratura sono i pannolini, i rimborsi spese, il gettone di presenza, il mutuo per la casa, il mac su cui scrivere il nuovo romanzo. Vai a fare il frate in convento, Moresco, vai a fare il mendicante scalzo in Africa, frate Moresco del cazzo.

La letteratura è una cosa seria. La letteratura enno soldi.

Moresco e la rivoluzione 1.

Se una colpa ha Moresco, è quella di aver preso sul serio la rivoluzione. Quando tutti la abbandonavano, lui, come Enea con l’anziano padre Anchise, se l’è caricata sulle spalle, e l’ha portata in salvo attraverso gli incendi dell’ideologia e l’ha nascosta, per proteggerla, sotto il velo di parole come oltranza, radiante, inarreso, prefigurazione, ecc. Naturalmente i veri rivoluzionari irriducibili non la presero bene, non ci misero molto ad additare un altro traditore, un altro reazionario, un altro disertore.

Se Moresco ha una colpa, questa è di non aver preso sul serio la rivoluzione. Mentre la nave della rivoluzione si fracassava sugli scogli, Moresco si è illuso che non solo i marinai, ma anche gli ufficiali di vascello, i nostromi e financo gli ammiragli si buttassero a mare e buttassero a mare le loro uniformi, i loro gradi e le loro spalline, le loro dottrine e le loro mappe di navigazione.

Si è sbagliato, Moresco, perché la rivoluzione è una cosa seria, e quantunque la nave sia affondata gli ufficiali, i nostromi e l’ammiraglio continuano ad emanare direttive ai naufraghi dalle tolde immateriali, ma ben remunerate, delle università e delle case editrici.

La rivoluzione, Moresco, è una cosa seria.

Moresco e la rivoluzione 2.

Moresco non smette di girarle attorno, le cambia solo il nome: sostantivi come ferita, lacerazione, collasso seguiti da disseminazione, irradiazione, binomi come lacerazione-moltiplicazione, ma anche aggettivi sostantivati come impensato, incalcolato, inconciliato, inarreso.

Moresco e la conoscenza del mondo

Uno scrittore, per essere tale, credo che fondi il suo essere tale su due pilastri: una grande sventura e una vasta conoscenza di un ambiente umano.  La sventura può essere tanto esterna quanto interiore, poco cambia. Quanto alla conoscenza degli uomini, invece, una lunga esperienza in qualunque umano consorzio, vuoi il salotto per Proust, vuoi il seminario per Joyce, sono basilari. Per Moresco, senza che ciò dia adito a inutili equipollenze, la lunga esperienza in un’organizzazione della sinistra extra-parlamentare è decisiva. Da lì vengono il pullulare dei caratteri, da lì vengono le storie.

Moresco e la metrica

Leggendo Gli esordi penso di aver scoperto una cosa.  Si tratta di una scoperta talmente evidente che ai critici sarà sfuggita. Gli esordi non è un romanzo ma è un poema costruito in larghissima parte su uno schema metrico composto di due settenari o di un quinario e un endecasillabo. Quasi tutti i periodi terminano con un endecasillabo. Mi sono accorto di ciò perché notavo che mi distraevo dall’immagine ma venivo comunque trascinato ad andare avanti nella lettura da un qualcosa di meccanico, che poi ho individuato essere pura e semplice metrica.  

Moresco e la musica

Sarà allora per quanto detto sopra che Moresco scrive (Lettere a nessuno) che durante la stesura, durata quasi quindici anni, de Gli esordi non poteva ascoltare la musica, l’ascolto della musica lo disturbava, lo distoglieva, interferiva con la sua musica.

Moresco è un pesce?

Moresco è un pesce fuori dell’acquaio letterario italiano. Sta fuori dal vetro, guarda fisso, non si sa come respiri, ma non muore.

Moresco e i vip

Una cosa che si è poco rimarcata nella poetica di Moresco sono le non rare agnizioni di scrittori famosi o di critici rinomati. Sono apparizioni improvvise, così «impensate» da risultare decontestualizzate, dove emerge, principalmente, un disallineamento tra lo scrittore celebre e quello in carne ed ossa che Moresco vede apparire dinnanzi ai propri occhi. Si tratta di disincontri sempre deludenti, dove solo una cosa si rafforza, la convinzione che per uno scrittore la celebrità e la fama non è una fortuna, ma una sciagura. Il riconoscimento di Abraham Yehoshua a Milano, in viale Hoepli, di fronte all’Hotel de la Ville… (Lettere a nessuno, p. 618). Moresco non manca, più in generale, di registrare il riconoscimento per strada di personaggi famosi, come nel caso del sindaco Pillitteri, per esempio…

Moresco e il papa

… e la visione o apparizione di Woityla, visto di scorcio, incorniciato in una finestra aperta della diocesi di Milano, nel retro dell’edificio, in una notte afosa d’estate, un ritratto tra l’ultimo Tiziano e Francis Bacon, colto mentre prende congedo dai pochi privilegiati fedeli rimasti a salutarlo prima che si corichi…

Moresco davanti all’obiettivo

Non so quanti critici, di quelli che si sono occupati di lui, avranno notato che nelle foto che lo ritraggono Antonio Moresco non guarda mai in camera, i suoi occhi sono abbassati, in un atto di autoprotezione, si direbbe, di smarrimento lievemente circospetto, di infinita mestizia, soprattutto, che contiene la verecondia, l’imbarazzo, la timidezza e la compassione, virtù negative e oppositive alla sfrontatezza dei selfie di oggidì.

Ma il punto non è solo questo, non è questo il problema.

