[Antonio Moresco è un eretico della letteratura. Le considerazioni che seguono sono chiose a Lettere a nessuno e a Gli esordi]
Se Moresco ha commesso un errore, questo è di aver preso sul serio la letteratura. Ha bussato per anni, con la pazienza di un’ape operaia, alle porte girevoli dell’editoria, sebbene essa producesse principalmente merda e lasciasse transitare, da quelle porte scorrevoli ma non soccorrevoli, le mosche cocchiere, le api con il miele, no.
Ha bussato per anni, Moresco, con la pazienza, dicevamo, di un’ape industriosa e infaticabile. Di un’ape operaia che, ostinatamente, scambia per un’arnia un cesso pieno di merda.
Se un errore di Moresco vi è stato, l’errore è stato di aver preso sul serio, troppo sul serio, la letteratura, al punto di scambiare un merdificio per un mielificio. Un maleficio per un mielificio, anche.
Se c’è un errore di Moresco, l’errore è quello di non aver preso sul serio la letteratura. La letteratura è una cosa seria, Moresco: la letteratura sono cravatte, bonifici bancari, viaggi in Pappagonia pagati per scrivere un reportaggio, il conto delle pompe funebri per il funerale dell’anziano padre odiato e poi rimpianto, l’asilo nido dei figli a € 700,00 al mese fino alle 15.45, la letteratura sono i pannolini, i rimborsi spese, il gettone di presenza, il mutuo per la casa, il mac su cui scrivere il nuovo romanzo. Vai a fare il frate in convento, Moresco, vai a fare il mendicante scalzo in Africa, frate Moresco del cazzo.
La letteratura è una cosa seria. La letteratura enno soldi.
Moresco e la rivoluzione 1.
Se una colpa ha Moresco, è quella di aver preso sul serio la rivoluzione. Quando tutti la abbandonavano, lui, come Enea con l’anziano padre Anchise, se l’è caricata sulle spalle, e l’ha portata in salvo attraverso gli incendi dell’ideologia e l’ha nascosta, per proteggerla, sotto il velo di parole come oltranza, radiante, inarreso, prefigurazione, ecc. Naturalmente i veri rivoluzionari irriducibili non la presero bene, non ci misero molto ad additare un altro traditore, un altro reazionario, un altro disertore.
Se Moresco ha una colpa, questa è di non aver preso sul serio la rivoluzione. Mentre la nave della rivoluzione si fracassava sugli scogli, Moresco si è illuso che non solo i marinai, ma anche gli ufficiali di vascello, i nostromi e financo gli ammiragli si buttassero a mare e buttassero a mare le loro uniformi, i loro gradi e le loro spalline, le loro dottrine e le loro mappe di navigazione.
Si è sbagliato, Moresco, perché la rivoluzione è una cosa seria, e quantunque la nave sia affondata gli ufficiali, i nostromi e l’ammiraglio continuano ad emanare direttive ai naufraghi dalle tolde immateriali, ma ben remunerate, delle università e delle case editrici.
La rivoluzione, Moresco, è una cosa seria.
Moresco e la rivoluzione 2.
Moresco non smette di girarle attorno, le cambia solo il nome: sostantivi come ferita, lacerazione, collasso seguiti da disseminazione, irradiazione, binomi come lacerazione-moltiplicazione, ma anche aggettivi sostantivati come impensato, incalcolato, inconciliato, inarreso.
Moresco e la conoscenza del mondo
Uno scrittore, per essere tale, credo che fondi il suo essere tale su due pilastri: una grande sventura e una vasta conoscenza di un ambiente umano. La sventura può essere tanto esterna quanto interiore, poco cambia. Quanto alla conoscenza degli uomini, invece, una lunga esperienza in qualunque umano consorzio, vuoi il salotto per Proust, vuoi il seminario per Joyce, sono basilari. Per Moresco, senza che ciò dia adito a inutili equipollenze, la lunga esperienza in un’organizzazione della sinistra extra-parlamentare è decisiva. Da lì vengono il pullulare dei caratteri, da lì vengono le storie.
