Si è soliti pensare ai grandi scrittori come a dei grandi benefattori dell’umanità, e ciò è probabilmente vero, ma lo è non solo nel senso che essi arricchiscono l’umanità di una saggezza e di una bellezza che prima di ciascuno di loro non c’era, ma anche – e forse soprattutto – in un altro senso, a cui non si è soliti por mente.
In ogni grande scrittore alberga un formidabile genio del male, non meno potenzialmente letale di un fisico nucleare.
Si è soliti pensare ai grandi scrittori come a grandi anime aliene dal male, a grandi fari nella notte dello spirito e del verbo. Fatta eccezione, nel novecento, per Celine (e, nel settecento, per Sade), nessuno scrittore, nemmeno il più depravato dei maledetti, è reputato un alleato del male. Lo scrittore ha un’anima buona, e un animo orientato al bene, se parla e si e ci intrattiene con il male è solo per attraversare il campo minato dell’esistenza, e aprire una via, a suo rischio e con grande pericolo, perché altri possano agevolmente passarci. Lo scrittore come una guida alpina, insomma.
Nessuno pensa mai ai grandi scrittori come a confezionatori di micidiali ordigni capaci di far saltare per aria intere società umane, o l’umanità intera. Si erra se si pensa che Kafka non fosse capace di elaborare un sofisticato e infallibile programma di sterminio di tutta l’Europa; si erra se si pensa che Kafka sia da meno di Hitler, da un lato, e di Einstein e Oppenheimer dall’altro. «[…] se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo», dice con parole sue Pasolini (citato da Giovanni Giudici, prefazione a Bestemmia. Tutte le poesie), esprimendo, seppure ad altri fini, la medesima avversione verso il poeta innocuo.
Il fatto poi che Kafka non si sia dedicato allo sterminio dell’Europa o che non si sia dedicato al confezionamento dell’ordigno nucleare è una mera circostanza occasionale, che nulla depone circa la sua incapacità di fare l’una e l’altra cosa. L’opera di Kafka non è meno ingegnosa della pianificazione nazista né meno complessa della bomba atomica.
Quando quindi pensiamo ai grandi scrittori come a grandi anime innocue, dovremmo provare invece a vederli come grandi criminali in pectore, gente capacissima, per intelligenza e profonda conoscenza dell’uomo e della natura, di portare l’umanità alla distruzione e alla sua autoestinzione.
Non che essa, l’umanità, non ci stia già provando, ma i suoi sforzi in quella direzione sono frenati o rallentati dal suo istinto di autoconservazione.
Ci metterebbe cinque minuti Shakespeare a far deflagrare una guerra civile europea, un «euxit» su larga scala, sol che lo volesse. Al confronto, Putin o Trump impallidiscono. Ci metterebbe meno di cinque minuti, William, e penetrando nelle menti sortirebbe un effetto anche più pervasivo delle esplosioni nucleari, che nulla potrebbero contro coloro che scendono nei bunker sotterranei. Gli basterebbe, al bardo, una mezza paginetta ma, come Kafka, preferisce dedicarsi ad altro, a disinnescare, non ad innescare, ordigni.
Se solo avesse voluto, Tolstoj avrebbe guidato le masse russe ed europee dove voleva, anche al diavolo. Ma si è dedicato ad altro. L’opera filosofica e politica di Lenin impallidisce, al confronto.
Si è soliti, oggi più che mai, considerare gli scrittori come operatori umanitari in tenuta letteraria.
Visti gli scandali sessuali che sono venuti a galla nel campo delle ONG, si potrebbe sperare che anche in loro alberghi la propensione al male, e ciò ci dà fiducia nel futuro della letteratura.