Se si guardano bene queste foto, si nota che dietro le due lenti rotonde i due occhi prendono direzioni ed espressioni non convergenti. Un occhio è decisamente semichiuso, la palpebra essendo calata di un 75%, si direbbe quasi un qualcosa di congenito; l’altro occhio sembra un po’ più all’erta, sebbene sia spalancato solo come una fessura, al 35% delle sue possibilità. Si tratta di un’allerta non meno vigile sebbene non proclamata. Lo sguardo di Moresco non è unidirezionale. Il padre Priore de Gli esordi ha due teste, due facce. Ecco, si potrebbe dire che la figura del Priore, più che grottesca, sia un autoritratto. Normalmente, e ipocritamente, l’integrità dell’io abbisogna, per consistere in se stessa, della deformazione grottesca del non-io, dell’altro. È solo un’idea, forse sbagliata, ma è probabile che i veri scrittori siano coloro che riescono a lavorare di sbalzo con le deformità non degli altri, ma con quelle di se stessi.

Essere o non-essere

Nella mischia tra l’essere e il non-essere, in cui, che lo voglia o che non lo voglia, si trova invischiato ogni scrittore, e forse ogni essere umano, la posizione di Moresco è singolare. Egli, come molti scrittori aspiranti alla pubblicazione, ha dovuto incassare, come è noto, una sfilza di rifiuti editoriali. A differenza di molti scrittori, anche di quei pochi che alla fine hanno incassato un contratto, Moresco ha fatto, della sua odissea editoriale durata quindici anni e forse più, materia della sua scrittura.

Nell’altalena tra l’essere e il non-essere Moresco non ha molta scelta: il suo stato, la sua posizione è inchiodata al non-essere, all’altalena in posizione statica, rimuginativa, rammemorativa, ebetudinaria. Per spiccare i folli voli della fantasia, l’altalena di Moresco deve restare in posizione di riposo, orizzontale (solo così per lui è possibile sprofondare nella verticalità). Moresco sembra come un bambino imbronciato, che occupa l’altalena, la sequestra ad altri bambini che fremono per librarsi avanti e indietro, ma resta fermo.

È naturale, normale, che l’editore diffidi di uno scrittore come Moresco.

Perché però Moresco sta fermo su quell’altalena? Se scrivi e lo fai in vista della pubblicazione, è evidente che accetti l’altalena, il suo oscillare vertiginoso tra il non-essere della stasi e l’essere dello slancio (e del lancio commerciale). Moresco, come ogni innamorato deluso, si nasconde al parco e medita sulla sua sventura seduto fermo sull’altalena. Lui aveva dell’editoria un’idea salvifica, gloriosa ed eccelsa, propulsore lei dell’incalcolato, dell’impensato, dell’inarreso, della moltiplicazione, e invece si è dovuto amaramente ricredere. Pensava, Moresco, che essere pubblicati fosse davvero prendere lo slancio e librarsi sul firmamento dell’Inconciliato, qualunque cosa ciò possa significare. Ha atteso, Moresco, quasi venti anni per questo lancio, ma quando alla fine, sulla soglia dei quaranta anni di età ciò è avvenuto, è stata una catastrofe, in senso etimologico. Pensava, Moresco, che all’apice dell’oscillazione dell’altalena vi fosse la pienezza del non-essere, della disseminazione al suo grado più esteso, l’irradiazione, un principio di r […]; e invece ha dovuto constatare, Moresco, che lassù non c’è tutta quella vista che si pensa, che con la stessa velocità alla quale si ascende si ridiscende, e che i salotti, le cene, i festival, i convegni non sono tutta questa goduria e pienezza del non-essere…

Eppure Moresco, e non vuole essere un paradosso questo, è il cantore più puro che l’editoria, l’industria editoriale contemporanea abbia mai avuto. Lettere a nessuno sono lettere d’amore, dichiarazioni d’amore verso l’editoria, gli editori e gli editors. Più si allontanano da lui e più lui, come l’utopia di Galeano, si mette in cammino. Mai l’editoria era stata cantata, prima di Moresco, per quello che davvero è: la terra promessa. Quando poi esausto, stremato è approdato a tale terra promessa, come ogni innamorato finalmente appagato e corrisposto, è rimasto deluso, Moresco.

In cima all’altalena, Moresco sperava, segretamente lo sperava, ma era stata, questa, la sua speranza più grande, Moresco sperava che il mondo, il parco pubblico, si mettesse anche lui a girare, si inclinasse paurosamente, come paurosamente inclinato è spesso il mondo delle sue visioni. Che in cima all’altalena il non-essere, in quel punto immobile ed eterno della stasi aerea, riprendesse i suoi inalienabili diritti. Macché, niente da fare. Il mondo, il parco, il giardino dell’eden dell’editoria restava fermo, tetragono, inconcusso.  Non si spostava di un millimetro. Allora capì, Moresco, che non era quella la cosa che aveva tanto desiderato in cuor suo. Capì che l’editoria lo aveva truffato, che lo aveva sì pubblicato ma non lo aveva seguito, che il non-essere era appannaggio esclusivo di essa; non aveva, Moresco, per anni e anni, per notti e notti battuto sulla macchina da scrivere per vedersi sottrarre quel privilegio di immobilità, quella sospensione dell’essere che aduna tutte le tempeste.

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Foto di copertina Antonio Moresco, 2019, by L’Errore di Kafka.

Tre volte Lenin

Non è vero che Lenin sia finito in soffitta a far compagnia a Marx, ha solo traslocato nelle pagine dei romanzi, non necessariamente «storici».

In Italia si registrano, solo nell’ultimo anno, ben due epifanie leniniane (non leniniste). La prima nel «romanzo documentario», questo sì storico-biografico, M di Antonio Scurati. A stretto giro di stampa, Lenin riappare nel romanzo Lo stradone di Francesco Pecoraro. In questo romanzo, impegolato com’è nella attualissima e postmoderna deriva urbanistico-morale-esistenziale di un quartiere dell’Urbe e di un suo rassegnato abitante, tutto ci si attenderebbe tranne che di imbattersi nel capo dei bolscevichi.