Moresco e la metrica
Leggendo Gli esordi penso di aver scoperto una cosa. Si tratta di una scoperta talmente evidente che ai critici sarà sfuggita. Gli esordi non è un romanzo ma è un poema costruito in larghissima parte su uno schema metrico composto di due settenari o di un quinario e un endecasillabo. Quasi tutti i periodi terminano con un endecasillabo. Mi sono accorto di ciò perché notavo che mi distraevo dall’immagine ma venivo comunque trascinato ad andare avanti nella lettura da un qualcosa di meccanico, che poi ho individuato essere pura e semplice metrica.
Moresco e la musica
Sarà allora per quanto detto sopra che Moresco scrive (Lettere a nessuno) che durante la stesura, durata quasi quindici anni, de Gli esordi non poteva ascoltare la musica, l’ascolto della musica lo disturbava, lo distoglieva, interferiva con la sua musica.
Moresco è un pesce?
Moresco è un pesce fuori dell’acquaio letterario italiano. Sta fuori dal vetro, guarda fisso, non si sa come respiri, ma non muore.
Moresco e i vip
Una cosa che si è poco rimarcata nella poetica di Moresco sono le non rare agnizioni di scrittori famosi o di critici rinomati. Sono apparizioni improvvise, così «impensate» da risultare decontestualizzate, dove emerge, principalmente, un disallineamento tra lo scrittore celebre e quello in carne ed ossa che Moresco vede apparire dinnanzi ai propri occhi. Si tratta di disincontri sempre deludenti, dove solo una cosa si rafforza, la convinzione che per uno scrittore la celebrità e la fama non è una fortuna, ma una sciagura. Il riconoscimento di Abraham Yehoshua a Milano, in viale Hoepli, di fronte all’Hotel de la Ville… (Lettere a nessuno, p. 618). Moresco non manca, più in generale, di registrare il riconoscimento per strada di personaggi famosi, come nel caso del sindaco Pillitteri, per esempio…
Moresco e il papa
… e la visione o apparizione di Woityla, visto di scorcio, incorniciato in una finestra aperta della diocesi di Milano, nel retro dell’edificio, in una notte afosa d’estate, un ritratto tra l’ultimo Tiziano e Francis Bacon, colto mentre prende congedo dai pochi privilegiati fedeli rimasti a salutarlo prima che si corichi…
Moresco davanti all’obiettivo
Non so quanti critici, di quelli che si sono occupati di lui, avranno notato che nelle foto che lo ritraggono Antonio Moresco non guarda mai in camera, i suoi occhi sono abbassati, in un atto di autoprotezione, si direbbe, di smarrimento lievemente circospetto, di infinita mestizia, soprattutto, che contiene la verecondia, l’imbarazzo, la timidezza e la compassione, virtù negative e oppositive alla sfrontatezza dei selfie di oggidì.
Ma il punto non è solo questo, non è questo il problema.
Se si guardano bene queste foto, si nota che dietro le due lenti rotonde i due occhi prendono direzioni ed espressioni non convergenti. Un occhio è decisamente semichiuso, la palpebra essendo calata di un 75%, si direbbe quasi un qualcosa di congenito; l’altro occhio sembra un po’ più all’erta, sebbene sia spalancato solo come una fessura, al 35% delle sue possibilità. Si tratta di un’allerta non meno vigile sebbene non proclamata. Lo sguardo di Moresco non è unidirezionale. Il padre Priore de Gli esordi ha due teste, due facce. Ecco, si potrebbe dire che la figura del Priore, più che grottesca, sia un autoritratto. Normalmente, e ipocritamente, l’integrità dell’io abbisogna, per consistere in se stessa, della deformazione grottesca del non-io, dell’altro. È solo un’idea, forse sbagliata, ma è probabile che i veri scrittori siano coloro che riescono a lavorare di sbalzo con le deformità non degli altri, ma con quelle di se stessi.
Essere o non-essere
Nella mischia tra l’essere e il non-essere, in cui, che lo voglia o che non lo voglia, si trova invischiato ogni scrittore, e forse ogni essere umano, la posizione di Moresco è singolare. Egli, come molti scrittori aspiranti alla pubblicazione, ha dovuto incassare, come è noto, una sfilza di rifiuti editoriali. A differenza di molti scrittori, anche di quei pochi che alla fine hanno incassato un contratto, Moresco ha fatto, della sua odissea editoriale durata quindici anni e forse più, materia della sua scrittura.
