[1. L’appartenenza/disappartenenza dell’intellettuale alla classe di riferimento]
Lasciamo perdere la constatazione, divenuta ormai rituale, secondo cui gli Intellettuali oggi non ci sono più (normalmente la constatazione si innerva di rimpianto per la perdita di padri eretici, Pasolini in primis). Andiamo qui alla ricerca della «funzione intellettuale». E proviamo a definire che cosa si può o si poteva intendere per intellettuale. Chi è o chi era un intellettuale?
Proviamo a avanzare un’ipotesi: l’intellettuale parla della e alla comunità cui appartiene e ne parla non sull’onda dell’evento contingente ma in fase riassuntiva e riflessiva. Non è un opinionista, siamo d’accordo. Manca qualcosa, però. L’intellettuale parla da una certa distanza rispetto al suo pubblico di riferimento. L’intellettuale non è un suscitatore di unità, almeno non nell’immediato, non è un demagogo, non è un influencer.
Oggi assistiamo a quella che è stata definita una neo tribalizzazione delle nostre società. Venuta meno la centralità dell’entità statale unificatrice, e venuta meno l’importanza dei corpi c.d. intermedi, viviamo in un nuovo medioevo in cui risorgono i particolarismi. Ogni particolarismo ha il suo corifeo, una sorta di coach che incita la squadra che allena alla vittoria. Identità e appartenenza sono le parole magiche del presente.
L’intellettuale non è il coach, non è l’allenatore di nessuna squadra, questo possiamo intanto dirlo.
Ma andando un po’ avanti possiamo dire che l’intellettuale nel mentre parla alla comunità cui egli stesso appartiene le disappartiene. È un disertore parziale, un uomo a cui, per carità, piacciono anche i salotti e le serate con bella gente dell’editoria e del cinema, o le feste dell’unità e le salsicciate, o i sobborghi e i giretti malfamati, ma che poi si estranea dall’ambiente che frequenta e, guardandolo un po’ dall’esterno, ne fa la diagnosi. La bella gente dei salotti, i braciolari delle feste dell’unità e i borgatari lo stanno ad ascoltare se non ammirati certo rispettosi.
Il novecento ha insegnato che gli intellettuali più sferzanti della borghesia sono borghesi, quelli più sferzanti della nobiltà l’hanno frequentata assiduamente, come Proust. Mi sembra che una cosa analoga la dica da qualche parte anche Franco Fortini da Francoforte.
Per fare un intellettuale ci vuole una grande comunità, un partito di massa, una chiesa, un’ideologia. Oggi che non esiste più nulla di ciò, chiesa a parte, l’intellettuale sembra sparire, perché la sua disappartenenza svanisce nell’insignificanza. Si disappartiene fragorosamente solo a una comunità enorme.
[2. Il declino dell’intellettuale]
L’intellettuale non interviene in «tempo reale» su nessuna questione. L’intellettuale ritorna sulla questione, e vi fa ritorno solo quando l’opinione pubblica (=oggi, per semplicità, il sistema dei media) ha già digerito e apparentemente evacuato la questione.
L’intellettuale ripensa la questione nella fase intermedia tra la digestione e l’evacuazione. Questa collocazione intestinale spiega al tempo stesso il declino dell’intellettuale e il suo essere «scomodo».
I tempi della stampa prima, e quelli della connessione totale poi, conducono alla sparizione dell’intellettuale, il quale (1) o si trasforma in opinionista (Cacciari) o (2) si rifugia nello studio (Agamben).
L’espulsione o l’autoesclusione dell’intellettuale dal circuito dell’informazione è ciò che costituisce la sua «funzione» moderna. (Per incidens non si può non osservare che la locuzione «intellettuale organico», ora caduta in miseria o oblio o desuetudine, è una contradictio in terminis. Di detta locuzione si è dovuto registrare, in un’epoca storica da poco passata, un certo incauto e massivo utilizzo.) La «scomodità» dell’intellettuale è essenzialmente dovuta alla sua vocatio, al fatto che egli ritorna sulla questione che si vorrebbe ormai digerita ed evacuata. Ciò lo vorrebbe massimamente la classe di appartenenza dell’intellettuale, la quale comincia a sbuffare contro quella «cariatide», contro quel «venerato maestro» un po’rincitrullito.
[3. Il paradosso dell’intellettuale]
Sebbene l’intellettuale, per come abbiamo cercato di delinearne il profilo, si caratterizzi per il fatto di non scendere nella mischia del dibattuto in tempo reale, a ridosso cioè dell’evento, è innegabile che all’intellettuale venga richiesto di «stare sul pezzo», di intervenire quando la questione è rovente e prima che detta questione o si raggeli o diventi un vasto incendio. Si fa appello alla forza profetica dell’intellettuale o, se non a quella profetica, a quella lucidamente anticipatoria.