Ma l’apparizione di Lenin più sconcertante si ha, come vedremo, nel romanzo Gli esordi di Antonio Moresco, libro pubblicato da Feltrinelli nel 1998, ventun anni orsono, frutto di una gestazione durata quindici anni.

Nelle tarda narrativa italiana recente Lenin fa capolino almeno tre volte.

Tre volte Lenin.

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Nel corso del novecento, e dopo il rapporto Krusciov, si è operata una damnatio dello stalinismo ripristinando con ciò il valore primigenio, immacolato e potenzialmente valido di Lenin e della sua politica. Se Lenin non fosse morto troppo presto…[1] Nelle celebrazioni del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, due anni orsono, la storiografia ha fatto un piccolo passetto in avanti: pur nelle diversità di valutazione, trattandosi di un evento che ha spaccato il mondo in due e che non finisce di finire[2], la storiografia sembra concordare su di un punto: Lenin ha avuto culo. Dopo la catastrofe della rivoluzione del 1905, l’ipotesi di una rivoluzione socialista dentro i confini zaristi veniva esclusa da tutti, Lenin incluso. Poi l’attentato di Sarajevo, poi la guerra (questa sì prevista da Lenin, profezia non difficile da formulare, peraltro), poi la disfatta russa e la popolazione russa ridotta allo stremo, le madri e le operaie di Mosca che scendono in piazza reclamando la cosa più semplice e ovvia, «pane e pace» e quindi la fine della guerra. I dieci giorni che sconvolsero il mondo sconvolsero anche Lenin, precipitosamente di rientro dalla Svizzera nel famoso vagone blindato. La presa del Palazzo d’Inverno non è l’esito matematico di una previsione. Quello di cui la storiografia più accreditata non dubita più è che i bolscevichi, più che accendere il fuoco, furono abili nel soffiarci nella direzione a loro più favorevole. Culo + abilità tattica.

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Nel romanzo storico M di Antonio Scurati, dedicato a Mussolini, il «figlio del secolo», nel decisivo segmento temporale 1918-1924 (la presa del potere), Lenin appare più come un’emanazione plotiniana che come uti singulus. Molteplici sono, ovviamente, i riferimenti indiretti a Lenin, ai bolscevichi e al bolscevismo[3]; solo una volta però Lenin appare di persona. Siamo a Mosca, alla fine di ottobre 1922. Una delegazione di comunisti italiani è presente al IV congresso dell’Internazionale comunista. Ci sono Nicola Bombacci, un saccente Amadeo Bordiga, Camilla Ravera e un molto infermo Antonio Gramsci.

«Anche Lenin, – scrive Scurati – il più grande uomo del secolo, purtroppo, è malato. Quando riceve i compagni italiani, è già stato colpito da un colpo apoplettico ma li accoglie sorridente, rivolgendosi a Bordiga e a Camilla Ravera in italiano, memore della sua giovinezza di esule a Capri. Bordiga gli manifesta l’apprensione di tutti per la sua salute:

“Sto bene,” risponde con prontezza, “devo però obbedire a tiranniche prescrizioni dei medici. Per non riammalarmi…” Poi, lasciato in sospeso il suo breve futuro, chiede notizie sugli avvenimenti in Italia.

Bordiga accenna alla questione dei rapporti con il Partito socialista ma Lenin lo cassa. Non ha tempo per queste diatribe. Vuole sapere cosa accade con i fascisti in Italia.

Bordiga, ubbidiente, espone i fatti, ripete analisi e giudizi già espressi. A un tratto, il grande uomo lo interrompe e chiede cosa pensino operai e contadini di quegli avvenimenti[4]. Bordiga, il capo dei comunisti italiani, rimane interdetto, come lo studente colto di sorpresa da una domanda fuori programma.»

Un Lenin colpito dall’ictus ma perfettamente lucido, che umilia il capo dei comunisti italiani e gli consiglia di non sottovalutare le derive a destra del proletariato. Qui, in Scurati, rifulge ancora, nonostante la malattia, lo stratega, il profondo conoscitore delle masse.

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Nel romanzo Lo stradone di Francesco Pecoraro, dove un ex professore universitario in pensione mena i suoi malmostosi giorni in un quartiere della Città di Dio, Roma, adulterato dalla moderna, ma eterna, cafonaggine romanesca e italica, quartiere di già nobili ascendenti operai nel settore del laterizio, luminosa e trascendente appare la figura di un Lenin ancora giovane di passaggio a Roma, proveniente da Capri e diretto verso nord. Avendo a disposizione alcune ore prima che il suo convoglio riparta, Lenin si concede una passeggiata per i Fori Imperiali, ammira e riflette sulla cupola di Michelangelo e acconsente ad incontrare gli operai del forno Hoffman, sindacalizzati ma di evidenti tendenze anarchico-rudimentali.

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Nel romanzo Gli esordi di Antonio Moresco, parte seconda «Scena della storia», l’io narrante pochisciente raccoglie, in capitulo mortis, l’inaffidabile testimonianza di un vecchio comunista sui generis, il Gagà, un bellimbusto più incline alle balere e alle cravatte che non alle riunioni di partito. Una figura del genere mancava probabilmente nella tarda letteratura italiana. Il Lenin che vediamo qui rappresentato è un Lenin malato terminale, prossimo alla defunzione. Acquattato, insieme ad un ineffabile professore, esperto imbalsamatore, in un vano segreto ricavato dietro il camino della camera da letto e di agonia del capo dei bolscevichi nonché patriarca della rivoluzione e dell’U.R.S.S., il Gagà spia il momento propizio dell’ultimo spiro del capo per prontamente intervenire e procedere alla perfetta imbalsamazione.