Nell’altalena tra l’essere e il non-essere Moresco non ha molta scelta: il suo stato, la sua posizione è inchiodata al non-essere, all’altalena in posizione statica, rimuginativa, rammemorativa, ebetudinaria. Per spiccare i folli voli della fantasia, l’altalena di Moresco deve restare in posizione di riposo, orizzontale (solo così per lui è possibile sprofondare nella verticalità). Moresco sembra come un bambino imbronciato, che occupa l’altalena, la sequestra ad altri bambini che fremono per librarsi avanti e indietro, ma resta fermo.
È naturale, normale, che l’editore diffidi di uno scrittore come Moresco.
Perché però Moresco sta fermo su quell’altalena? Se scrivi e lo fai in vista della pubblicazione, è evidente che accetti l’altalena, il suo oscillare vertiginoso tra il non-essere della stasi e l’essere dello slancio (e del lancio commerciale). Moresco, come ogni innamorato deluso, si nasconde al parco e medita sulla sua sventura seduto fermo sull’altalena. Lui aveva dell’editoria un’idea salvifica, gloriosa ed eccelsa, propulsore lei dell’incalcolato, dell’impensato, dell’inarreso, della moltiplicazione, e invece si è dovuto amaramente ricredere. Pensava, Moresco, che essere pubblicati fosse davvero prendere lo slancio e librarsi sul firmamento dell’Inconciliato, qualunque cosa ciò possa significare. Ha atteso, Moresco, quasi venti anni per questo lancio, ma quando alla fine, sulla soglia dei quaranta anni di età ciò è avvenuto, è stata una catastrofe, in senso etimologico. Pensava, Moresco, che all’apice dell’oscillazione dell’altalena vi fosse la pienezza del non-essere, della disseminazione al suo grado più esteso, l’irradiazione, un principio di r […]; e invece ha dovuto constatare, Moresco, che lassù non c’è tutta quella vista che si pensa, che con la stessa velocità alla quale si ascende si ridiscende, e che i salotti, le cene, i festival, i convegni non sono tutta questa goduria e pienezza del non-essere…
Eppure Moresco, e non vuole essere un paradosso questo, è il cantore più puro che l’editoria, l’industria editoriale contemporanea abbia mai avuto. Lettere a nessuno sono lettere d’amore, dichiarazioni d’amore verso l’editoria, gli editori e gli editors. Più si allontanano da lui e più lui, come l’utopia di Galeano, si mette in cammino. Mai l’editoria era stata cantata, prima di Moresco, per quello che davvero è: la terra promessa. Quando poi esausto, stremato è approdato a tale terra promessa, come ogni innamorato finalmente appagato e corrisposto, è rimasto deluso, Moresco.
In cima all’altalena, Moresco sperava, segretamente lo sperava, ma era stata, questa, la sua speranza più grande, Moresco sperava che il mondo, il parco pubblico, si mettesse anche lui a girare, si inclinasse paurosamente, come paurosamente inclinato è spesso il mondo delle sue visioni. Che in cima all’altalena il non-essere, in quel punto immobile ed eterno della stasi aerea, riprendesse i suoi inalienabili diritti. Macché, niente da fare. Il mondo, il parco, il giardino dell’eden dell’editoria restava fermo, tetragono, inconcusso. Non si spostava di un millimetro. Allora capì, Moresco, che non era quella la cosa che aveva tanto desiderato in cuor suo. Capì che l’editoria lo aveva truffato, che lo aveva sì pubblicato ma non lo aveva seguito, che il non-essere era appannaggio esclusivo di essa; non aveva, Moresco, per anni e anni, per notti e notti battuto sulla macchina da scrivere per vedersi sottrarre quel privilegio di immobilità, quella sospensione dell’essere che aduna tutte le tempeste.
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Foto di copertina Antonio Moresco, 2019, by L’Errore di Kafka.