Prenderemo in considerazione due intellettuali della prima metà del novecento, Klaus Mann e Arthur Koestler (quest’ultimo resterà una voce intellettuale, isolata e pertanto autorevole, anche per buona parte della seconda metà del novecento). Klaus Mann pubblica nel 1936 ad Amsterdam Mephisto, una lucidissima anticipazione in forma satirica di quello che sarà il vero volto del nazismo, che all’epoca (1936, appunto) godeva ancora di rispettabilità e di non poche simpatie internazionali. Arthur Koestler pubblica a Londra nel 1940 Buio a mezzogiorno (Darkness at noon). Lo ha scritto nel 1940, in epoche non sospette, si direbbe oggi, quando ancora le procedure staliniane non erano note alla vasta opinione pubblica internazionale, come poi divennero. I due libri citati – i quali, dati i tempi editoriali degli anni ’30 del secolo scorso, potrebbero essere definiti anche come instant book – intervenendo in tempo reale costituirebbero una smentita dell’assunto circa lo scarto temporale in cui interviene l’intellettuale. Ma in questi due libri menzionati non è più all’opera il ruolo dell’intellettuale[1], è all’opera un’altra forza, che è quella profetica o anticipatoria. La funzione intellettuale è riflessiva e posteriore, quella profetica precede l’evento, è rischiosissima, e genera quasi sempre fallimenti. Non nel caso di Klaus Mann e di Arthur Koestler. Non nel caso, più generale, di Franz Kafka.
[4. Le fascette editoriali]
Il ruolo di appartenenza/disappartenenza dell’intellettuale alla classe o comunità di riferimento, nel suo eclissarsi dallo scenario odierno, ha lasciato una scia nelle fascette editoriali che promuovono i libri in uscita.
La legge che governa la comunicazione di dette fascette, usualmente compendiate in un succinto slogan di pochissime parole, riecheggia il principio di disappartenenza, ed è la seguente:
AUTORE (-Xⁿ) : COMUNITÀ = LIBRO → LETTORE
Xⁿ indica il gradiente di appartenenza dell’autore (intellettuale) alla comunità (dei lettori di gialli, per esempio, degli «indignati» contro la casta, dei golosi di storie di mafia o di camorra, dei solidali con i migranti, ecc.). Il segno meno anteposto alla formula indica il grado di disappartenenza dell’autore alla comunità.
La fascetta si rivolge non all’universalità del pubblico (perché in un caso siffatto non vi sarebbe spazio di disappartenenza, nessuno appartenendo totalmente alla comunità generale), ma ad una comunità particolare, per quanto vasta ed al limite confinante con quella generale (questo avviene con la letteratura crime, per esempio, ma più ancora nella letteratura impegnata contro le mafie, giacché: chi è pro mafia?). La fascetta dice: caro membro della comunità, ti presentiamo un libro destinato a te e alla comunità cui appartieni, libro che estende e rinforza l’ambito di influenza della tua comunità e di conseguenza di te stesso, in quanto è scritto da un autore che, seppure appartenente alla comunità, se ne distacca (-X) di quanto (ⁿ) occorre per non risultare conciliatorio o consolatorio, e di quanto è necessario per fungere da pungolo per quella parte della comunità che troppo si adagia sul canone acquisito e che reclama la mera ripetizione. Questo che ti stiamo presentando ora è un libro «nuovo» perché nel mentre ti conferma nelle certezze comunitarie di appartenenza non viene meno al suo doveroso ruolo di bacchettare chi si adagia troppo (non tu, lettore, sia chiaro!). L’intellettuale si è nascosto nelle redazioni delle case editrici.
[5. Sopravvivenze dell’intellettuale]
Oltre le fascette editoriali, la funzione intellettuale sopravvive oggi in una figura che, seppure non immune dall’intervenire in tempo reale sulle sciagure top trends, si caratterizza per assumere una certa distanza prospettica dal presente accadere dell’evento, riservandosi spazi di riflessione su questioni non battute dalla agenzie di stampa e mostrando altresì di disappartenere in parte alla comunità cui appartiene e che rappresenta al massimo grado di potere. Papa Francesco, sin dal nome che si è scelto, disappartiene alla Chiesa cattolica cui appartiene, alla comunità potenzialmente universale dei fedeli. Non solo non dorme negli appartamenti papali ma, come un normale sacerdote, in un monastero (Santa Marta). Andando contro le gerarchie e gli intrighi di palazzo fustiga i preti pedofili, rubrica i corrotti e i mafiosi come peccatori, annovera tra i peccati contro dio i reati ambientali, usa parole indulgenti verso gli omosessuali («chi sono io per…»).
Papa Francesco è un riformatore. Il doppio ruolo di intellettuale e capo
di una potente organizzazione mondiale è una sofisticatissima mistificazione,
sofisticata come la provenienza di Bergoglio, che è un gesuita. La
disappartenenza, nel caso di Bergoglio, è non solo quella alle gerarchie della
Chiesa, e agli intrighi di palazzo; ma è una disappartenenza alla comunità del
presente, il papa parla con una cantilena, con un tono salmodiante, che è una
traccia superstite della funzione fuori campo dell’intellettuale.
[1] Sebbene sia Klaus Mann che Arthur Koestler siano accomunati dalla disappartenenza alla classe di riferimento: Klaus Mann si dissocia dalla sua famiglia; Arthur Koestler si dissocia dal comunismo, cui aveva aderito.