Attraverso lo stretto pertugio tra due assi di legno il Gagà racconta di aver visto il moribondo Vladimir Il’ič leccare, talora con dedizione, talaltra con furia la fica della compagna camerierina Anastasia Nicolaevna Romanova. Nome coincidente con la figlia dello zar Nicola II, messa a morte dai bolscevichi assieme agli altri membri della famiglia imperiale il 17 luglio 1918. Quel giorno del 1918 Anastasia aveva compiuto da poco diciassette anni.

L’impiego della locuzione «leccare la fica» è qui deliberato sebbene ciò cui il Gagà assista da dietro lo spioncino sia, più che un atto sessuale, un gioco di spettri ad ombre divaricate, alimentate dalla fiamma del camino. E tuttavia la scelta è voluta per non dover ricorrere a circonlocuzioni che introducano anche di poco l’ammiccamento pruriginoso e bofonchiante o che sottraggano anche di poco il coraggio della visione, o scalfiscano anche di poco la doppia dissacrazione del potere sovrano, e la sua inconcepibile riconsacrazione. Ciò premesso, la locuzione impiegata è inesatta perché quello che la compagna camerierina offre al capo pelato del capo moribondo non è un’elargizione licenziosa, qui niente Mirbeau, ma un atto di nutrizione, di alimentazione assistita, diremmo oggi.

«[…] “Guarda cos’ho preparato per te…” gli sussurrava Anastasia, “vieni qui a mangiare…”»

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Senza dilagare in considerazioni sul ruolo che nella letteratura e nel cinema riveste il dittatore sul letto di morte, l’animale morente che pur egli diviene come tutti, qui è da evocare, perché non è possibile evitarlo, il film Taurus di Aleksandr Sokurov sugli ultimi giorni di Lenin. Il film è uscito nel 2001 e si ha ragione quindi di escludere che Antonio Moresco possa aver preso ispirazione dal film. Con altrettanta ragione si può escludere che il regista russo abbia potuto leggere il libro di Moresco prima della lavorazione del film. Mentre, infine non è da escludere che Moresco abbia poi visto il film di Sokurov, sarebbe interessante sapere se il regista russo abbia avuto occasione di leggere il libro di Moresco, ed in particolare il capitolo della parte seconda di cui stiamo parlando.

Taurus, Aleksandr Sokurov

Nel film c’è, ad un certo punto, Shura, una camerierina che fa la spiritosetta con Lenin, si intrufola nella sua camera e gli si stende accanto, si suppone con il beneplacito della Krupskaja, la moglie del capo.

Torneremo sul film.

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Un Lenin preso di scorcio, quello di Scurati, nell’esercizio sì del suo potere ma in un momento collaterale, durante una conversazione nei corridoi del congresso, ed un Lenin per di più già toccato dal male; un Lenin che mette in guardia i comunisti italiani sul fascismo. Scurati qui si ferma, non retrodata, forse perché ha pronto un libro sul giovane Mussolini. Però l’uscita del libro di Scurati ha aperto la via anche alla ricostruzione di possibili incontri o contatti tra Lenin e il giovane Mussolini in Svizzera, a Ginevra.  Non è da escludere che i due si siano incontrati e conosciuti.  Forse Lenin non ha dimenticato quel giovane socialista, quell’oratore brillante, di cui aveva intuito l’energia politica. Forse hanno anche trescato con la medesima, affascinante, compagna socialista rivoluzionaria. Questo quando Mussolini era ancora giovane, e ancora socialista.

Un Lenin che passeggia per Via dei Fori Imperiali, in bombetta, «sempre meditabondo» (p. 110), ben prima di diventare lui imperatore, quello di Pecoraro.

Un Lenin boccheggiante nelle ore dell’agonia a termine corsa, quello di Moresco.

Sembra che la letteratura non possa, o non voglia, inquadrare in piena luce, nel momento della sua massima gloria, il sovrano destituente e costituente. La letteratura sembra obbedire ad una sorta di avvertimento, di warning, simile a quello dei cartelli che venivano messi una volta sui tralicci dell’alta tensione: CHI TOCCA QUESTI FILI MUORE. Chi inquadra il sovrano in piena luce, in pieno volto, in piena gloria, fallisce. Sembra che in tutti e tre i libri in cui Lenin si manifesta questa regola di salvaguardia sia rispettata. Non possiamo non notare, però, che in Scurati e in Pecoraro abbiamo un Lenin abbastanza solitario, sia che metta in guardia i compagni italiani ingenui sia che ascolti poco partecipe, nel borgo operaio di Roma, i discorsi dei lavoratori del laterizio con la mente avanti rispetto a chi gli sta dinnanzi sia che cammini cogitabondo per le vie dell’antica Roma solo con se medesimo, con le sue riflessioni e con i suoi dubbi (pochi); in Moresco, invece, Lenin non è solo. Moresco infrange un tabù letterario, l’eroe va ritratto nella sua solitudine, se lo circondi di cameriere, attendenti, badanti e fantesche, che eroe è? Moresco destituisce il personaggio, come fa Sokurov.

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Scrive Lenin da qualche parte: «Non posso ascoltare spesso la musica – essa mi scuote i nervi. Ho voglia di dire amabili sciocchezze, di carezzare la testa della gente che, vivendo in quest’inferno di fango, può gridare tanta bellezza. Ma oggi non bisogna carezzare la testa di nessuno – per non buscarsi un morso alla mano; bisogna colpire, colpire le teste, senza pietà»

Se vogliamo individuare un minimo comun denominatore dell’umanesimo, questo è da rinvenirsi nell’umanità del sovrano, nell’umanità del disumano. Nell’uomo che ha firmato migliaia di condanne a morte[5], tra cui sei, scoprire alfine che anche egli era un uomo, che apprezzasse Mussolini agli esordi, o che passeggiasse cogitabondo sullo stradone di Valle Aurelia o che leccasse la fica della santa zarina, poco cambia.

