Materiali di studio. 4

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C’è nessuno là dentro? Del sogno simbolico

Il sogno simbolico («che veste di metafore, come una specie di indovinello, un significato che è incomprensibile senza la spiegazione», Eric Dodds, I greci e l’irrazionale, Rizzoli bur, 154) costituisce una prova per inferenza della natura «duplice» della psiche umana. I sogni parlano un linguaggio cifrato per non farsi capire da qualcuno o per non offenderlo, ed evitare così una sua reazione. Chi sarebbe questo qualcuno? Una parte, una funzione della psiche del sognatore. Qui si divaricano (in apparenza) due possibilità alternative: 1. Questo qualcuno è supero; 2. Questo qualcuno è infero. Questo qualcuno non deve capire il significato del sogno perché è più forte di noi (supero) e se lo capisse si adonterebbe e ci potrebbe far male; questo qualcuno è più debole di noi (infero) e se comprendesse il sogno si offenderebbe e ci incolperebbe. Finora mi sembra prevalente che la censura nel sogno sia concepita come una protezione da una minaccia che incombe possente (il sogno simbolico è scritto in un codice criptato, come quello dei congiurati che non devono farsi scoprire dalla polizia segreta del tiranno); meno studiata mi sembra la seconda ipotesi, quella per cui la crittografia/censura sarebbe posta a protezione di una fragilità che rischierebbe di andare in frantumi qualora accedesse al vero significato onirico (la cifratura del sogno, in questo secondo caso, sarebbe equivalente a due adulti – genitori? – che parlano tra di loro alla presenza di un bambino, o di due persone sane che parlano alla presenza di un malato, o di due persone normali che parlano alla presenza di un handicappato o di un demente, usando un linguaggio inaccessibile al terzo presente.

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Note sull’umano

«Umano», «umanissimo» indica una qualità residuale, ma resistente, resiliente si direbbe oggi, e alla fine trionfante su ogni altra meno mite e meno tollerante qualità.

Definire cosa sia «umano» non può farsi se non a contrariis, individuando ciò che «umano» non è.

Inizialmente la fiera, la belva, la bestia, l’animale.

Poi il dèmone, il diavolo, il demonio, la tentazione, la possessione, ciò che incombe sull’umano essendo però da esso distinto, entità separata.

(Sarà un caso se anche un papa come Bergoglio, pur con tutta l’apertura al moderno e le spallate alla parte più polverosa della dottrina, abbia recentemente riaffermato l’esistenza del diavolo?).

Infine la macchina, la tèchne, il fucile, il cannone, il carrarmato, il caccia bombardiere, la bomba atomica, il computer, internet, la robotizzazione, l’intelligenza artificiale.

Dagli giù a delimitare un giardinetto ben curato, anche se nascosto, dove alla fine dei giochi tutti, chi prima chi poi, tornano, il violento (la belva), il malvagio (il diavolo), l’alieno (la tèchne).

Come se la belva, il diavolo e la tèchne non fossero elementi costitutivi dell’umano, come se, poretto, l’uomo, e con lui l’«umano», l’«umanesimo», l’«umanissimo» fosse quel brandello di carne superstite dopo che le tre furie inumane e disumane, la belva, il diavolo e la tèchne se lo sono sbranato, e non fosse invece l’entità trifauce che divora se stessa.

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Ulisse di Joyce e il coro tragico

Nella intro alla sua traduzione italiana (Newton & Compton) Enrico Terrinoni parla di quella voce fuori campo che viene a interferire nella narrazione, e richiama il concetto di orchestratore e più avanti di inconscio testuale. La paternità del famoso flusso di coscienza viene fatta invece risalire ai monologhi shakespeariani. È evidente che invece la genealogia di quella voce «esterna» sia più semplicemente da riconnettere, come una sua filiazione, al coro tragico. Il coro si pone a metà strada tra quello che pensa il personaggio e quello che pensa il lettore (il pubblico, la polis). E a questo punto si può anche sostenere con qualche argomento che il coro tragico, la funzione di esso, sia anche alla base del flusso di coscienza (e perché no, anche del monologo shakespeariano). In fondo nel flusso di coscienza non è più il solo personaggio che pensa come soggetto, ma chi parla è un soggetto dilatato, pluripersonale, co-individuale. Se proprio la vogliamo dire tutta, il coro tragico sta anche alla base dell’inconscio collettivo junghiano. Sotto questa prospettiva si possono spiegare agevolmente sia una certa oscurità del flusso di coscienza sia la sua procedura ellittica e per frammenti. Il coro tragico, erede a sua volta della funzione oracolare, non raramente è oscuro. L’ellitticità e la frammentarietà sono, oltre che la condizione filologica nella quale ci sono giunti i materiali del coro tragico, sono appunto le modalità attraverso cui si estrinsecano le oscurità e le voci plurali dell’io.