La mano del sovrano è grondante di sangue ed è per ciò stesso sacra. La storia del potere in Occidente si cristallizza per la prima volta, e forse per sempre, nel gesto di Priamo che bacia la mano assassina di Achille, per ottenere il riscatto del cadavere del figlio Ettore. Priamo non può fare a meno, nella tenda di Achille, di considerare quanto appaia mirabile l’aspetto di Achille. È un pensiero vertiginoso, che almeno il nostro sicario sia un re, la morte che sparge attorno è così meno insensata. La baciamo allora, la imbalsamiamo.

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Eppure nella terza visione, quella di Moresco, vi è un’anomalia. Abbiamo detto che il sovrano morente non è solo. È nutrito dalla fica della giovinetta imperiale che è stata assassinata per suo ordine. Un fantasma shakespeariano? Moresco schiva con rapidità narrativa lo scoglio. «Chi può mai dire – replica il professore incalzato dal Gagà, entrambi intenti a scrutare da dietro il pertugio – se con questa davvero straordinaria attività della sua lingua non stia operando uno di quei suoi passaggi furiosamente sfalzati, anticipati…?»

Uno scrittore, se è bravo, sa piazzare un aggettivo o un avverbio come una mina – una mina che fa saltare in aria non gli arti inferiori ma i luoghi comuni superiori. A nessuno prima di Moresco era venuto in mente, c’è da scommetterci, di utilizzare un aggettivo, «anticipati», e un avverbio, «furiosamente», per illustrare una condizione terminale.

Moribondo, accasciato su una carrozzella, la compagna infermierina che si allunga come un’ombra gigantesca tra l’armadio e la finestra, spalancante le gambe all’inverosimile, Lenin anticipa- ancora –  il futuro, meglio, opera uno dei suoi celebri passaggi anticipati. Dato che Lenin è prossimo all’ultimo spiro, questo «passaggio anticipato» che altro sarebbe se non un assaggio anticipato di morte? Lenin lecca la morte che lui stesso ha inferto, ricevendone una destituzione, e la scena fondamentale è riconsacrata.

1 DESACRALIZZAZIONE + 1 DESACRALIZZAZIONE = 1 RICONSACRAZIONE

Coerente fino in fondo al movimento sovvertitore che ha messo in azione (per Moresco, come per Scurati e Pecoraro; ma, come abbiamo detto, l’azione sovvertitrice era cominciata e Lenin ci si è tuffato dentro), Lenin non si sottrae ad esso, si sottomette al suo stesso potere e si fa servo della sua stessa idea, e di fronte al Che fare non c’è possibilità o spazio al dubbio: retrocedere verso la vita. Leccare la fica materna, l’alma genetrix. Morendo, Lenin anticipa la vita al suo sorgere, sole nero che spunta al crepuscolo.

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Ricapitolando: il Lenin di Scurati è un Lenin preso di scorcio, figura di eroe in quei tempi eroici, investito di un fascio di luce, come in un dipinto caravaggesco, ma tenuto a debita distanza, per non togliere la scena al suo personaggio principale.

Il Lenin di Pecoraro è un Lenin in pieno sole, un generale tracio che si aggira, antico tra gli antichi, tra le rovine dei fori e la maestà rinascimentale del cupolone. Un Lenin neoclassico.

Il Lenin di Pecoraro è un Lenin anteeffigiem, ma che tutto la lascia presagire; il Lenin di Scurati è un Lenin in-effigie, ma che tutto ne lascia prefigurare lo sfacelo; il Lenin di Moresco è un Lenin post-effigiem, un Lenin come lo potrebbe dilatare e scontornare un pittore novecentesco come Lucian Freud, un Lenin su cui è passato sopra il post-espressionismo, un Lenin la cui effigie si squaglia come cera e diventa pura lingua e puro linguaggio, fa avanzare la lingua e il linguaggio laddove non ci eravamo mai avventurati prima.

Nel Lenin di Pecoraro c’è il martello ma non ancora la falce; nel Lenin di Scurati c’è la falce e il martello; nel Lenin di Moresco c’è la falce, ma non c’è più il martello.

E mi spiego.

Sebbene sia universalmente noto che la falce e il martello simboleggino l’unione dei contadini e degli operai, è altrettanto vero che universalmente la falce è conosciuta come simbolo della morte, non ne sono sicuro ma il simbolo potrebbe avere un’ascendenza biblica, se non classica. Il martello rappresenta invece, inequivocabilmente, il potere di trasformazione del mondo attraverso l’uso intelligente e finalizzato della forza.

In questa cornice è chiaro che il Lenin di Scurati e di Pecoraro è un Lenin del martello, quello di Moresco è un Lenin della falce. Nella storia del comunismo, e massimamente in quello surreale sovietico, si è ampiamente avuto modo di capire come i contadini non siano stati considerati una risorsa, ma un problema. I contadini, legati e attaccati alla terra, sono per loro natura atavica reazionari, avversi alla modernizzazione, legati alla chiesa. I contadini vanno sterminati e/o deportati e sostituiti con operai della terra, roboti, direbbe Pecoraro. Il comunismo è il movimento operaio, è il martello; la falce serve, se serve, a falciare i contadini. Nel simbolo del comunismo campeggia la morte.

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Taurus, Aleksandr Sokurov

Il Lenin di Scurati è un Lenin per disseminazione. Forse che la soggettiva su Mussolini preclude di ritrarre direttamente Lenin? Non è da credere. Si tratta, quella di Scurati, di una scelta deliberata. Possibile che il futuro duce non abbia mai parlato, conversato, a tavola o in qualunque altra occasione privata o pubblica, magari anche in qualche alcova, di Lenin, del primo rivoluzionario socialista ad aver avuto successo e quindi ragione, ad aver preso il potere? Scurati si discosta quando gli pare dal romanzo documentario, visto che in non rare occasioni ci porta in camera da letto, o ci mette a parte delle furiose cupidigie sessuali del futuro duce; non nel caso di Lenin.

In un romanzo «documentario» sul capo di un movimento politico uscito come una majonese impazzita dal socialismo, ci si attenderebbe legittimamente una epifania diretta di Lenin, un colloquio immaginario, un sogno di Mussolini sul capo dei nemici giurati, i bolscevichi, cose così. Sebbene i pregressi socialisti del duce del fascismo appartengano ad una fase della vita precedente al segmento temporale che abbraccia il romanzo di Scurati, come è possibile stralciare una figura così gigantesca come quella di Lenin, di colui che lo stesso Mussolini appella, dalle colonne de Il Popolo d’Italia, «il più grande uomo del secolo», in una sorta di onore delle armi in occasione della notizia della sua morte nel gennaio 1924?

Abbiamo ipotizzato che Scurati, come tra l’altro sembrerebbe annunciato anche dallo stesso autore, abbia in serbo un prequel (oltre che un sequel, nonché, va da sé, il progetto di una serie tv). In quel prossimo libro sulla giovinezza scapestrata e socialista di Mussolini non mancherà di raccontare il periodo svizzero del futuro duce, il possibile contatto a Ginevra con Lenin, e la frequentazione comune di una affascinante socialista rivoluzionaria. Che entrambi abbiano concupito la stessa donna? La cartuccia di Scurati forse è già pronta in canna.

Però intanto non possiamo nascondere un senso di insoddisfazione. Si dice che, all’indomani della notte dei lunghi coltelli, nella quale per ordine di Hitler fu decimato lo stato maggiore delle SA e spazzata via qualunque ipotesi di rovesciamento del regime hitleriano, Stalin abbia esclamato: «Un genio!»[6] Non che Stalin avesse bisogno di insegnamenti in materia di epurazioni, ma non è escluso che abbia trovato, come dire, ispirazione dalla mossa a sorpresa di Hitler. I nemici si spiano e si imitano più di quanto non si pensi. E allora? Possibile che Mussolini non abbia pensato e ripensato mille volte a come cavolo aveva fatto quell’uomo visto a Ginevra a diventare il nuovo zar di tutte le Russie? Se noi siamo visitati in sogno dall’isterico capo ufficio, possibile, e senza incomodare Shakespeare, che Mussolini non abbia mai sognato Lenin? Non è possibile, ed infatti la strategia di contenzione della figura antagonista lascia una falla aperta. Siamo nel marzo 1921, il 5 di marzo. Mussolini è a letto per un incidente aereo, Margherita Sarfatti, non senza una dose di spudoratezza, lo va a trovare a casa. Porta regali per i figli. La moglie Rachele non è entusiasta della visita. «[…] la donna di mondo si dà un contegno. Gli parla di politica europea. Gli riferisce di aver saputo di un giudizio molto lusinghiero del grande Georges Sorel, il teorico del mito della violenza. Pare che a un suo amico Sorel abbia detto: “Mussolini non è un uomo meno straordinario di Lenin. Ha inventato qualcosa che non è nei miei libri: l’unione del nazionale e del sociale.”[7]

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Il Lenin di Pecoraro, il giovane Lenin ante-effigiem è sotto una forte luce, così forte che dal neoclassicismo apparente si slitta verso una sorta di iperrealismo contemporaneo. La strategia di Pecoraro per aggirare la «sovradeterminazione» storica (vediamo un giovane signore dai tratti caucasici in bombetta camminare per le vie del centro di Roma, nessuno sa che un giorno diventerà lo zar di tutte le Russie, io solo, narratore onnisciente lo so, e te lo sussurro a te, lettore complice di questo voyerismo retrodatato) è quella di lasciar trasparire già un’immensa delusione dell’uomo pur tenace e votato al successo: non solo perché ha perso una partita a scacchi a Capri contro un russo riformista, ma perché il proletariato romano che incontra a Valle Aurelia è anarcoide e troppo ciarliero. Il Lenin di Pecoraro è un Lenin che torna a Roma oggi, gli operai con cui si incontra sono «roboti», è un Lenin già conscio dell’immane sconfitta. È un Lenin, sia detto come postilla nostra, già consapevole che l’unica cosa che piace ai Russi sono i nomi corti: Stalin, Putin. Stanco di storia, il narratore de Lo stradone trasmette anche al giovane Lenin tutta la sua stanchezza e tutta la sua disillusione, con effetto retroattivo.

Scrivendo il suo libro, Pecoraro non era al corrente che Lenin comparisse nel romanzo Gli esordi di Moresco, pur avendolo letto e apprezzato.[8]

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Ulteriormente ricapitolando: il Lenin di Scurati è il più grande uomo del secolo, e la sua grandezza fa rifulgere il genio politico di chi ha osato opporsi, e trionfare, in Italia, e primo dei ribelli in Europa, sulle emanazioni di quel portento; il Lenin di Pecoraro è un Lenin cogitabondo e monitorio, il suo incedere per le vie romane serve a Pecoraro a misurare l’entità dello sprofondo ideale in cui, con e nella Città di Dio, siamo finiti; il Lenin di Moresco è un Lenin che oltraggia la sua stessa memoria e la mummia che egli stesso è divenuto, va oltre l’apologetica novecentesca della galassia leninista e accede al martirologio, alla mistica. Sarebbe banale ridurre il Lenin di Moresco a una decapitazione del culto della personalità mediante un allupamento sessuale terminale; così come sarebbe banale ridurlo a una grottesca e parodistica lotta shakespeariana con i suoi fantasmi, una sorta di Macbeth che viene visitato dal fantasma della zarina trucidata.