Lo stato delle arti © erroredikafka.blog

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2.8.19 – XXXIX anniversario strage stazione Bologna

Dell’eroismo e dell’erotismo

Per secoli, per millenni, certamente dal cominciamento dell’Australopiteco, essere uomo ha significato principalmente saper uccidere un altro uomo, oltre ovviamente a saper uccidere le fiere. Questo è durato ininterrottamente da allora fino, direi, alla riforma del diritto di famiglia e all’abolizione del delitto d’onore, fino all’altro ieri. In molte parti del mondo essere uomo significa ancor oggi saper uccidere un altro uomo. Non importa se con il pugnale o con un arma da fuoco. Io non sono capace di uccidere un altro uomo. Non saprei come fare, non so come si affonda il pugnale o come si strangola o come si spara.

Da quando in alcune, poche aree del mondo, essere uomo non coincide più con la capacità omicida è avvenuto questo: la rinuncia alla vendetta, la rinuncia al delitto passionale, la rinuncia alla scarica liberatoria della violenza ha operato una traslazione di questa energia compressa ed inesplosa all’interno della psiche, dove esplode: sono insorte lotte e guerre interiori, dove i nemici assumono le sembianze dell’ansia e dell’angoscia. Talvolta alcuni di noi, sopraffatti, usano malamente un coltello da cucina, o una bottiglia di vetro spaccata, o una corda, ma dopo vengono sottoposti a trattamento e sedati.

Faccio una breve digressione letteraria – ma cos’è la letteratura se non una lunghissima digressione dallo statuto ferino dell’essere uomo? Quello che qui sopra ho tentato di dire lo ha detto, e con il suo consueto mirabile dono di sintesi, Vladimir Nabokov. Da qualche parte il solito io narrante racconta di come avesse dovuto abbozzare, per non sembrare antiquato e demodé, di fronte alle «amicizie» della sua giovane moglie con altri uomini, in particolare con un altro uomo. Quando capitava di incontrare l’altro uomo alle feste, feste sofisticate, beninteso, l’io narrante ci parlava come se nulla fosse, nascondeva con i sorrisi e le battute la sua folle gelosia, ma in cuor suo avrebbe voluto prendere a bastonate il rivale, come un qualsiasi rude plebeo.

La rinuncia al rude plebeo che è dentro ognuno di noi ci è costata, e ci costa, cara.

La stragrande maggioranza degli uomini – degli umani maschi – vive ancor oggi su questo pianeta identificando il proprio status di uomo con la capacità di uccidere un altro uomo. E non penso solo ai Talebani, o ai Ceceni, o ai terroristi del Califfato. Il recente delitto di Roma, dove un giovane statunitense ha pugnalato, uccidendolo, un carabiniere, conferma che questo assunto non riguarda soltanto i paesi e i popoli meno sviluppati economicamente e meno democratici.

Noi inadatti all’omicidio siamo minoranza. E siamo bastonati due volte, perché non solo ci sobbarchiamo il fardello di reprimere l’impulso omicida, con tutto ciò che come si è detto ne consegue; ma dobbiamo pure percepire una sorta di sorda derisione da parte delle moltitudini avvezze alla strage. Siamo tornati ad essere gli imbelli, i froci della nonviolenza, le femminucce pacifiste. Ci cachiamo sotto se ci troviamo nei paraggi di una sassaiola, fuori dallo stadio. È, come sempre, una questione di eroismo (e di erotismo). In rari momenti della storia della fiera umana, in certe civiltà all’apice della raffinatezza, l’eroismo è di chi non si lascia travolgere dalla pulsione omicida, di chi si dedica alla filosofia e alla musica, di chi eccelle nell’arte della conversazione non in chi trionfa nelle risse. Purtroppo queste epoche non solo sono rare, ma durano poco. Camminano sul crinale sottile di un precarissimo equilibrio, e basta un nonnulla (mi viene in mente la Repubblica di Weimar, ma è solo un esempio) perché tutto riprecipiti nella concezione australopiteca dell’eroismo (e dell’erotismo), perché l’eroe non sia più quello che sa maneggiare una penna o suonare una chitarra ma quello che sa come si impugna, e si affonda, il coltello.

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