Lenin è non solo «il più grande uomo del secolo», ma è anche la prima grande icona pop del secolo. È la prima star mondiale dell’epoca della comunicazione di massa. Certo, siamo agli esordi dell’icona pop nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e tuttavia le premesse sono già state gettate: il gadget c’è, il merchandising di bandiere e magliette che incoronerà Che Guevara ne è solo la logica conseguenza su più vasta scala.

Se così stanno le cose, il Lenin di Moresco è un lavoro artistico sull’icona pop, un’installazione analoga a quelle di un Maurizio Cattelan su Hitler o Woytila. Il Lenin di Moresco è un lavoro sulle miriadi di statue di Lenin disseminate in ogni sperduto pago dell’URSS, sui milioni di busti in metallo che si trovano ancor oggi in vendita nei mercatini dei russi, tra i cimeli dell’Armata Rossa, e, in definitiva, un lavoro sulla mummia Lenin e sulle sue innumerabili emanazioni. Al cospetto del volume di fuoco di tale rappresentazione, l’iconografia dell’italico duce e della sua mascella squadrata quasi impallidiscono.

Taurus, Aleksandr Sokurov

Come Moresco, anche Sokurov si installa nella stanza della malattia di Lenin. E come il lavoro di Moresco, anche quello di Sokurov è un lavoro sull’immagine, sull’icona, sull’effigie. È un’operazione artistica di sottrazione alla incipiente imbalsamazione, è una riflessione sull’immagine del sovrano, sui due corpi del re; è uno studio di interni, una sospensione del tempo politico e direi anche umano, un fluire di lunghi silenzi, scanditi da un misterioso rintocco di campana[9] e da interminabili sequenze sulla nebbia che sale lenta attorno alla villa neoclassica in cui si è ritirato, o è stato isolato, il capo. Sono quadri di un’esposizione, sembra veder sfilare la storia dell’arte, non solo russa. L’attendente che apre l’uscio della porta è una citazione da Franz Hals. L’apparizione di Stalin in visita al malato, trasfigurato e quasi goffo in un vestito bianco che gli sta troppo grande è un dipinto iperrealista.

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La rivoluzione è un sacrificio, è il moderno, e collettivo olocausto. I padri sacrificano i propri figli. E allora se nel Lenin di Moresco vi fosse il sacrificio di Ifigenia nei panni della zarina Anastasia, della figlia che lo zar Agamennone-Lenin non ha mai avuto?

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Un ricordo personale: a casa di mia sorella, il giorno del suo quarantesimo compleanno, si era nel 2009, essendo tutti abbastanza alticci dopo il pranzo, ballavamo piuttosto sguaiati e qualcuno, certo per burla, tirò giù dagli scaffali più alti della libreria i tomi di tutte le opere di Marx e di Lenin, volumoni rossi della Sansoni, e cominciò a passarli a ritmo di musica, in una sorta di ritmico passa-mano. Il volumone di Lenin arrivò ad un ragazzo rumeno invitato alla festa, fidanzato di un condomino di mia sorella. Questo giovane ragazzo si rifiuta di prendere in mano il volume, con la scritta Lenin in oro su coperta in similpelle rossa. Pensammo ad uno scherzo. Il suo volto cambiò espressione. Per noi, che avevamo sì e no conosciuto il comunismo di Berlinguer e di Occhetto e che ci era sembrato una minestrina tiepida, quel gesto dovette apparirci eccessivo, sproporzionato, o forse frutto naturale dell’anticomunismo maturato in quei paesi dove Lenin avevano dovuto impararlo a memoria, come da noi il catechismo. Ma negli occhi di quel ragazzo gay, molto bello, balenò un’ombra, il nostro ballo mi apparve improvvisamente osceno.

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Conclusione.

Quanto progresso e giustizia ha introdotto Lenin nel mondo? E quanto dolore ha introdotto?

E come fa un singolo essere umano a caricarsi sulle spalle il peso di tutto questo immane portato?

Scurati e Pecoraro non se lo sono domandato.

Moresco sì.

Lenin non esiste.

Esistono molti Lenin mancati, falliti, fucilati, comprati, scambiati, deportati, trucidati, torturati, eliminati.

Per un Lenin che trionfa ce ne sono tre, tredici, trecentodieci, tremilatrecendodieci che non ce l’hanno fatta.

Lenin è un individuo multiplo, uno dei milioni di busti.

La rivoluzione, il rovesciamento e la conquista del potere sono sotto il regime del caso.

Dovremmo qui introdurre il concetto di sacerdote/profeta come scommettitore fortunato sulla roulette delle possibilità, ma dovremmo aprire una lunga digressione.

Le ascese al potere sono tutte resistibili. Valga qui, e senza che ciò sia scambiato per banale equivalenza tra nazismo e comunismo, quanto scrive nelle sue memorie Stefan Zweig, e cioè che Hitler all’inizio fu uno dei tanti agitatori di cui pullulava la Germania.[10]

Né Scurati né Pecoraro sembrano avvedersene, sebbene soggiacciano anche loro a quello warning di cui abbiano detto. È chiaro che per ciascuno di loro Lenin, declinato come da ciascuno è declinato, non è sottratto alla «necessità storica», all’ «inevitabilità storica», anzi resta pur sempre un uomo del destino o della provvidenza. Non un sobillatore fortunato, non il principale artefice di una «lugubre buffonata», come Simone Weil definisce il bolscevismo in una lettera ad un’amica.

Per Scurati lo è anche Mussolini, uomo del destino e figlio del secolo. Ed ora sono, Lenin e Mussolini, mummie.

Per Moresco Lenin, il suo Lenin, continua ad agire, anticipandoci tutti. Perché non esiste.


[1] Alla notizia della morte di Lenin sembra che lo stesso Winston Churchill abbia dichiarato: «La Russia ha avuto due grandi disgrazie: la nascita di Lenin, e ora la sua morte».

[2] Basti qui riferire il detto di Vladimir Putin riguardo al comunismo: «Chi non lo rispetta non ha cuore, chi lo rimpiange non ha cervello.»

[3] Riferimento alla Terza Internazionale comunista (p. 12); ad un «ex scaricatore di carbone leninista (Giacinto Menotti Serrati, p. 34); a Eugen Levine, il «Lenin tedesco» (ibidem); ad una manifestazione del 19 aprile 1919 a Milano, dove ad aprire il corteo ci sono «ancora una volta le donne con alto il ritratto di Lenin e la bandiera rossa» (p. 36); al conseguente pestaggio dei manifestanti da parte di ufficiali dell’esercito ed Arditi, che li sbeffeggiando: «Grida viva Lenin, adesso. Grida viva Lenin!» (p. 37); ad un oratore socialista che, nel comizio, urla il suo rituale “Viva Lenin (p. 38); all’assalto alla sede milanese dell’Avanti, quando «migliaia di foto litografate di Lenin, pronte a essere spedite in tutta Italia, volano dalla finestra» (p. 39); alle «armate rosse si Lenin» (p. 68); alla «Russia di Lenin» (p. 72); al «Lenin di Romagna», epiteto con cui viene chiamato Nicola Bombacci (p. 78); a «Degott e Lenin per suo tramite», cioè al rappresentante dell’Internazionale comunista in Italia (p. 136); a Maksim Litvinov e Leonid Krasin, incontrati da Nicola Bombacci a Copenaghen, «emissari di Lenin»; «Lenin stesso – dice Mussolini a Marinetti – in Russia, si è arrestato di fronte all’autorità del Santo Sinodo. La religione va rispettata» (p. 207); al senatore Giovanni Agnelli che, dopo l’occupazione della FIAT, trova nel suo ufficio il ritratto di Lenin appeso al muro (p. 203); al ritratto di Lenin, stavolta adibito a sputacchiera in una sede del Fascio (p.235).  Si potrebbe proseguire nell’elencazione, ma quanto indicato è sufficiente a suffragare il nostro assunto.

[4] Siamo nei giorni immediatamente precedenti la Marcia su Roma.  Scurati termina questo capitolo con un riferimento alla clamorosa sottovalutazione dei leader socialisti. «In Italia, intanto (mentre cioè i leader comunisti sono già a Mosca, ndr) nelle stesse ore in cui decine di migliaia di camicie nere urlano “A Roma! A Roma” sulla piazza del Plebiscito di Napoli, a Milano i principali leader del Partito socialista, concordi nel non prendere sul serio quel proposito e nel valutare irrealistica quella minaccia, scortati dall’assoluta certezza che non stia accadendo nulla di importante, salgono sul treno per Mosca. »

[5] Non solo Lenin ha firmato di suo pugno sentenze di morte, ma è stato sufficiente un suo cenno mal interpretato per mettere a morte 1.500 controrivoluzionari. «Durante le conferenze e le riunioni, Lenin aveva l’abitudine di scrivere delle domande a lapis, e passarle ai compagni. Una volta ne passò una a Zerijnski, e chiedeva quanti controrivoluzionari esistessero nelle prigioni della capitale. L’appunto fu ritornato a Lenin con questa cifra: «circa 1500». Lenin lesse la risposta e vi segnò a margine alcune parole illeggibili e facendo una crocetta sul biglietto lo restituì a Zerijnski.

Costui lasciò la sala, senza salutare nessuno, com’era sua abitudine ma attirando l’attenzione generale. Fu solo la mattina dopo che l’incidente ebbe una spiegazione nelle sfere comuniste. Era successo che nella stessa notte i mille cinquecento controrivoluzionari erano stati fucilati. Zerijnski aveva interpretato il segno di croce di Lenin come un ordine a quello scopo. Ma era un errore; Lenin non aveva affatto inteso dare un tal ordine e Zerijnski aveva semplicemente commesso uno sbaglio. Lenin infatti soleva spesso mettere una crocetta sulle note che gli erano pórte, per indicare che le aveva lette e considerato il contenuto.» Ennio Flaiano, L’occhiale indiscreto, «Souvenir», Adelphi, 2019. Ringrazio per la segnalazione di questo passo Roberto Lazzerini.

[6] Questo aneddoto è riferito da Luigi Zoja in Paranoia, La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri, 2011.

[7] M cit., p. 357.

[8] Così Francesco Pecoraro ha risposto alla domanda del sottoscritto, posta al termine della presentazione del suo romanzo a Perugia, Umbria Libri, sabato 5 ottobre 2019. Pecoraro ha aggiunto di aver letto il libro, di considerarlo un grande libro, ha inquadrato Moresco come ex militante di Servire il popolo, il cui capo è poi traslocato in Forza Italia. Ha dichiarato di non ricordarsi dell’apparizione di Lenin.

[9] Difficile non pensare alla campana del film Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij. Le propagazioni simboliche di quel rintocco nel film di Sokurov sono così profonde che occorrerebbe un saggio a parte.

[10] «[…] C’era soprattutto un fanatico agitatore di nome Hitler, che teneva adunate a base di risse selvagge e aizzava il pubblico nel modo più volgare contro la repubblica e contro gli ebrei. Il nome cadde dentro di me senza peso e non mi occupò oltre. Quanti nomi oggi del tutto dimenticati di sobillatori e di rivoltosi venivano allora a galla in Germania, per sparire poi altrettanto presto! C’erano il capitano Ehrhardt con le sue truppe baltiche, il generale Kapp, la setta degli assassini della Santa Feme, quella dei comunisti bavaresi, dei separatisti renani, ecc. ecc. Nel fermento generale si formavano a centinaia queste bollicine che scoppiando non lasciavano dietro di sé altro che un po’ di cattivo odore, il quale rivelava chiaramente il processo di putrefazione nelle ferite ancora aperte della Germania. […]» Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Incipit Hitler.